Differenze di prospettiva

Può bastare un desiderio forte a spiegare e giustificare pratiche invasive quando non, addirittura, costituire - in qualche modo una garanzia per il figlio in arrivo?

Differenze di prospettiva

 

Un figlio, non importa come. Senza dubbio è un desiderio forte quello che spinge migliaia di persone a sottoporsi a pratiche invasive, inseguendo il miraggio del 'figlio che mi somiglia'. È l'unica spiegazione possibile, se si eccettuano episodi di follia collettiva. Ma può bastare un desiderio forte a spiegare e giustificare tale pratica quando non, addirittura, costituire - in qualche modo una garanzia per il figlio in arrivo?

La mia prima risposta è dubitativa. I desideri, nella vita, sono tanti. Magari bastasse averne, per poterli vedere realizzati! Saremmo tutti ricchi, probabilmente.

 

Spesso, la vita è molto più complicata di come mostrano in certi film zuccherosi, da lieto fine al termine di un corteggiamento plateale. Nella realtà, il difficile arriva dove finisce il film: una volta conquistata l’anima gemella, il problema è attraversare, rigorosamente insieme, le tempeste della vita su una stessa barca (che, il più delle volte, assomiglia senza dubbio più al classico guscio di noce che ad un transatlantico!). La vita a due, tentativo di armonizzare le rispettive differenze in un tutto che possa rappresentare un ingranaggio, se non perfetto, quanto meno, ben funzionante e sereno, non è - probabilmente, non potrà mai esserlo! - né una banalità né una cosa semplice. L’amore richiede, al contempo, rispetto delle differenze, stima reciproca, capacità di accogliere l’altro integralmente (difetti compresi!): inevitabile quel compromesso, svuotato della sua accezione negativa, che si ritrova ad essere, in realtà, quel venirsi incontro indispensabile per fare di note sparse la migliore delle sinfonie possibili.

 

Il problema dell’infertilità sorge spesso molto tardi, all’interno della vita della coppia, anche per motivi culturali (parlo, naturalmente, dell’Occidente: in Africa o in Asia il problema, per vari motivi, è decisamente poco sentito). Impregnati di un clima decisamente ostile all’infanzia, che insiste intenzionalmente sulla contraccezione e raccomanda tutti i modi per non correre l’inenarrabile rischio di una gravidanza (è buffo: proprio in questi tempi, in cui nei paesi industrializzati i rischi di salute legati a una gravidanza sono pressoché azzerati, la crescita è ormai prossima allo zero e si moltiplicano i problemi d’infertilità), la coppia si interessa alle dinamiche della fertilità solo quando si decide a mettere “in cantiere” un pargolo. E siccome ciò accade, molto spesso, dopo anni di fidanzamento/ matrimonio, è in genere anche più difficile intervenire - e intervenire in modo efficace su un problema che, affrontato tempestivamente, avrebbe potuto magari essere risolto.

 

Forse anche per questo motivo, per il fatto cioè che ci si interessi al funzionamento del proprio corpo e della propria naturale fertilità solo in vista dell’esplicita “ricerca” di un figlio, rende la scoperta di un’eventuale infertilità un trauma particolarmente doloroso. Oltre tutto, tante altre volte l’infertilità presunta è in realtà inesistente, perché è il tentativo stesso di avere un figlio a provocare quella tensione che non facilita la possibilità di concepirlo. Sembra un controsenso, ma non lo è: tutto ciò che è naturale, richiede anche quella naturalezza che comprende un clima sereno e tranquillo che, evidentemente va perduto di fronte alla crescente ansia che può sopraggiungere di fronte ai “tentativi falliti”.

 

Di fronte all’accertamento di problemi di fertilità, il primo aiuto medico viene dai trattamenti di primo livello, che sono l’induzione all’ovulazione, oppure l’inseminazione. In seguito, la scelta ricadrà tra la procreazione medicalmente assistita e l’adozione.

 

La procreazione medicalmente assistita presenta senza dubbio diverse problematiche etiche, qualunque sia la procedura seguita. Per quanto, si tratta comunque di avere un figlio disgiungendo l’atto coniugale dal concepimento del figlio, che è risultato da evitare, ove possibile. Poi, in molte modalità à, è prevista la generazione di embrioni soprannumerari, tra i quali effettuare una “selezione”. si tratta in ogni caso di un’invasione tecnica in un ambito che, com’è facile immaginare è decisamente molto delicato ed intimo: parlare di crioconservazione e selezione è anche culturalmente un metodo rischioso: l’embrione rischia di essere considerato una cosa, non una persona, ne vengono negati i diritti, fino all’estremo di poter essere buttato via (letteralmente!), tra i rifiuti medici, come un oggetto, negandone ogni dignità. Risulta chiaro, quindi, che ogni procedura medica in tal senso è rischiosa a priori, in quanto rischia di instillare la convinzione che un embrione non possiede già la preziosità di una persona, se non in potenza, come appunto un “desiderio non ancora realizzato”. Forse, proprio qui nasce la controversia di queste pratiche che non cessano di creare discussione, nonostante si perfezionino dal punto di vista tecnico: vanno a toccare ambiti come la fecondazione e l’impianto, che in realtà sono in effetti tutt’ora avvolti dal mistero e scientificamente non noti in tutti i loro dettagli. basti pensare al fatto che tramite questi processi avviene la trascrizione del DNA e che la maggior parte delle malattie rare sono, per l’appunto, genetiche. Si tratta di una frontiera, per lo più, inesplorata, quindi e per questo motivo sarebbe bene, in linea generale, mantenere il massimo della prudenza possibile.

 

Nella pratica cosiddetta GIFT è evitata la scelta di embrioni, impiantando in utero solamente il numero minimo di embrioni richiesti (non c’è selezione, né congelamento di embrioni, né embrioni “deboli” lasciati morire). È interessante notare il paradosso di puntare l’accento sulla condivisione dei tratti genetici tra genitori e figli, salvo poi insistere per l’introduzione dell’eterologa. Comprendo il desiderio di riconoscere i propri tratti fisici nel figlio (ma vorrei ricordare che è forse altrettanto emozionante ritrovarne atteggiamenti e predisposizioni ambientali che hanno ben poco a che fare con la genetica!), eppure proprio questo desiderio si vede disatteso (almeno per uno dei due!) dalla fecondazione eterologa. Comprendo meno, ma trovo più onesto chi ammette di voler ricorrere a tale pratica perché vuole scongiurare il pericolo di un figlio con malattie (sì, perché questa pratica pare facilitare in effetti, statistiche alla mano, l’insorgenza di malattie, per motivi ancora da accertare nel dettaglio - si ipotizza possano avvenire mutazioni genetiche durante l’impianto, oppure che il processo dia “più fragile” in sé proprio a causa dell’infertilità).

 

In base al documento della Congregazione per la Dottrina della della Fede Donum Vitae (che però risulta datato 1987), sono vivamente sconsigliati, almeno in linea di massima, le pratiche di fecondazione assistita, sia a motivo del diffuso sfruttamento indiscriminato e spreco degli embrioni, sia perché, disgiungendo l’atto coniugale dal concepimento, mette a rischio l’integrità fisica e morale di tutti i soggetti in causa (sia i genitori che il figlio). al contempo, tuttavia, si auspica che la ricerca medica progredisca ulteriormente nel campo della cura contro l’infertilità, poiché questa strada sarebbe l’unica via medica che consenta, al contempo, di rispettare l’integrità e la dignità degli embrioni e di evitare di disgiungere l’atto coniugale dal concepimento del figlio desiderato.

 

A livello di informazione medica, è poi giusto e doveroso sottolineare, alcuni rischi per la salute del nascituro che sono stati riscontrati in seguito a queste pratiche. Si riscontra infatti una maggiore incidenza di malattie come le paralisi cerebrali, l’epilessia, l’asma, il cancro in età infantile. Tuttavia, è bene precisare che non è facile se tutto questo sia da accreditare all’errore umano legato alla tecnica utilizzata oppure la scarsa fertilità dei soggetti. Vi è poi da aggiungere che, per la forte probabilità di parti plurigemellari, la vitae di madre e figli è messa a rischio in modo maggiore, tant’è vero che, nella maggior parte dei casi, non tutti i gemelli partoriti, a causa del fatto che sono spesso gravemente sottopeso, riescono a superare i primi giorni di vita.

 

Tutti i fattori qui brevemente elencati comportano la necessità di una riflessione profonda, non superficiale, ma - soprattutto - non unicamente emozionale dell’argomento trattato: non è possibile lasciarsi dominare dall’empatia, dimenticando tutti gli altri aspetti che rendono l’argomento inevitabilmente problematico e controverso. Non può bastare un desiderio buono a rendere lecita qualunque pratica e il fatto stesso di parlare di vita umana ci impone massima serietà nell’affrontare con consapevolezza ed onestà intellettuale tutti i rischi a cui si va incontro, così da valutare nel modo migliore queste pratiche che la tecnica rende realizzabili.

 

L’adozione non è solo un’altra scelta, ma è proprio un’altra prospettiva; la differenza, però - viene il dubbio - a volte sfugge anche ai legislatori. Così viene da pensare, ad esempio, in questo caso, nel quale ad una famiglia è stata negata l’adozione perché avevano già 5 figli. Proprio così. Come a dire: ne avete già cinque, perché dovreste volerne ancora: non vi bastano? Come se ci fosse un limite invalicabile all’amore e all’accoglienza, raggiunto il quale si giunge ad un “troppo pieno” che non è possibile affrontare in alcun modo.

 

Questa prospettiva, nei riguardi dell’adozione, è profondamente sbagliata. I bambini sono fatti adottare affinché abbiano dei genitori e possano crescere serenamente in una famiglia. La famiglia adottiva si propone di “aggiustare” una situazione negativa che il bambino ha subito o sta subendo, non chiede al figlio di sopperire ad un proprio deficit (ad esempio, la sterilità). Per questo motivo, è assolutamente sbagliato, oltre che insensato proibire o anche solo disincentivare l’accesso all’adozione da parte delle coppie che hanno già avuto figli. Un ragionamento simile presuppone che il figlio sia un diritto della coppia, qualcosa che spetta come “controparte” del matrimonio.

 

Non è questo lo spirito con cui è auspicabile affrontare un’adozione e ce lo mostra splendidamente la storia di Adam, bambino che nessuno voleva far nascere e che è stato adottato da una coppia che ora afferma di imparare da lui. Già. La vita ci sfida quotidianamente, fino al paradosso che, se scegliamo la via del dono, ci rendiamo conto di ricevere più di quanto doniamo, perché la gratuità è in grado di aprire vie impensabili a chi si ostina a ragionamenti unicamente sulla base di un tornaconto economico dare/avere. A riprova che la vita umana, dialogando con l’Infinito che è riflesso di Dio stesso, ci comunica costantemente quella sete di Eternità che contribuisce a farci insaziabili cercatori di Verità lungo il nostro cammino terreno.

 

C’è poi una terza strada, poco considerata e a volte bistrattata, ma senza dubbio bella ed affascinante: l’affido. Si tratta di una famiglia che accetta di dare una mano ad una famiglia in difficoltà, senza però diventare tutrice legale del bambino di cui si prenderà cura: è la riprova più evidente che per crescere un bambino serve un villaggio e che nessun figlio è davvero nostro, ma ogni cucciolo d’uomo resta pur sempre, primariamente, figlio di Dio e fratello in umanità di ogni altro uomo.

 

Senza dubbio sono strade diverse, che la burocrazia, ahimè, senz’altro non facilita, ma che sarebbe bello non fossero scartate a priori da chi ha un reale desiderio di donare amore e crescere un figlio. Purtroppo, le difficoltà in famiglia, in particolar modo in questo periodo di crisi, sono sempre più numerose, e trovare coppie disponibile a diventare genitori nel cuore è un grande dono che si può scegliere di farsi, nel farlo ad un bambino sconosciuto.

 

Ognuno ha il proprio dolore: così come può esserlo senza dubbio la frustrazione di fronte all’impossibilità di concepire un figlio, lo è - sempre! - per un figlio la consapevolezza di essere stato rifiutato dai propri genitori biologici, o, semplicemente, avvertirne la loro incapacità educativa.

 

Spesso, è proprio la condivisione della sofferenza, magari tacita e complice, senza molte parole, a creare quel legame di aiuto reciproco in grado di far scaturire una gratuità sincera e spontanea, che si traduce in un circolo virtuoso d’amore che, com’è d’abitudine per questo sentimento, ha la tendenza di essere inspiegabilmente contagiosissimo: perché negare a tutto questo la possibilità di accadere?

 

Maddalena Negri

http://www.sullastradadiemmaus.it

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