Domenica delle Palme

"Guarda il suo Volto adorabile!

Domenica delle Palme

da Teologo Borèl

del 02 aprile 2009

Nella prima lettura della domenica delle Palme, tratta dal profeta Isaia, risuonano queste parole : “Il Signore Dio mi ha dato una lingua da discepolo, perché io sappia indirizzare una parola allo sfiduciato. “ A parlare è il “Servo di Jawvè”, un misterioso personaggio che il profeta descrive sette secoli prima della nascita di Gesù, ma che sorprendentemente ne possiede i tratti. Infatti la lettura prosegue con queste parole: Il Signore Dio mi ha aperto l’orecchio e io non ho opposto resistenza, non mi sono tirato indietro. Ho presentato il mio dorso ai flagellatori,le mie guance a coloro che mi strappavano la barba; non ho sottratto la faccia agli insulti e agli sputi.”

Quanto è difficile a volte rivolgere una parola di conforto a chi è sfiduciato; o trovarla per sé quando la nostra vita sembra rimanere schiacciata sotto la stanchezza e lo sconforto.

La vita: il dono supremo che rende possibile ogni altro dono, la prima espressione dell’amore dei nostri genitori verso di noi e, attraverso di essi, dell’amore di Dio; eppure, spesso, così oscura.

Nel dolore si può dubitare dell’amore. È stato affermato che dopo Auschwitz non si sarebbe più potuto fare poesia, né che si sarebbe più potuto parlare di un Dio buono. Il male nel suo volto più terribile ci tenta a credere che sia esso l’ultima istanza della realtà. Quale parola può ancora rivolgere Dio all’uomo quando il dolore sembra contraddire per sempre il suo amore?

Il misterioso Servo di Javhè sembra affermare di aver ricevuto una missione speciale in tale senso. Una parola per lo sfiduciato inviata per suo tramite da parte di Dio stesso. Questo almeno il suo annuncio. Ciò che stupisce, però, nel prosieguo del brano, è che questa parola non venga rivelata; neanche quando il Servo afferma che Dio gli ha “aperto l’orecchio”- lasciando quindi a intendere di essere stato il depositario di un messaggio importante. A stupire ancora di più è il fatto che questo “aprire l’orecchio” da parte di Dio sia il preludio di una serie di torture e sofferenze a cui il Servo non si sottrae.

I dolori del  servo di Javhè sono prefigurazione di quelli di Gesù. Ecco la risposta di Dio al mistero della sofferenza dell’uomo. Come non sentire l’ eco  del Vangelo di due domeniche fa? “Dio ha tanto amato il mondo da dare il Figlio unigenito perché chiunque crede in lui non vada perduto, ma abbia la vita eterna. Dio, infatti, non ha mandato il Figlio nel mondo per condannare il mondo, ma perché il mondo sia salvato per mezzo di lui.” E’ questa la parola che Dio rivolge a chi si trova nel dolore: Lui Stesso, nella persona di Gesù. La manifestazione suprema del suo amore per noi è il dono del Figlio.

In Lui il dono di ogni vita non va perduto. Non si infrange nel mistero del male e della morte dove sembrano scomparire tutte le cose belle e vere che sperimentiamo nell’esistenza. La nostra vita viene salvata. “Salvezza”- una parola grande e misteriosa. Come misteriosa è la strada che Dio ha scelto di percorrere per portarla a compimento; quella preannunciata dalle parole di Isaia e dal suo richiamo ai dolori del Servo di Jawhè.

Il dono d’amore racchiuso nella Passione di Gesù è un mistero abissale a cui possiamo avvicinarci solo chiedendo a Dio di aiutarci a capire. Gi stessi discepoli- che pure vissero accanto a Gesù e ascoltarono tutte e sue parole- non capirono fino alla fine il suo sacrificio. Nel momento della prova, quando Gesù si trova ad affrontare il destino di dolore che si sta per compiere, essi dormono. “Simone, tu dormi?”. Quanto di più allora noi, lontani secoli da quegli avvenimenti, immersi nella nostra vita quotidiana, possiamo ritrovarci avvolti dal sonno, incapaci di accogliere il dono più grande di Gesù per noi, la vita che ci viene a offrire attraverso la sofferenza.

In questo periodo la natura intorno a noi ci parla proprio del suo risveglio dal sonno, con l’arrivo della primavera. Lì dove sembrava esserci morte, nasce la vita. I semi deposti nel buio del terreno, marcendo, germogliano al calore del sole, in un processo visibile e insieme invisibile.

Uno dei doni più grandi che ho ricevuto lungo il mio cammino di fede da parte della mia città – Torino- è il telo della Sindone. Ai miei occhi, la rappresentazione del miracolo della primavera nella vita di ogni persona che accoglie Gesù. Quel processo invisibile che si compie nel buio del terreno dove il seme muore e che diventa visibile in superficie nella vita che ne scaturisce. Una vita che nasce dal dolore e dalla morte; così è l’immagine della Sindone: segno di sofferenza, ma formatasi sul lino per un processo sconosciuto; una forma di energia elevatissima, ipotizzano alcuni scienziati. Nella fede, la Risurrezione di Gesù: la Vita che vince la morte.

In Lui le nostre solitudini sono diventate quelle di Dio. Gli spazi aperti dal peccato, spesso inaccessibili agli altri- le ferite da noi subite e inflitte- sono diventati anche i suoi, visibili sul suo corpo e sul suo volto. Sono gli spazi della nostra prigionia; quelli che Gesù ha attraversato per poterci liberare. Nell’ immagine dell’Uomo della Sindone io trovo la mia consolazione. In Gesù, cioè, scopro che la mia solitudine non è più tale, come suggerisce una bellissima riflessione di Benedetto XIV nella sua enciclica “Spe Salvi”.  La parola consolazione, infatti, dal latino con- solatio, richiama un “essere- con” nella solitudine, che allora non è più solitudine. In Gesù lo spazio di ogni nostro dolore, prima inaccessibile, viene abitato da Lui e diventa miracolosamente dimensione di gioia. Addirittura, beatitudine…“Beati gli afflitti, perché saranno consolati”.

 E’ un mistero di fronte al quale sentiamo la nostra piccolezza : l’abbraccio di un Dio che senza chiedere nulla in cambio dà Se Stesso per salvarci. Immensità di un sacrificio che rivela anche quando grande sia il male che ci minaccia, il peccato di cui facciamo esperienza, e che a volte non riusciamo nemmeno a riconoscere nella sua gravità, avvolti come siamo dal sonno, simili ai discepoli nell’orto degli ulivi.

Nella notte dell’Agonia Gesù invitava i suoi discepoli a pregare. Solo Lui può condurci alla conoscenza di Sé e al rinnovamento di noi stessi, nella consapevolezza del peccato e nella capacità di rinunciarvi.  Il suo invito risuona anche per noi; come per i discepoli.  Nella preghiera ci attende, ci tende la mano scuotendoci dal nostro sonno.  La sua mano è la nostra vita, come per la bambina morta, descritta dai vangeli; Gesù la chiama e la prende per mano- risuscitandola.

Nel dolore e nella solitudine del chicco di grano che muore nella terra scaturisce la vita nuova; così, in ciò che in noi è stanco e inaridito e abitato dal peccato può rinascere la vita se lo consegniamo a Gesù nella confessione. E’ qui che accogliamo completamente il dono della sua vita donata sulla croce; avvicinandoci al suo Cuore trafitto e lasciandoci lavare dall’acqua che ne è scaturita. Ricevendo in nutrimento il Suo Sangue, sgorgato anch’esso dal colpo di lancia; donato a noi in ogni Eucaristia. Rinunciando a ciò che ci separa da Lui, accettando di portare con Gesù la nostra croce con la forza che ci viene dai sacramenti.

In unione al suo sacrificio, accettando di attraversare le nostre morti quotidiane con Lui, anche noi nasciamo a nuova vita come i fiori in primavera, nel miracolo della Resurrezione.

                                  

Ragazza universitaria

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