del 01 gennaio 2002
Bruce Marshall è un romanziere inglese famoso per la sua ironia a volte sorniona e a volte pungente; una ironia che colpisce, spesso, i credenti colpendo le loro ipocrisie e invitandoli a vivere il vangelo senza mezze misure.
Ha un romanzo dal titolo “Candele gialle a Parigi”; la vicenda è ambientata durante la occupazione nazista della capitale nell’ambiente della resistenza.
Nelle ultime pagine si assiste alla morte della protagonista assistita dal marito che tenta di infonderle coraggio e speranza.
“Jean, sono quasi quindici anni che siamo sposati, eppure ci sono tante cose importanti, di cui non abbiamo parlato mai.
Io credo che succeda a tutti, Marie. La vita è una tale corsa per far le cose necessarie senza importanza, che di quelle non necessarie che importano nessuno ha tempo di parlare.
Jean, ti ricordi quel giorno che mi dicesti che non avevi mai visto nulla di più bello dei miei occhi? Jean, ridimmi che non hai mai visto nulla di più bello dei miei occhi. Anche se non è vero, dimmelo, per piacere. Se la morte è soltanto un sonno non ho paura…
Marie, non ho mai visto nulla di più bello dei tuoi occhi. Hanno dentro delle luci meravigliose...
Senti: prima di tutto non muori; e poi, anche se tu dovessi morire, non avresti nessuna ragione d'aver paura! non hai mai fatto male a nessuno.
Forse la vita è qualcosa di più che non far male a nessuno.”
La vita è solo non fare del male ad alcuno? O è qualcosa di più. Ed intendiamoci: dicendo vita diciamo quella parentela con la felicità di cui già abbiamo parlato!
Sentiamo un altro autore francese, F. Garagon, nel suo romanzo “Giada”:
“Si è davvero felici quando si ama tanto, tantissimo?
Certo, e tu lo sai perfettamente.
Sì, ma c'è gente che dice: Non posso sentirmi felice se quelli cui voglio bene sono infelici...
Con il risultato di avere un infelice in più. E credi tu che un infelice in più crei la felicità? Ciò non rende felice alcuno: tutti se ne stanno rincantucciati nell'attesa che qualcuno si decida a dare l'intonazione giusta e offrire l'esempio dì persona felice!
Cosa occorre fare, allora?
Amare non significa voler rendere felice l'altro. Significa essere felici e offrire la propria felicità all'altro. Forse comincio a capirci qualcosa! gli ho detto “.
Amare non vuol dire rinunciare alla propria felicità come se fosse un bene che ci fa sentire in colpa; neppure vuol dire rinunciare alla ricerca della propria felicità che è non solo un bisogno ma anche un dono ed un dovere per i redenti se Gesù ha cominciato la sua predicazione dicendo “Beati voi…” “sono venuto a portarvi il dono della felicità e ad invitarvi alla felicità, poiché questa è la benevola volontà del Padre”.
Amare significa essere felice di fronte all'altro così da comunicargli qualcosa della mia felicità (poiché essa è contagiosa!) sapendo che tale partecipazione non è sottrazione ma moltiplicazione. E’ il prodigio stessa della vita e dell’amore.
É quanto chiedeva don Bosco ai suoi ragazzi: essere felici per far felici gli altri; questo era, per lui, la espressione più genuina e più efficace dell’amore cristiano al prossimo.
Perché questo è il pane di cui ognuno ha fame: un po’ di felicità, e cioè un po’ di amore, un po’ di vita.
Ricordate la parabola del giudizio finale? “Quando, Signore ti abbiamo visto? Ogni volta che avete dato da mangiare ad un affamato…” Se la fede non porta a questo è tutto inutile (“la fede senza le opere è morta” dice l’apostolo Giacomo).
Don Bosco ne era tanto convinto che si consumato la vita per trovare un pezzo di pane per i suoi ragazzi: che non era solo fatto di frumento ma di felicità.
Il regista Franco Zeffirelli, nelle sue memorie, ricorda questo episodio:
“Abbiamo visto ieri, io e Vincenzo, sul muro bianchissimo di una casupola nell’oasi di Gabès, questa scritta in arabo e in un francese essenziale: “Un pain à partager ou elle s’envole”.
Abbiamo scoperto poi che l’autore era un ometto barbuto dagli occhi spiritati ma ridenti. Gli abbiamo chiesto chi fosse quella “elle”, quella “lei” che si sarebbe involata se non si accettava di dividere con altri il proprio pane. Ci ha fissato per un attimo: “La felicità” ha risposto”.
É davvero così: la felicità vola via se uno non è disposto a spartirla con gli altri.
E don Bosco voleva che nessuno dei suoi ragazzi se la lasciasse sfuggire. Per questo li educava a diventare dono gli uni per gli altri tramite i gesti semplici della giornata, come semplice è il gesto di spezzare un pezzo di pane con chi ti sta davanti e ti guarda con occhi di fame.
C’è un episodio famoso nella vita di don Bosco, riportato da numerosi testimoni: una domenica mattina, al termine della messa don Bosco distribuisce la colazione ai suoi ragazzi (a quei tempi per fare la comunione bisognava essere a digiuno): una cesta piena di pagnotte fragranti, pane bianco! Una delizia per quei tempi. Solo che i ragazzi convenuti all’oratorio erano molti di più rispetto a quelli previsti da don Bosco. Chi gli sta vicino si accorge che la fila dei ragazzi è lunga e suggerisce di spezzare in due le pagnotte, e forse in tre o quattro per darne a ciascuno almeno un pezzettino. Ma don Bosco ignora il suggerimento e continua a distribuire il pane: una pagnotta per ciascuno. E dalla cesta continuano a venir fuori le pagnotte con grande stupore di tutti, annota il biografo.
É un prodigio che ha sapore di simbolo: se uno dona qualcosa di sé perché è pieno di vita e di felicità per soccorrere la fame dell’altro, si ripete il miracolo della moltiplicazione. É allora che è davvero festa, come fu festa, quella domenica mattina all’oratorio di don Bosco.
di don Giannantonio Bonat
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