“A volte prendevo lo scooter e me ne andavo in campagna da sola. Mi mettevo sotto un albero e aspettavo che quel senso di profonda solitudine passasse”: così parla Romina, una delle 41 claustrali intervistate da...
del 25 aprile 2007
Don Bosco in clausura
 
Chi l’avrebbe detto? Il santo dei cortili e degli oratori, del “Salesiano in maniche di camicia”, della vita attiva più che attiva… è entrato in clausura.
Non è uno scherzo.
Parliamo del libro “Clausura” di Espedita Fisher. Il libro è la narrazione di un affascinante viaggio nel mondo della clausura, in Italia e all’estero, dove l’autrice “stana” 41 suore, le sollecita a testimoniare della loro vita, delle loro scelte, della loro ricerca di assoluto: quasi a dare voce allo stesso anelito dei giovani.
Ma che c’entra don Bosco con il libro di Fisher?
Almeno in due modi.
Anzitutto perché due di queste monache vengono da esperienze salesiane, il VIS: Susanna e Maddalena (al secolo Sintia), Clarisse Urbaniste; un’altra Maria Erika, Clarissa Cappuccina, è cresciuta in ambiente FMA e racconta delle sue insegnanti.
Nulla di nuovo, si dirà: tante esperienze di ambiente salesiano sono approdate in clausura.
Ecco allora la simpatica “novità”.
In una delle foto “carpite” dal segreto della clausura, la camera di Maria Erika, campeggia la foto di don Bosco.
Dal suo seme fioriscono tante vocazioni.
Anche una scelta di clausura può nascere dall’esperienza viva dell’incontro con un Santo: che sa indicare ai giovani la via che risponde alla loro domanda di radicalità.
 
 
 
 
“A volte prendevo lo scooter e me ne andavo in campagna da sola. Mi mettevo sotto un albero e aspettavo che quel senso di profonda solitudine passasse”: così parla Romina, una delle 41 claustrali intervistate da Espedita Fisher nel volume Clausura. Le nuove testimoni dell’assoluto pubblicato da Castelvecchi (260 pagine). Alina, Esmeralda, Chiara, Lucy, Michelle, Alba, Bianca, Irina sono alcune altre, da me scelte tra i nomi che danno luce.  
 
«La concentrazione era al massimo, la calce del muro al minimo. Scivolo, ma riafferro le sbarre e salto. Salva. Lo spuntone del cancello ha punto meno di Pilar, che non voleva più lasciarsi intervistare». Comincia così, con un salto oltre le sbarre di un monastero e con un’intervista mancata, l’inchiesta di Espedita Fisher, scrittrice e speaker radiofonica, sul mondo della clausura. Un salto fisico e metaforico, il suo. Infatti con l’ausilio di un registratore e con il supporto a tratti mistico delle parole, rompe un silenzio durato cinquant’anni, dal documentario di Sergio Zavoli del ’58. Un lungo giro per monasteri di tutta Italia appartenenti a diversi ordini, per incontrare 40 suore e incalzarle di domande: «Si è mai innamorata? È felice? Perché ha scelto la clausura? Quanti anni ha? Il suo colore preferito? Un sogno nel cassetto? Di che segno è?».
Maria, dell’Ordine della Visitazione di Santa Maria, racconta: «Fino a ventun anni ho lavorato in una fabbrica che si chiamava “Le Bretelle”: produceva mutandine e reggiseni. Quando mia madre venne a saperlo, rimase sconvolta. Credeva si trattasse di bretelle da uomo. Le riproposi allora l’idea di farmi suora. Si oppose, ma papà la convinse dicendo che mi avrebbero rimandata indietro dopo una settimana». Alcune vengono dal Messico, dall’Australia, dalla Romania, dall’Africa. Molte hanno avuto fidanzati e lavori, prima di scegliere il matrimonio con Cristo. C’è chi ha rinunciato a un posto in banca o in un’azienda farmaceutica o in un’impresa discografica. C’è perfino chi, come Giovanna Francesca, ha avuto quattro figli e una carriera politica. Non poche hanno dovuto superare ostacoli, come Carla, novizia benedettina: «Mi laureai in economia e commercio alla Bocconi. Dopo la laurea tornai a vivere in famiglia per un periodo. Fu allora che dissi ai miei genitori di voler entrare in monastero. Mi tennero barricata in casa».
Romina, carmelitana, ha la storia più travagliata: «Le suore di clausura sono donne in fuga? Nel mio caso sì. Ho buttato via anni negli eccessi. La notte ero sempre fuori con gli amici di turno, non di rado mi capitava di bere alcolici. A volte prendevo lo scooter e me ne andavo in campagna da sola. Mi mettevo sotto un albero e aspettavo che quel senso di profonda solitudine passasse. Mi sentivo onnipotente, ma allo stesso tempo provavo un senso di umiliazione. Spesso litigavo con la gente. Una volta ho preso a schiaffi il fidanzato di mia sorella perché le urlava contro. Il mio autocontrollo era a zero. Ho provato anche a suicidarmi, ero la mia nemica principale. Mi viene in mente la canzone di Bob Dylan, Like a Rolling Stone: “How does it feel? To be your own. With no direction home. A complete unknown. Like a rolling stone”».
Una monaca cita Nietzsche; di una di 97 anni dicono che alcune notti si svegli cantando Bandiera Rossa. La loro esistenza è scandita da messe, lodi, vespri. È consentito coltivare passioni più terrene e forme di contatto con l’esterno, ma con moderazione. Oltre alla corrispondenza cartacea o via Internet, si leggono i quotidiani, si guarda la tv, si legge, si ascolta o si fa musica. Qualcuna di loro insegna fuori dal convento. Natura e arte sono veicoli di un percorso di ricerca verso «qualcosa di più».
Molte parlano senza problemi del loro corpo, della sessualità, della maternità. La loro stessa bellezza fisica ha un che di soprannaturale agli occhi dell’intervistatrice. La quale, alla fine, decide di rimanere a vivere anche lei, che suora non è, in un convento (Fonte: Vincenzo Garzillo, “Il giornale” – 20 aprile 2007).
 
 
Maria Erika, Clarissa cappuccina
 
Non ci sono marciapiedi sulla strada delle Cappuccine. Sono entrata bagnata come un pulcino. Sandali e pantaloni schizzati di fango. Maria Erika aveva fra le braccia un librone. Pallida e ossuta, dita sottili, tonaca di lana e cordone ai fianchi, teneva il libro come un bimbo al seno.
Nel parlatorio non c’era aria né luce, non riuscivo a respirare, mi sentivo strana, in stato confusionale, con gli atomi disgregati per l’eccitazione: una monaca era disposta a uscire dalla clausura per entrare nel mio libro.
Pensavo: «Che le chiedo?» Mi sarei accontentata di guardarla. Poi ho sbiascicato la domandina: «Che libro è?», tanto per dire qualcosa e rompere l’incantesimo, e invece lei si è messa in uno stato di grazia. È entrata luce, non so da dove. «La Bibbia ebraica», ha risposto, «è indispensabile lo studio delle scritture in lingua originale ». Mi chiedevo quali capelli potessero incorniciare un volto così bello. Non ho resistito: «Hai i capelli rasati a zero?». Ha risposto: «No, soffro il mal di testa, e mi ricorda i campi di sterminio».
 
Se non si hanno motivazioni interiori profonde, la clausura rischia di diventare rifugio in una pseudospiritualità.
Noi Clarisse cappuccine mettiamo il nome Maria davanti a quello di battesimo, in segno di dedizione. Per me ha un doppio significato: è il nome di mia nonna.
Una volta un confessore mi ha chiesto come vivevo la castità. Ho risposto che, non essendo lui una persona con cui avevo un dialogo profondo, preferivo non affrontare l’argomento. Entrando in monastero non è necessario rendere conto a tutti delle proprie esperienze, si viene accolti con discrezione. Se ho bisogno di confidarmi stabilisco io le modalità. La sessualità non è andare a letto con un uomo, ma l’incontro tra due mondi. Per spiegarlo meglio ti cito una frase di Frankl: «Come essere umano non sono soltanto veicolo di un’energia sessuale, ma sono anche capace di dedizione. Tutta la sessualità è al suo servizio e diventa così fenomeno espressivo dell’incontro con altri esseri umani». La castità è un valore per tutti, va vissuta anche tra gli amanti. Si può beneficiare di molte sensazioni nei diversi ambiti della persona e rimanere casti, privarsi di tutto ed essere impuri. Da monaca sono arrivata «alla pienezza del godere», per questo mi piacciono la cioccolata calda e Mozart.
 
A sette anni ero una peste, mi calmavo solo al doposcuola con le suore. Mi colpivano l’abito e i loro modi gentili. In prima elementare la scuola è stata chiusa. Mi sono sentita sradicare. Ricordo un profondo disorientamento, colmato poi dal rientro nella medesima realtà scolastica in un altro istituto. Alle medie mi ponevo continue domande, cercando un senso alla vita. Prima di entrare in monastero studiavo all’Istituto Biochimico di Asti. Mi svegliavo alle sei, prendevo il treno delle sette, percorrevo mezza città a piedi con la valigia degli strumenti da laboratorio. Odiavo la discoteca, mi ci hanno trascinato una sola volta. Mi piaceva invece parlare con gli amici fino a notte, saper perdere tempo con loro.
 
Avevo una forte simpatia per un ragazzo, ma è sfumata. Lui era intelligente, avrebbe accettato un rapporto libero finché non mi fossi chiarita le idee. Per dare me stessa a un altro avrei dovuto sentirmi una cosa sola con lui. Se avessi trovato la persona giusta non sarei in clausura, mi sarei sposata. Sono per gli assoluti. Mi butto in quello che faccio, non tengo niente, mai niente, da parte.
Per entrare in monastero devi spendere senza fare i conti. Se ti accorgi di avere preso un granchio puoi sempre uscire prima della Vestizione, dopo la Professione Temporanea e anche dopo la Professione Perpetua, la promessa definitiva a Dio e alla società. Le cerimonie sono processi di crescita «ufficializzati», dovrebbero coincidere con dei passaggi interiori, ma non sempre avviene. Dicono che noi di clausura siamo «il cuore della Chiesa». Le frasi fatte non mi sono mai piaciute, ma di certo è più suggestiva l’idea del cuore che del piede. Teresa di Lisieux intendeva il cuore come forza per realizzare l’impossibile. Come lei in Storia di un’anima, dovremmo entrare nel nostro malessere, interrogarci, sciogliere i nodi più profondi dell’anima. Mi richiamo anche a Etty Hillesum che si definiva il cuore pensante di ogni situazione. Sarebbe bello riuscire a diventare il «cuore pensante della Chiesa». In quanto contemplativa potrei fare di meglio. Il monaco non è Dio, rappresenta l’Uomo moderno, con le sue fragilità e le sue depressioni.
A volte guardo le mie consorelle e cado nello «sconforto ». Poi capisco che loro non sono come voglio io, perché neanch’io sono come vogliono loro. Ciò che ci accomuna di solito è il desiderio di testimoniare che è ancora possibile vivere una forma di povertà autentica. La carenza dell’acqua potabile in molte aree del pianeta è responsabilità anche del mio consumo. Bisogna dare valore a ogni goccia d’acqua per rompere la catena che lega i ricchi da una parte e i poveri dall’altra. Per gli occidentali povertà e uguaglianza sono concetti difficili. Dobbiamo scontare secoli di Storia durante i quali la Chiesa ha mantenuto la sua potenza politica. Un esempio di integrazione sociale ed economica lo possiamo trovare nelle esperienze dei kibbutz in Israele, dove convivono diverse categorie di persone apparentemente distanti fra loro per stato socioreligioso. Alcuni missionari sono stati uccisi per aver mediato tra ebrei e palestinesi. Nonostante la mia forma religiosa giuridica, io mi sento particolarmente in comunione con questa esperienza: in fondo anche un monastero può essere un piccolo kibbutz.
Fedeltà e alleanza nel Primo Testamento sono i sigilli tra Dio e il suo popolo. Sugli ebrei c’è una promessa millenaria: noi come cristiani non potremmo esistere senza di loro, questo ce lo ricorda san Paolo dicendo che siamo innestati in loro. Dovremmo riflettere su questo. Milioni di ebrei sono stati messi al gas. Proviamo a immaginare quale perdita sarebbe stata per la nostra fede se Hitler avesse vinto la guerra. Se non riconosciamo nel popolo ebraico le nostre radici rischiamo di non capire il messaggio cristiano: «Ama il prossimo tuo perché egli è come te». Se non ci sarà una conversione di massa l’intolleranza crescerà in maniera globale.
Dedico le mie intenzioni di preghiera al Medio Oriente e nel tempo libero studio l’ebraico. Ho scelto questo argomento come principale opera di pace e crescita spirituale nella mia vita. Le persone credono che la clausura voglia dire recitare l’Ave Maria tutto il giorno. In realtà, raggiunto un certo livello di consapevolezza, ogni azione diventa preghiera.
Vite di clausura oggi tra misticismo e posta elettronica
AA.VV.
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