Il lavoro nei villaggi è ancora bloccato per le inondazioni del fiume Baro, ma penso ancora questa settimana, per cui approfitto per raccontarvi la storia dei “Lost Boys of Sudan”, visto che qui ne ho incontrato alcuni, che vivono ora in Etiopia.
del 09 novembre 2010
Carissimi, come va?
 
Un saluto da Gambella. Qui stiamo entrando nella stagione più calda, quella secca, dove le piogge spariscono e fa un caldo boia, infatti abbiamo già toccato i 35° durante il giorno, come si può intuire non ci sono mezze stagioni, per cui nessun problema per i vestiti, è sufficiente una maglietta a maniche corte, un paio di pantaloni e di saldali, e molto autan per le zanzare per tutto l’anno.
Il lavoro nei villaggi è ancora bloccato per le inondazioni del fiume Baro, ma penso ancora questa settimana, per cui approfitto per raccontarvi la storia dei “Lost Boys of Sudan”, visto che qui ne ho incontrato alcuni, che vivono ora in Etiopia.
 
Il Sudan, lo stato confinante a ovest con l’Etiopia, ha avuto la più lunga guerra civile dell’Africa, dal 1983 fino al 2005, terminata solo cinque anni fa con l’accordo di pace di Addis Abeba.
Nel 1987 le truppe mussulmane del nord, dopo un colpo di stato che portò al governo l’attuale presidente Al Bashir, entrarono decisamente in guerra con il sud, mandando l’aviazione, elicotteri e truppe per sedare i ribelli di John Garang e la sua SPLA. Migliaia di villaggi furono bombardati, si conta che circa 2 milioni di persone scapparono a causa della guerra, su circa 6 milioni di abitanti del sud Sudan.
Migliaia di ragazzi fuggirono verso l’Etiopia, attorno al 1987-88. Circa 30.000 bambini e ragazzi arrivarono nei campi profughi dell’Etiopia, in Itang, Bonga, Pugnido, nella regione di Gambella.
I giornalisti che videro questi ragazzi dissero che erano come “scheletri camminanti”, come quando si vedono le foto delle persone nei campi di concentramento della seconda guerra mondiale, “pelle e ossa”.
Erano passati dal campo di concentramento della fame, della sete, delle malattie, degli attacchi da parte di animali, delle violenze da parte dei soldati e circa il 20% morirono durante il tragitto. Avevano camminato per alcuni mesi, percorrendo dai 600 ai 900 km per giungere in Etiopia, naturalmente tutti a piedi.
Nel 1988 nel territorio dell’Etiopia, nella regione di Gambella, si contavano quattro campi profughi per un totale di circa 300.000 persone.
Solo poche centinaia di ragazze riuscirono a fuggire e ad arrivare in Etiopia, soprattutto perché non furono così rapide nel mettersi in salvo durante gli attacchi dei soldati del nord nei vari villaggi, in particolare perché erano legate alle madri, che rimasero indietro e o furono uccise o furono catturate per essere schiave o per subire  violenze sessuali.
 
Proprio qui in Etiopia a questo immenso gruppo di ragazzi senza genitori ne parenti, venne dato il nome di “Lost Boys of Sudan” e si può immaginare il perchè.
Ma l’odissea di questi ragazzi non è finita qui.
Nel 1991, dopo che anche le Nazioni Unite si erano interessate a questa incredibile situazione, il dittatore dell’Etiopia Meghistu venne rovesciato e al suo posto una giunta militare prese il potere. Immediatamente si scoprì che nei campi profughi nella regione di Gambella, oltre a dare soccorso ai sudanesi, il fronte di liberazione del sud Sudan addestrava le nuove leve per tornare in patria e combattere contro il nord. Dall’oggi al domani delle truppe militari etiopi vennero inviate per distruggere i campi profughi e respingere in Sudan tutti i rifugiati.
Migliaia e migliaia di profughi furono ricacciati in Sudan, bombardati, sparati, uccisi, spinti a buttarsi in fiumi infestati di coccodrilli e ippopotami per mettersi in salvo tornando in Sudan, dove c’era ancora la guerra civile. Migliaia di ragazzi morirono in quel giorno, mentre gli altri, più fortunati, si rimisero in cammino cercando di arrivare in Kenia, sperando di trovare più ospitalità.
Alla fine del 1992 circa 20.000 ragazzi raggiunsero il confine con il Kenia, dopo aver percorso per alcuni mesi in mezzo alle montagne circa 600 km. Qui l’allarme internazionale per questa situazione venne finalmente sentito dopo un servizio della BBC su alcune storie di questi ragazzi arrivati a Kakuma in Kenia.
Racconta John, uno dei ragazzi: “Sono stato testimone di aver condiviso la mia vita con la morte e la disperazione parecchie volte. Ho visto le iene venire al crepuscolo a sfamarsi con i corpi dei miei amici che erano morti. Sono stato così affamato e assetato nella polverosa pianura sudanese che ho consumato e mangiato cose che vorrei piuttosto dimenticare. Ho attraversato fiumi infestati da coccodrilli mentre venivamo bombardati e sparati. Ho camminato fino al punto da pensare che non avrei più camminato. Sono stato sorpreso tante di quelle volte che non riesco più a contare ne ricordare, i miei amici e io, di poterci risvegliare all’alba di un nuovo giorno e essere capaci ancora di vivere. Questi sono stati i momenti in cui Dio ha avuto compassione di noi e ci ha soccorso e salvato, Egli ci ha trovato!”.
Immediatamente fu allestito un campo profughi con le necessità di base, costruendo poi scuole e campi da gioco per i ragazzi, alcuni ancora piccoli.
Nel 1999 la Caritas degli Stati Uniti decise, in accordo con il governo, di adottare un certo numero di ragazzi e portarli negli U.S. per dargli un’opportunità in più di futuro. Circa 4.000 di questi, ormai giovani, furono adottati da varie famiglie e associazioni  negli U.S. Questo progetto poi venne interrotto con l’attentato alle Torri Gemelle e la chiusura delle frontiere, specialmente per chi veniva da alcuni paesi.
E’ qui, che dopo vari anni, dal racconto di questi avvenimenti da parte di alcuni giovani, sono stati scritti dei libri e prodotto anche un film: “God grew tired of us”.
 
Dopo aver incontrato alcuni giovani di questi, tornati per varie ragioni a vivere in Etiopia nella regione di Gambella e sentito dalla loro voce i racconti di quei terribili anni, un profondo rispetto e ammirazione per ciascuno di questi uomini mi hanno suscitato le loro storie e chissà quanti altri hanno storie così incredibili alle loro spalle qui.
Ho pensato a quanto fortunato sono stato per tutto quello che ho ricevuto nel mio passato, alcuni di questi giovani hanno quasi la mia età, altri sono molto più giovani, e a quanto si può fare adesso qui per questa gente, perché questo non accada più, in primo luogo e perché la pace, la promozione umana, i valori morali e religiosi, una vita dignitosa possa essere vissuta da tutti, specialmente i bambini e i ragazzi.
Un fraterno saluto a tutti, un preghiera reciproca, con la possibilità di vederci nel mese di dicembre che passerò a casa in Italia.
 
A presto,
abba Filippo
 
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don Filippo Perin
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