Don Giuseppe Puglisi3P - un prete “a testa alta”

Cominciò bussando a tutte le porte. “Bisogna prima conoscere ‚Äì diceva Padre Puglisi ‚Äì poi capire, infine agire”. Organizzò un censimento, quello che il Municipio mai si era sognato di fare. Non tutte le porte si aprirono, nel quartiere Brancaccio di Palermo, alcune si spalancarono sull'inferno: vite miserabili, fame, malattie tenute segrete, invalidità nascoste. Famiglie intere ridotte a vivere in un'unica stanza. Handicappati legati ai letti.

Don Giuseppe Puglisi3P - un prete “a testa alta”

da Quaderni Cannibali

del 26 aprile 2009

Cominciò bussando a tutte le porte. “Bisogna prima conoscere – diceva Padre Puglisi – poi capire, infine agire”. Organizzò un censimento, quello che il Municipio mai si era sognato di fare. Non tutte le porte si aprirono, nel quartiere Brancaccio di Palermo, alcune si spalancarono sull’inferno: vite miserabili, fame, malattie tenute segrete, invalidità nascoste. Famiglie intere ridotte a vivere in un’unica stanza. Handicappati legati ai letti. Malati di mente segregati, bambine precocemente invecchiate, grottescamente travestite da donne, prostituite. Vecchi abbandonati.

 

E fuori un quartiere dove tutto manca, dall’illuminazione pubblica, all’asilo, dal pronto soccorso alla scuola media. Tutto.

 

Chi era don Puglisi?

 

Figlio di un calzolaio, don Treppì, come lo chiamavano i suoi ragazzi, era nato a Palermo il 15 settembre del ’37 a Romagnolo, una borgata a pochi passi da Brancaccio, il quartiere di cui diventerà parroco e nel quale nascerà il suo assassino. Poco prima del diploma magistrale gli arriva la vocazione. È prete a Palermo, nella borgata di Settecannoli, poi parroco a Corleone, nella frazione di Godrano. Sarà il cardinale Pappalardo a spostarlo a Brancaccio, nella periferia orientale della città, nel 1990. Il posto lo conosce bene, conosce bene la mentalità, la gente e il suo difficile modo di tirare avanti. Sa che il problema principale è il lavoro e che, sulla sua mancanza, la malavita mette facili radici con le sue allettanti proposte. La formazione, l’istruzione potrebbero far molto, ma a Brancaccio non c’è neppure la scuola media: a oltre 10 anni dalla sua morte aspetta ancora di essere inaugurata. Pino comincia allora a lavorare coi più giovani, coi ragazzi: è convinto di essere ancora in tempo per formarli e per dar loro dignità e speranza.

 

Per i suoi “figli” fonda il Centro “Padre nostro”. “Coi più piccoli – diceva – riusciamo a instaurare un dialogo. I più grandicelli sfuggono, sono attirati da altre proposte”. Racconta il suo assassino: “Cosa nostra sapeva tutto. Che andava in Prefettura e al Comune per chiedere la scuola media e far requisire gli scantinati di via Hazon. Sapeva del Comitato intercondominiale, delle prediche. C’era gente vicina a don Pino che andava in chiesa e poi ci veniva a raccontare”. Il piccolo e mite prete comincia a dar fastidio. Lavora in silenzio, non fa clamore, non va sui giornali, ma scava nelle coscienze, costruisce legami, apre prospettive diverse. Cominciano allora gli “avvertimenti”: una ad una vengono incendiate le porte di casa dei membri del comitato. Poi le minacce, sempre più dirette, e il pestaggio di un ragazzo del Centro.

 

Ma ad ammazzare un prete, fino ad allora, la mafia non si era ancora spinta. La chiesa era, tutto sommato, un territorio ancora franco. Se ne poteva sperare comprensione, rifugio. Ma quel prete… Arriva allora la condanna. Il killer viene allertato. “Lo avvistammo in una cabina telefonica. Era tranquillo. Che fosse il giorno del suo compleanno lo scoprimmo dopo. Spatuzza gli tolse il borsello e gli disse: Padre, questa è una rapina. Lui rispose: Me l’aspettavo. Lo disse con un sorriso… Quello che posso dire è che c’era una specie di luce in quel sorriso… Io già ne avevo uccisi parecchi, però non avevo ancora provato nulla del genere. Me lo ricordo sempre quel sorriso, anche se faccio fatica persino a tenermi impressi i volti, le facce dei miei parenti. Quella sera cominciai a pensarci: si era smosso qualcosa”.

 

Le sue parole

 

La storia di Don Treppì è semplice e purtroppo molto breve. Ma il messaggio che ancora oggi ci manda la sua vita, la sua tenacia, la sua forte passione e la sua fede incrollabile è importante e attualissimo. Lo riceviamo dalle sue parole. Il 14 dicembre 1991 scrive una lettera ai suoi parrocchiani.

 

“Cari amici, da poco meno di un anno sono parroco della parrocchia di San Gaetano, a Brancaccio, e a questo proposito vorrei comunicarvi le mie gioie e le mie tristezze, le mie preoccupazioni e le mie speranze. Vorrei rendervi partecipi dei miei progetti e coinvolgervi nella loro attuazione; vi chiedo scusa per la mia indiscrezione, ho fiducia nella vostra benevolenza e amicizia.

 

C’è nella parrocchia un buon fermento di persone impegnate in un cammino di fede e, contemporaneamente, in un servizio liturgico, catechistico o caritativo, ma i bisogni della popolazione sono molto maggiori delle risorse che abbiamo.

 

Vi sono nell’ambiente molte famiglie povere; anziani malati e soli; parecchi handicappati mentali e fisici; ragazzi e giovani disorientati, senza valori veri, senza un senso della vita; tanti bambini e fanciulli quasi abbandonati a se stessi che, evadendo l’obbligo scolastico, sono preda della strada, dove imparano devianza e violenza (scippi, furti più o meno piccoli e, forse, miniprostituzione).

 

Che cosa fare per venire incontro a tante necessità? Assieme ad alcuni membri della comunità abbiamo pensato a un centro polivalente di accoglienza e di servizio, per la cui gestione abbiamo chiamato le suore; la loro risposta è stata positiva: verranno in tre o quattro. E i locali? Una casa (piano terra con giardinetto e primo piano) sita a pochi passi dalla chiesa parrocchiale è in vendita; decidiamo di comperarla... Non vi nascondo che ho una qualche preoccupazione al riguardo, ma essa viene dissipata da una grande speranza e fiducia nella provvidenza, che si manifesta per mezzo di tanti amici; di voi che so sensibili alla solidarietà e alla generosità. Infatti già alcuni mi hanno fatto pervenire la loro generosa offerta secondo le proprie possibilità. Potreste fare anche voi qualcosa a favore di questo centro di accoglienza “Padre nostro” (così lo chiameremo)?

 

Sono sicuro che la vostra sensibilità e generosità sappiano darvi suggerimenti per una azione concreta perché il progetto si realizzi. A nome mio e della comunità vi ringrazio sentitamente; vi saluto con fraterno affetto e amicizia”.

 

Una classica lettera di parroco che chiede soldi? No, molto di più. Una lettera in cui incontriamo il parroco che si preoccupa della vita dei suoi parrocchiani. A chi gli faceva notare che molti dei ragazzini del centro Padre Nostro non era battezzato Don Pino rispondeva: “Preoccupiamoci di far emergere l’umano in queste creature, lo spirituale verrà”.

 

 

Chiedi scusa

 

 

Racconta Suor Carolina, sua collaboratrice preziosa: “Stavamo facendo i lavoretti, ricoprivamo di creta le bottigliette dei succhi di frutta. Ad un certo punto una bottiglietta vola a grande distanza dritta su un ragazzo che per fortuna si scansa, ma poteva rimanere ammazzato. Io dico al bambino che l’ha lanciata: ‘Andrea, chiedi scusa’. Si alza il fratellino più grande: ‘No Andrea, ricorda quello che dice papà: non si deve mai chiedere scusa, non sei un uomo se chiedi scusa’. Io insisto: ‘Andrea chiedi scusa, solo chi sa chiedere scusa è veramente un uomo’. E il fratello gridando: ‘Non è vero Andrea, non lo fare, guai a te’. Andrea era teso, incerto, diviso. Alla fine ha detto: ‘Vabbè scusa’ e ha teso la mano al compagno che aveva offeso. Gli altri ragazzi hanno fatto un applauso, un lungo applauso che non finiva più. Quando l’ho raccontato a padre Puglisi si è commosso e ha detto: Questi sono miracoli!”.

 

Una lotta insieme

 

Don Ciotti scrisse così il 15 settembre 1994, sulle pagine di Avvenire: “Cosa ci ha consegnato don Giuseppe? Innanzitutto il suo modo di intendere e di vivere la parrocchia, di essere parroco. Non ha pensato, infatti, la parrocchia unicamente come la ‘sua’ comunità di fedeli, come comunità di credenti slegata dal contesto storico e geografico in cui è inserita. L’ha vissuta, prima di tutto, come territorio, cioè come persone chiamate a condividere uno spazio, dei tempi e dei luoghi di vita... Ha incarnato pienamente la povertà, la fatica, la libertà e la gioia del vivere, come preti, in parrocchia. Con la sua testimonianza don Pino ci sprona a sostenere quanti vivono questa stessa realtà con impegno e silenzio. Non il silenzio di chi rinuncia a parlare e denunciare, ma quello di chi, per la scelta dello “stare” nel suo territorio, rifiuta le passerelle o gli inutili proclami. ‘Beati i perseguitati a causa della giustizia perché di essi è il Regno dei cieli’ (Mt 5, 10).

 

Anche questo ci ha consegnato don Giuseppe: una grande passione per la giustizia, una direzione e un senso per il nostro essere Chiesa e soprattutto un invito per le nostre parrocchie ad alzare lo sguardo, a dotarsi di strumenti adeguati e incisivi per perseguire quella giustizia e quella legalità che tutti, a parole, desideriamo. Per questo don Giuseppe è morto: perché con l’ostinata volontà del cercare giustizia è andato oltre i confini della sua stessa comunità di credenti...

 

Don Puglisi non è stato ucciso perché dal pulpito della sua chiesa annunciava princìpi astratti, ma perché ha voluto uscire dalla loro genericità per testimoniarli nella vita quotidiana, dove le relazioni e i problemi assumono la dimensione più vera”.

 

La scuola, i giovani

 

Due testimonianze di don Puglisi, due inviti da non lasciar cadere:

 

“È importante parlare di mafia, soprattutto nelle scuole, per combattere contro la mentalità mafiosa, che è poi qualunque ideologia disposta a svendere la dignità dell’uomo per soldi. Non ci si fermi però ai cortei, alle denunce, alle proteste. Tutte queste iniziative hanno valore, ma, se ci si ferma a questo livello, sono soltanto parole. E le parole devono essere confermate dai fatti.

 

“Le nostre iniziative e quelle dei volontari devono essere un segno. Non è qualcosa che può trasformare Brancaccio. Questa è un’illusione che non possiamo permetterci. È soltanto un segno per fornire altri modelli, soprattutto ai giovani. Lo facciamo per poter dire: dato che non c’è niente, noi vogliamo rimboccarci le maniche e costruire qualche cosa. E se ognuno fa qualcosa, allora si può fare molto...”.

 

sr Manuela Robazza, Note di Pastorale Giovanile

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