«La predica più efficace di quei “preti di fede” che non fecero mai carriera perché vollero restare a disposizione unicamente del popolo», fu la loro stessa vita e sul loro modello, scrive Daniele Bardelli, don Carlo Gnocchi...
del 22 ottobre 2009
Don Carlo si buttò nel ministero pastorale con grande coraggio, con l’ottimismo del credente che sa che la storia è guidata dal Cristo Risorto e non il pessimismo di chi si ritrae dalla storia
 
In vista della beatificazione di don Carlo Gnocchi che si terrà domenica 25 ottobre in piazza Duomo a Milano, ho riletto “Cristo con gli alpini”, un suo libro, ristampato in anastatica, nel centenario della nascita, in numero limitato di copie: 1000. La mia è il numero 0860. La conservo come memoria dolcissima di un grande educatore, che dentro aveva un pizzico di don Bosco. Era stato indicato con don Orione e don Guanella come esempio a tutto il clero diocesano, nel 1944, dal cardinale Schuster.
 
Amava il suo tempo
 
«La predica più efficace di quei “preti di fede” che non fecero mai carriera perché vollero restare a disposizione unicamente del popolo», fu la loro stessa vita e sul loro modello, scrive Daniele Bardelli, don Carlo Gnocchi orientò la propria missione terrena, obbedendo alle necessità che le circostanze gli ponevano innanzi, anche le più controverse. Si buttò nel ministero pastorale con grande coraggio, con l’ottimismo del credente che sa che la storia è guidata dal Cristo Risorto e non il pessimismo di chi si ritrae dalla storia, perché la giudica opera del Maligno, impossibile da mutare. Tutto è male, dice il pessimista, mentre il credente afferma, con le parole di Bernanòs, prima ancora di Teresa di Lisiuex, che “tutto è Grazia”.
 
Don Carlo amava il suo tempo, il Novecento «così grande e così avvilito, così ricco e così disperato, così dinamico e così dolorante”, che egli avrebbe nuovamente scelto «senza un’istante di esitazione» se fosse tornato a nascere, nutrendo per esso «un amore geloso”.
 
Don Carlo aveva dentro di sé, qualcosa di don Bosco. Non solo perché aveva frequentato la seconda ginnasiale. a Milano, dai Salesiani di via Copernico, - una splendida pagella con un “due” in latino del primo trimestre e un “sette e mezzo” finale, - ma perché di don Bosco, ottimo “traduttore del Vangelo” in campo educativo, aveva appreso quel principio dell’incarnazione, che gli ha permesso di essere “prossimo” ai suoi ragazzi, ai suoi alpini negli anni della guerra mentre, da Don Orione da don Guanella, di vivere quella grande avventura della Carità, immergendosi nel dolore di chi dalla guerra era stato ferito, umiliato nel corpo e nello spirito: i suoi “mutilatini”.
 
Nella vita degli alpini
 
Leggendo l’introduzione di Cristo tra gli alpini, firmata nel 1942 da Innocenzo Cappa, appare la figura del Cappellano, di don Carlo, proprio nel suo “incarnarsi” nella vita dei suoi giovani alpini: “Il Cappellano che non sale sugli autocarri per risparmiarsi la fatica, che non abbassa il capo per non esporsi alle armi nemiche, che non mormora in fretta le sue preci per diminuire a sé medesimo il tempo del più grave rischio, che fisicamente patisce con il più anonimo degli scarponi, che cade con lui, che si infanga come lui, diventa per l’anima rude ed eroica dell’alpino l’ambasciatore del Cielo fra gli spasimi della terra”.
 
E’ per questo suo mettersi nei panni dell’altro che “a lui, l’alpino si confida e gli sorride benché per natura sia avaro di sorriso, a lui chiede consiglio ed aiuto per le lettere che deve scrivere e per comprendere l’altro significato delle lettere che riceve”. Don Carlo ha saputo vedere Cristo con gli alpini, l’ha intravisto in una dura giornata di guerra: «Era un ferito grave e già presso a morire… Senza parlare mi guardò. I suoi occhi erano colmi di dolore e di pietà, di volontà decisa e di dolcezza infantile. Al fondo vi tremava, attenuandosi, la luce di visioni beate e lontane. Come di un bimbo che si addormenta poco e poco. Non altrimenti dovette guardare Gesù dall’alto della croce”. «Sapete come don Gnocchi ha potuto vedere il Signore fra i suoi soldati? Perché si è fatto interamente uno di loro e li ha guardati come i continuatori della Passione e della Redenzione», scriveva don Primo Mazzolari.
 
Mangiare lo stesso pane
 
Non era “isolato” dai suoi giovani, era accomunato alla loro sorte: «questo mangiare lo stesso pane (com’è bello, in linea, quando arriva la spesa mettersi infila con gli altri a ricevere la razione!) questo dormire accanto agli altri, distesi per terra, nell’uguaglianza macerante della stanchezza e del sonno, questo marciare con il Battaglione incorporati nel reparto, polverosi come gli altri, col sacco in spalla come tutti, cantando a piena voce le canzoni alpine, dà il senso vivo di una comunione così intima e così eroica che ogni cosa, anche la più umile e ordinaria, si trasfigura nello spirito all’altezza e alla solennità di un rito e di un sacerdozio nuovo”. Per don Carlo, non solo “compartecipazione di vita” ma vera e propria “incarnazione”. Così dovrebbe essere per tutti coloro che si sentono responsabili di altre persone, per i preti e le suore, per gli educatori, i genitori in famiglia, gli insegnanti nella scuola.
 
don Vittorio Chiari
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