Don't disturb, please! Ma i ragazzi sono nati per disturbare

I ragazzi sono nati per disturbare, guai se non lo facessero, se stessero in silenzio in un angolo della casa o davanti agli schermi televisivi o di un computer o dell'ultima playstation!

Don’t disturb, please! Ma i ragazzi sono nati per disturbare

da L'autore

del 02 gennaio 2008

«Non disturbare, prego», è il cartello che mettono sulla porta delle camere d’albergo, quando il cliente vuole riposare qualche ora in più; negli uffici, quando c’è una riunione importante; anche in famiglia, dove chi disturba sono i figli, spesso più piccoli, che non lasciano in pace il papà, quando sta seguendo la squadra del cuore o la mamma in lacrime all’ennesima «fiction», che la TV offre per consolare, rasserenare gli animi femminili turbati da tante notizie cattive.

I ragazzi sono nati per disturbare, guai se non lo facessero, se stessero in silenzio in un angolo della casa o davanti agli schermi televisivi o di un computer o dell’ultima playstation!

Io ho sempre sognato ragazzi vivaci, in movimento, di corsa, sfrenati nella fantasia, nel gioco, ragazzi che pongono domande, che interrogano i genitori, che si domandano e domandano il perché delle cose.

«Sarei anche pronta a rispondere, ma mi sento in difficoltà quando mi chiedono argomenti che riguardano la sessualità!»; «Io invece quando mi chiedono di Dio, perché devono pregare o andare in chiesa, quando io con mio marito non lo faccio mai!». Educazione all’amore ed educazione religiosa sembrano argomenti tabù nelle nostre famiglie, temi che si delegano con molta facilità alla scuola, all’oratorio, ai preti e alle suore, alle brave signore del catechismo.

 Ma se lo chiedono a te, papà o mamma, devi sapere rispondere, vuol dire che si fidano di te, di quello che tu dici loro. Quando ero piccolo io – parlo di un po’ di lustri fa – avevo chiesto a mia mamma, come nascevano i bambini. Per risposta, un ceffone: «Villano di un villano – in dialetto bergamasco suonerebbe meglio – guarda se sono domande da fare a tua mamma!». Era stato il prete dell’oratorio a consigliarmi di rivolgermi a lei: «Vado io dal prete!»...

Decisamente erano altri tempi, ma oggi non è possibile evadere con facilità alle loro domande: se chiedono, vuol dire che esiste una comunicazione, che li considerate importanti, intelligenti, in grado di capire quello che voi spiegate. Se tacciono e rimangono in silenzio, è perché leggono nei vostri occhi il cartello «Don’t disturb», che vi allontana da loro, obbligandoli a cercare altrove la risposta.

Questo che vale per i piccoli, ha valore ancor più grande per gli adolescenti e i giovani che a volte «provocano» per chiarirsi nei loro problemi e confrontare le vostre risposte con quelle dei compagni o degli insegnanti nella scuola. Se non li ascoltate al momento giusto, su quel problema forse non vi chiederanno più niente. Se non sapete rispondere, chiamate «time-out», un tempo d’attesa perché possiate informarvi, aggiornarvi: è una lezione di umiltà, molto efficace dal punto di vista educativo.

Lasciarsi disturbare è comunque un segno d’amore per i vostri figli. Sono tristi quelle famiglie dove non si parla, non ci si ascolta e non si dialoga: sono come certe classi, dove esiste il silenzio, la disciplina, ma non c’è neppure comunicazione di cuori né d’anima, solo nozioni, rapporti freddi, che non lasciano un segno, una memoria.

Da: Vittorio Chiari, Un giorno di 5 minuti. Un educatore legge il quotidiano

don Vittorio Chiari

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