Al tramonto della festa di tutti i santi, i cristiani ricordano i morti, quasi a incontrare in modo diverso, nella luce della fede pasquale, le loro radici.
del 01 gennaio 2002
Con la memoria dei defunti, siamo al cuore dell’autunno: gli alberi si spogliano delle foglie, le nebbie mattutine indugiano a dissolversi, il giorno si accorcia e la luce perde la sua intensità.
Eppure ci sono lembi di terra, i cimiteri, che paiono prati primaverili in fiore, animati nella penombra da un crepitare di lucciole.
Sì, perché da secoli gli abitanti delle nostre terre, finita la stagione dei frutti, seminato il grano destinato a rinascere in primavera, hanno voluto che in questi primi giorni di novembre si ricordassero i morti.
Sono stati i celti a collocare in questo tempo dell’anno la memoria dei morti, memoria che poi la Chiesa ha cristianizzato, rendendola una delle ricorrenze più vissute e partecipate, non solo nei secoli passati e nelle campagne ma ancora oggi e nelle città più anonime, nonostante la cultura dominante tenda a rimuovere la morte.
Nell’accogliere questa memoria, questa risposta umana alla “grande domanda” posta a ogni uomo, la Chiesa l’ha proiettata nella luce della fede pasquale che canta la risurrezione di Gesù Cristo da morte, a per questo ha voluto farla precedere dalla festa di tutti i santi, quasi a indicare che i santi trascinano con sé i morti, li prendono per mano per ricordare a noi tutti che non ci si salva da soli.
Ed è al tramonto della festa di tutti i santi che i cristiani non solo ricordano i morti, ma si recano in cimitero per visitarli, come a incontrarli e a manifestare l’affetto per loro coprendo di fiori le loro tombe: un affetto che in questa circostanza diventa capace anche di assumere il male che si è potuto leggere nella vita dei propri cari e di avvolgerlo in una grande compassione che abbraccia le proprie e le altrui ombre.
Per molti di noi là sotto terra ci sono le nostre radici, il padre, la madre, quanti ci hanno preceduti e ci hanno trasmesso la vita, la fede cristiana e quell’eredità culturale, quel tessuto di valori su cui, pur tra molte contraddizioni, cerchiamo di fondare il nostro vivere quotidiano.
Questa memoria dei morti è per i cristiani una grande celebrazione della risurrezione: quello che è stato confessato, creduto e cantato nella celebrazione delle singole esequie viene riproposto qui, in un unico giorno, per tutti i morti.
La morte non è l’ultima realtà per noi, e quanti sono già morti, andando verso Cristo, non sono da lui respinti ma vengono risuscitati per la vita eterna, la vita per sempre con lui, il Risorto-Vivente.
Sì, c’è questa parola di Gesù, questa sua promessa nel vangelo di Giovanni che dobbiamo ripetere nel cuore per vincere ogni tristezza e ogni timore: “Chi viene a me, io non lo respingerò!”.
Il cristiano è colui che va al Figlio ogni giorno, anche se la sua vita è contraddetta dal peccato e dalle cadute, è colui che si allontana e ritorna, che cade e si rialza, che riprende con fiducia il cammino di sequela.
E Gesù non lo respinge, anzi, abbracciandolo nel suo amore gli dona la remissione dei peccati e lo conduce definitivamente alla vita eterna.
La morte è un passaggio, una pasqua, un esodo da questo mondo al Padre: per i credenti essa non è più enigma ma mistero perché inscritta una volta per tutte nella morte di Gesù, il Figlio di Dio che ha saputo fare di essa in modo autentico e totale un atto di offerta al Padre.
Il cristiano, che per vocazione con-muore con Cristo (cf. Rm 6,8) ed è con Cristo con-sepolto nella sua morte, proprio quando muore porta a pienezza la sua obbedienza di creatura e in Cristo è trasfigurato, risuscitato dalle energie di vita eterna dello Spirito Santo.
È in questa consapevolezza, in questa visione che deriva dalla sola fede, che la morte finisce con l’apparire “sorella” per trasfigurarsi in un atto con cui si riconsegna a Dio, per amore e nella libertà, quello che lui stesso ci ha donato: la vita e la comunione.
(da Dare senso al tempo, Edizioni Qiqajon, Bose 2003)
Enzo Bianchi
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