Due testi di Barsotti ci introducono alla comprensione del suo Dostoevshij. Il primo è nella premessa al volume: «Io debbo molto a Dostoevskij e per onestà, oltre che per gratitudine, io dovevo scrivere. Non importa il giudizio che si vorrà dare oggettivamente del lavoro...
del 26 ottobre 2007
Due testi di Barsotti ci introducono alla comprensione del suo Dostoevshij. Il primo è nella premessa al volume: «Io debbo mol­to a Dostoevskij e per onestà, oltre che per gratitudine, io dovevo scrivere. Non importa il giudizio che si vorrà dare oggettivamen­te del lavoro. Il lavoro comunque, se non rivelerà cose nuove, po­trà sempre rivelare qualcosa di me e prima di tutto a me stesso [...]. L'opera di Dostoevskij è stata per me un messaggio e mi ha svegliato dal sonno». Sonno? Un altro testo chiarisce: «Io devo la mia 'conversione' a Dostoevskij [...]. Ci fu un momento della mia vita in cui io sognavo di diventare un grande poeta, ed ero perciò sul punto di lasciare il seminario. Poi cominciai a leggere Dostoevskij, che mi aprì gli occhi».
Per Barsotti, Dostoevskij è certamente un grande scrittore, ma è anche un profeta nel senso che svela l'uomo a se stesso, ne scan­daglia le pieghe nascoste, ne rivela la grandezza e la miseria, ne proclama la missione, ne narra la drammaticità delle scelte. Pro­feta soprattutto perché, appassionato com'è del Cristo, lo addita come amore che redime e verità che salva. «Forse è ia sua passio­ne per Cristo che mi svegliò dal sonno come non mi aveva sve­gliato né la visione della Provvidenza in Manzoni, né la teologia di Dante». Attraverso Cristo don Divo avverte la presenza di Dio che gli parla e fuga i fantasmi che abitavano la sua crisi.
«Per lui mi ha parlato Dio. L'ho riconosciuto nel tormento di Raskòlnikov dopo il delitto, nella pietà e nella forza di Sonja [...]; l'ho amato nell'umiltà e nella dolcezza di Sonia de L'adolescente, nella luminosa bellezza di Macario, l'ho sentito presente nell'u­miltà di Tichon ma anche nell'orrore della morte di Kirillov e nel­la condanna di Stavrògin, finalmente l'ho veduto nello staretz Zo­sima e in Aljòsa. Sempre Dio era presente. La sua presenza dava un senso agli avvenimenti, dava un nome a ogni uomo. Il silenzio non era vuoto, era il silenzio di Dio che riempiva di sé ogni luo­go, ogni avvenimento, era la vita nella comunione con lui, era la morte nella volontà di rifiutarlo, di volerlo negare» (p. 6 s). I1 vo­lume si sviluppa sostanzialmente su questi convincimenti, esami­nati nelle loro varie sfaccettature lungo l'arco delle quattro parti: L'uomo e lo scrittore, I personaggi dei cinque maggiori romanzi, Il messaggio di Dostoevskij, La teologia di Dostoevskij.
 
 
L'uomo come epifania di Dio
 
Il concetto di Dostoevskij sulla religione si fonda sulla sua vi­sione dell'uomo: «L'uomo supera la natura e annuncia un'altra realtà» (p. 20). Quale altra realtà? La realtà di Dio come realizza­zione delle aspirazioni umane che superano il puro ambito natu­rale e riempiono il vuoto di Dio, che comporta malessere ontolo­gico e morte. Dio non è un accessorio della natura umana, ne è il respiro vitale, è la presenza senza la quale essa si smarrisce e si frantuma. « È Dio che non cessa di torturare chi ha compiuto il delitto, finché nel pentimento non trova la pace del perdono, è Dio che vive nella pietà di Sonia per Raskòlnikov, nel suo amore senza limiti per i fratelli, è Dio che vive nella pietà e semplicità del principe Myskin, nella pace di Macario, il pellegrino che ormai ha finito di camminare e attende sereno la morte» (p. 21).
Contro Dio c'è il maligno, che è «la realtà del male in una vita di menzogna, in una volontà di distruzione e di morte». Così la vi­ta umana è una lotta tra Dio e il maligno, che si contendono il suo dominio. Per descriverla Dostoevskij scende negli abissi del cuo­re dove abitano il peccato e la Grazia, e vede il peccato che cor­rode l'uomo, e Dio impegnato a conservare nella sua creatura la propria immagine nella quale risplende soprattutto l'amore. 
Da queste considerazioni lo scrittore deduce che l'inferno e il paradiso non sono realtà estranee all'uomo. Sono nel suo cuore: le accoglie nella sua vita come parte di sé, e con esse si avvia all'eter­nità. Deduce anche che «l'uomo non è senza Dio» (p. 22). E’ in rap­porto con Dio «non soltanto nella misura in cui lo ama; egli è in un suo rapporto con Dio, sia che questo sia odio o sia amore. Anche nella trasgressione alla legge egli vive un suo rapporto con Dio. Non può chiudersi in sé, rifiutare un suo rapporto con lui; nel pec­cato stesso l'uomo, che vorrebbe sganciarsi da Dio per affermarsi e acquistare una sua 'libertà', non vive nell'opposizione al suo Crea­tore che la sua distruzione e la sua morte. Al contrario, vive già un suo rapporto d'amore con Dio nel suo rapporto con la creazione, e più ancora nel suo rapporto di amore con l'uomo, perché la crea­zione è il primo segno di Dio, e l'uomo, immagine di Dio, è il se­gno più alto della sua presenza. Così nell'amore del prossimo l'uo­mo vive la sua più alta esperienza di Dio» (p. 152).
 
 
Personaggi come testimoni 
 
La visione dell'uomo come epifania di Dio, in senso sia positi­vo sia negativo, viene descritta da Dostoevskij nei suoi personag­gi: una galleria che offre una rappresentazione metafisica e reli­giosa del dramma umano che è la nostra vita. Tutti sono alla ri­cerca di verità, di vita, di felicità, di libertà; tutti danno l'idea di idee incarnate; tutti sono portatori di un messaggio. Dostoevskij li insegue, li scova nei segreti del loro animo, non di rado si im­medesima in essi, rivivendo esperienze personali. Pochi scrittori «hanno saputo discendere negli abissi del cuore umano come Do­stoevskij, e proprio per questo ben pochi hanno saputo dirci più di lui come l'uomo sia al centro di tutto, come sia senza fondo e senza confine la sua vita» (p. 23).
Nella galleria dei personaggi che testimoniano in negativo la presenza di Dio, Barsotti fa incontrare gli eroi del romanzo I de­moni: Nikolaj Stavrògin, Pètr Verkovenskij, Aleksej Kirillov. Qui lo scrittore narra il tentativo di un gruppo di «indemoniati» di sganciare il popolo dalle miserie del vivere quotidiano e di libe­rarlo da ogni alienazione, sostituendo la fede in Dio con la reli­gione del popolo, non importa se ciò debba realizzarsi con la for­za e il massacro. Kirillov vuole la divinizzazione dell'uomo, nega Dio, ne desidera la morte, e per realizzare tutto ciò si suicida; Sta­vrògin dissipa ogni sua possibilità nel vizio e nella volontà di sfi­dare la legge e la pubblica opinione: incapace di amare, «non vive che il vuoto». Pètr « è l'incarnazione del maligno, tutto in lui è menzogna, il suo impegno è quello di contraffare la verità, la sua opera è la distruzione e la morte» (p. 72).
Dalla lettura de I demoni si esce come da un incubo perché, re­spinto Dio, che è vita, fa irruzione la morte. «La ribellione verso Dio, l'ateismo, il peccato non sembrano dare alcun frutto. La morte è la conseguenza irreparabile del peccato. Verso questa morte, che è il suicidio di Stavrògin, converge tutto il romanzo, ne è il compimento e il cuore» (p. 61). Ne I fratelli Karamazov la morte si configura con la follia. Ivàn nega Dio per orgoglio e lo sostituisce con la propria ragione; conseguentemente diviene pre­da di pensieri e desideri malsani, incontra Satana e precipita nel­la follia. Morte, follia, disperazione, solitudine, vuoto ínteriore: sono l'eredità di quanti rifiutano Dio.
Tra i personaggi che testimoniano in positivo la presenza di Dio, Barsotti ne predilige due: Sonia in Delitto e castigo e lo staretz Zosima ne I fratelli Karamazov. Sonia è «la figura cristianamente più pura di tutta l'opera di Dostoevskij: è una prostituta, ma vive incontaminata in un mondo di peccato» (p. 129). Per salvare la fa­miglia dalla miseria, vende il suo corpo, ma il peccato non tocca la sua anima. «La sua bellezza è tutta spirituale. La sua apparizione, la sua presenza non turba, non eccita i sensi. Può discendere e può vivere nell'ambiente di peccato e di depravazione e non contami­narsi; anzi è lei che purifica [...]. Il suo sembra l'atteggiamento stesso di Dio nei confronti dei peccatori» (p. 40 s). Sa che la sua condizione non le consente di vivere una vita sacramentale e non osa partecipare alla vita della Chiesa, ma legge il Vangelo, che la fortifica e le dà la forza di accettare la sua abiezione.
Nello staretz Zosima, Dostoevskij ha inteso offrire un'icona del cristianesimo: un'icona che fosse la negazione di quanto, sullo stesso argomento, aveva sostenuto Ivàn Karamazov. Nel cristiane­simo, personificato nello staretz, c'è un'invasione di pace, di gioia, di forza, di amore. Nella luce della fede tutta la realtà si trasfigura.
 
 
La teologia di Dostoevskij
 
La figura dello staretz ci introduce nell'ambito di quanto Bar­sotti chiama, un po' enfaticalnente, La teologia di Dostoevskij. In realtà, lo scrittore non è un teologo né ha inteso fare teologia. E, un analista dell'animo umano; indagandone la natura, le esigenze e le leggi, intuisce che l'uomo è immagine di Dio e che, se di­strugge questa immagine, distrugge se stesso e diventa immagine del maligno. Al centro del mondo dostoevskiano dunque c'è «l'uomo, e nell'uomo si fa presente il mistero stesso di Dio. La vi­ta dell'uomo è lo scontro del male e del bene; il problema del ma­le e la concezione del bene dominano tutti i romanzi, e il bene e il male suppongono la libertà, postulano Dio» (p. 143). In Dio c'è la vita e la pace, senza Dio c'è la disgregazione e la rovina.
Il problema dell'esistenza e della natura di Dio ha tormentato lo scrittore. È approdato alla fede non per via di ragionamento, ma attraverso la conoscenza di Gesù, incarnazione dell'amore che salva. Una fede, la sua, conquistata metro per metro, giorno do­po giorno, durante un'esistenza trascorsa all'insegna dell'insicu­rezza, della sofferenza e della macerazione interiore. Una volta in­contrato, Cristo non ha mai cessato di presentarglisi come salvez­za dell'uomo, sorgente e salvaguardia della libertà, ideale di ogni grandezza, fondamento della civiltà e della convivenza.
Barsotti difende l'ortodossia della fede cristiana dello scrittore contro quanti sostengono che la sua, più che religione cristiana, è religione del popolo e della terra. «E certo che la tentazione di una religione del popolo e della terra non è stata mai assente dal­la sua vita», ma «quando scriveva I demoni [in cui si ipotizza que­sta concezione] aveva ben chiaro che Dio non si identificava con l'anima di un popolo, e che la fede in Dio trascendeva una fede nel destino della nazione» (p. 142).
 
E la tentazione del «Dio russo»? questa tentazione «rimase [in lui] fino alla fine, ma non provocò il suo allontanamento da Cri­sto. Il Cristo ha rotto l'incantesimo di una natura chiusa, nella quale l'uomo è prigioniero. Quel Dio che si è incarnato nel Cri­sto non è, come nel paganesimo, una personificazione o un ele­mento della natura, ma è un Dio che trascende la natura. Nel rap­porto con lui, l'uomo è salvo precisamente perché rompe l'incan­tesimo di una natura che lo tiene prigioniero. Nel suo rapporto con Cristo ogni uomo è salvo, perché Dio lo ama, e non è in­ghiottito e digerito dal processo del tempo e della storia: l'uomo supera la natura e supera il tempo» (p. 144).
Il Dio della religione di Dostoevskij pertanto «non si confon­de col divino della natura e non è il Dio della metafisica, ma non è neppure il Dio della storia: è il Dio che si è rivelato all'uomo nel­la vita e nella morte del Cristo, è, in ultima istanza, il Dio che vive nel cuore dell'uomo» (p. 1.45). E vero che questo Dio «non è mai esplicitamente il Dio Trinità della rivelazione cristiana», ma «non si può chiedere a un romanziere un trattato di teologia». E anche vero che lo scrittore «esplicitamente non parla dell'incar­nazione», tuttavia la centralità del suo Cristo e l'amore che gli porta «suppongono una sua trascendenza». A questo proposito vorremmo ricordare la splendida affermazione cristologica - Gesù Cristo è il Verbo fatto carne - che si trova nei Taccuini per «I demoni». Dopo aver respinto la concezione, in quel tempo ri­corrente, di un Cristo soltanto uomo, filosofo benefico e maestro di vita, afferma: «Ma io e voi, Satov, sappiamo che sono tutte sciocchezze, che Cristo-uomo non è il Salvatore e fonte di vita e che la sola scienza non completerà mai ogni ideale umano e che la pace per gli uomini, la fonte della vita e la salvezza dalla dispe­razione per tutti gli uomini, la condizione sine qua non e la ga­ranzia per l'intero universo si racchiudono nelle parole: Il Verbo si è fatto carne e la fede in queste parole»[1].
 
 
Conclusione
 
Come definire i due volumi di Barsotti? Non sono opera criti­ca: nessuna nota, nessun riscontro con altri studiosi, nessun con­fronto interpretativo. Don Divo va avanti per conto suo, solitario e tranquillo, in ascolto soltanto di se stesso. Li definiremmo per­tanto una conversazione con due eccellenti compagni di strada, Leopardi e Dostoevskij, fatta con intelligenza d'amore e suggeri­ta da comuni esperienze di vita e da approfondimenti spirituali. Volumi ricchi d'interesse, vivi, solcati da squarci di luce, per vari aspetti simpatetici. Non privi di limiti: ripetizioni, talune forzatu­re interpretative, qualche carenza d'informazione. 
Se volessimo sintetizzarli in poche battute, trascriveremmo un pensiero del loro autore: «Tutto è ombra; ogni creatura, ogni avve­nimento è segno. L'unica realtà sei Tu- e solo l'amore ti scopre»[2].
  
 
1 F. DOSTOEVSKJI, I demoni. I taccuini per «I demoni», Firenze, Sansoni, 1958,1.012.
2 D. BARSOTTI, Nel cuore di Dio, Bologna, Edb, 1991, 68
Ferdinando Castelli S.I.
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