Dovresti tatuarti il mio nome sul palmo delle tue mani...Lettera di una ragazza ...

Da qualche parte ho letto che Dio ha scritto il nostro nome sulle palme delle sue mani. Fallo anche tu, madre, non con la biro però, bensì con un inchiostro indelebile. Anzi, se mi vuoi davvero bene dovresti tatuarti il mio nome sul palmo delle tue mani: fallo, perché non voglio essere dimenticata o diventare uno dei tanti volti che incontri e che poi metti in archivio...

Dovresti tatuarti il mio nome sul palmo delle tue mani...Lettera di una ragazza ad una giovane suora

da Teologo Borèl

del 15 gennaio 2007

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Non incomincio con la parola “Cara” perché non so cosa scriverci dopo: mi sembra che non stia bene metterci subito il tuo nome senza premettere un appellativo... Non sei infatti semplicemente una mia amica. Sai, è la prima volta che scrivo ad una suora. E non so bene come chiamarti…. I miei amici ti chiamano semplicemente suora, ma a me non va forse perché in me crea distanza. Il parroco ho sentito che ti chiama sorella, ma… visto l’esperienza che vivo con le mie sorelle preferisco evitare questa parola. Ieri ho sentito una signora anziana, quella che ogni giorno mette un’offerta in chiesa e che si ferma in silenzio davanti al capitello della Madonna, che ti ha chiamato madre. Mi ha colpito tale appellativo anche se, a dir la verità, mi sembrava non adeguato a te. Avrebbe dovuto chiamarti figlia, data la tua e la sua età.

E invece ti ha chiamato madre. C’ho pensato... Anche a me piace chiamarti così anche se non capisco bene cosa significhi per te essere madre. E cosa possa significare per me essere figlia, ammesso che io lo voglia essere.

 

Cara madre, allora, ti scrivo, anche se non so se avrò mai il coraggio di darti queste righe, semplicemente perché fartele leggere significa dover accettare di aver bisogno di qualcuno e ammettere di non bastare a me stessa. E come tu ben sai, io voglio invece arrangiarmi da sola, sebbene viva momenti in cui sono non solo abbandonata ma anche devastata. Non sto qui a dirti i motivi o i fatti, a raccontarti le sconfitte della vita. Ti dico solo che è proprio brutto sentirsi abbandonati: è come vagare in mezzo alla gente ed essere ignorati. Penso che sia la povertà più grande che un uomo, che una donna possano sperimentare. Quando a volte sento che non c’è nessuno che si prende cura di me e che mi degna di uno sguardo… mi sembra di morire e tocco con mano che l’amore altrui è più importante dell’ossigeno che respiro.

Cara madre, se vuoi far onore a questo appellativo che ti do, ti chiedo innanzitutto di aver cura di me, di guardarmi negli occhi, anche se non lo vorrei perché so quello che uno vi può vedere, per riaccendere in me quella speranza di cui ho bisogno e che ora non trovo più. Da qualche parte ho letto che Dio ha scritto il nostro nome sulle palme delle sue mani. Fallo anche tu, madre, non con la biro però, bensì con un inchiostro indelebile. Anzi, se mi vuoi davvero bene dovresti tatuarti il mio nome sul palmo delle tue mani: fallo, perché non voglio essere dimenticata o diventare uno dei tanti volti che incontri e che poi metti in archivio. Ho bisogno di essere amata in modo unico e irripetibile. Non dirmi che i miei problemi sono anche quelli di altri perché anche nel dolore voglio essere unica. Accompagnami dandomi del tempo, ma ancor più interessandoti di me, ricordandoti di me, facendomi sentire sulla pelle che c’è almeno una persona su questa terra per la quale conto qualcosa. Ti chiedo di far tu il primo passo: io non penso di esserne capace. Non ti chiedo cose particolari; a me basta stare vicino ad una persona da cui so di essere amata. A me basta sapere di essere speciale almeno per qualcuno, fosse anche una sola persona. E questa potresti essere proprio tu. Non tirarti indietro perché il buon Dio, se c’è, potrebbe aver pensato proprio a te per rendere fertile la terra della esistenza, ora inaridita, e convertire la mia vita facendola diventare una splendida corona, e non una corona di spine che non sono ancora capace di portare.

 

Cara madre, dato che sono in vena di richieste, te ne faccio un’altra. Ti chiedo di ridarmi la capacità di sognare in grande. Non so quali siano le tue capacità o le tue mansioni. So che nella Chiesa c’è chi predica, chi guarisce, chi fa profezie, chi impara mille lingue… Ma poco importa: non penso che il buon Dio, se c’è, faccia differenze tra voi perché una sa fare una cosa e una un’altra. Anche perché non ti voglio bene per quello che sai fare ma per quello che sei per me. È quello che tu sei che mi seduce e affascina e che a volte mi fa provare una sana invidia per la tua vita. Ti chiedo di accompagnarmi verso quei sogni che fin da bambina ho coltivato e che ora, in questa mia avventurosa adolescenza che non vuol finire, sembrano svaniti. Te lo chiedo perché so che farò e sarò qualcosa di grande solo se oserò sognare. Ma la tentazione di smettere di sognare è grande.

Sai, una volta ho pensato, nella mia poca fede, che anche Dio sogna, e che anche lui quando da lassù guarda le vicende di questo mondo, ha la tentazione di smettere di sognare… Ho pensato a questa cosa nell’ultimo venerdì santo quando, durante la lettura di quel lungo vangelo che non finisce mai che si legge in quel giorno, ho sentito le parole di Gesù in croce che diceva: «Dio mio, Dio mio, perché mi ha abbandonato?». Quel giorno tutti i sogni potevano morire… Invece non è accaduto. I giorni scorsi mi son scritta su un foglietto una frase di mia nonna che, terminato il suo silenzioso rosario, mi ha detto: «Sai piccola, ho scoperto un mistero nuovo». Pensavo si riferisse a qualche strano evento inspiegabile riguardante il suo oscuro passato… Poi ho capito che si riferiva al rosario. Mi ha detto: «Ho aggiunto un mistero che dice: Contempliamo Maria ai piedi della croce che piange ma non dispera». Interessante… piangere ma non disperare. Immediatamente ho ripensato a quella frase «Dio mio, Dio mio, perché mi ha abbandonato?» e mi son detta che Maria in quel momento nel pianto ha sperato al posto di suo figlio. Ecco madre, spera anche tu al posto mio quando straccio la speranza buttandola nel cestino della spazzatura della mia vita. Ti prego: non disperare mai di me.

 

Cara madre, questo nome con cui mi rivolgo a te e che mi sta diventando familiare, mia nonna lo usa sempre in riferimento a Maria di Nazareth. C’è per caso qualcosa che vi accomuna? Non so perché, ma mi verrebbe da dire: «Spero di sì».

Sai, ti ho obbedito. Ho letto quel foglietto in cui si racconta del primo miracolo di Gesù, quello fatto a Cana. E dir la verità mi è sembrato un po’ buffo scoprire che il primo miracolo è consistito nel trasformare dell’acqua in vino. Sarebbe stato meglio se Gesù avesse cominciato con un miracolo un po’ più utile… Scusami se mi permetto, ma penso che il vero miracolo sia un altro. È il fatto che Gesù, che è Dio, così almeno mi hai insegnato, ha obbedito a sua madre. Che storia strana: il creatore che obbedisce alla creatura. Forse è questo il miracolo che vorrei che si realizzasse anche nella mia vita: scoprire di avere qualcuno a cui obbedire, scoprire di avere una madre di cui fidarmi ciecamente semplicemente perché mi vuol bene. Sai, quando penso a Maria penso sempre che dietro a un grande uomo c’è sempre una grande donna. Vorrei che anche dietro le quinte della mia vita ci fosse qualcuno…

Ti confesso che comunque è un altro il particolare che mi ha colpito. Il testo che mi hai dato termina così: «Dopo questo fatto, discese a Cafarnao insieme con sua madre, i fratelli e i suoi discepoli». Beh… sull’atlante ho visto che da Cana a Cafarnao c’è un po’di strada: Cafarnao non era proprio dietro l’angolo. Nella mia curiosità, che tante volte è la mia salvezza, ho scoperto che ci sono 26 chilometri ovvero almeno un giorno pieno di cammino. Ma io mi chiedo: che cosa si saranno detti in quel giorno di cammino Gesù e sua madre? Hanno camminato un giorno insieme dicendosi che cosa? Mah… Forse sua madre gli ha detto perché aveva osato tanto a Cana o Gesù gli ha detto perché ha obbedito. Fatto sta che hanno camminato un giorno intero insieme e non penso che Gesù camminasse più veloce e non aspettasse sua madre. Hanno camminato insieme, fianco a fianco, forse semplicemente cercando di cogliere quanto stava avvenendo nella loro vita attraverso i segni che si realizzavano.

 

Cara madre, puoi fare lo stesso con me? Mi puoi camminare a fianco e leggere tra le pieghe e le piaghe della mia vita quello che mi sta succedendo? Non ti chiedo abilità particolari, ti chiedo solo di esserci, di avere il mio passo per portarmi a camminare come cammini tu.

Termino questa mia lettera facendoti una confessione. Io, quel Gesù di cui tu parli tanto, e di cui sembri essere innamorata, non l’ho ancora incontrato. E chissà quando lo incontrerò, ammesso che esista. Ma per il bene che mi vuoi ho la certezza che un giorno dirò: «Io Gesù l’ho incontrato. L‘ho incontrato negli occhi di mia madre».

I.B.

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