Un padre e una madre che fanno scudo ai due figli e li salvano al prezzo della loro vita: ecco l'immagine del terremoto che resterà nel cuore...Chi ha camminato per i vicoli dell'Aquila e si è accorto di affrettare involontariamente i passi, angosciato dall'innaturale silenzio...
del 02 luglio 2009
Chi ha percorso le strade di Onna e ha visto le case sventrate, i letti in bilico sul vuoto, i guardaroba aperti e assurdamente in ordine mentre il muro davanti non c’era più; chi ha camminato per i vicoli dell’Aquila e si è accorto di affrettare involontariamente i passi, angosciato dall’innaturale silenzio di una città da cui tutti se ne erano andati; chi ha visto, ecco, con i suoi occhi lo sfacelo di tante dimore e famiglie e vite, non ha potuto non restare almeno per qualche momento atterrito. E chiedersi, di fronte a case di cemento crollate insieme a chiese millenarie, chiedersi che cosa regga, quando la terra, la docile terra su cui piantiamo le nostre case, si ribella e imbizzarrisce con questa ferocia. A Onna un’anziana signora raccontava sconvolta d’avere visto dalla sua casa la terra, nei campi, aprirsi in una sottile frattura e poi richiudersi. Che cosa regge, quando si apre la terra?
 
Eppure, qualcosa tiene. Ci ha raccontato un giovane sacerdote, don Luigi Epicoco, una storia che lo ha visto testimone in quella tragica notte all’Aquila. Un palazzo accanto alla sua chiesa, in piazza San Biagio, nel centro storico, è crollata. Ci abitava fra gli altri una famiglia con due bambini, di 7 e 10 anni. Nella polvere e nel buio, subito dopo la scossa, don Luigi ha sentito dei lamenti. Soccorsi ancora non se ne vedevano, in quella notte che sembrava eterna. Allora il prete e dei suoi giovani amici hanno preso a scavare con le mani, disperatamente. Fino a quando tra le travi e le macerie hanno sentite più nette e vicine le voci - voci di bambini. Scavando ancora, con furia, hanno incontrato però, per primi, dei corpi inerti, già freddi. Ma i lamenti da sotto continuavano. Quei corpi erano del padre e della madre, che nell’istante fatale avevano avuto una intuizione: potevano salvare i figli, proteggendoli col loro stesso corpo dalle travi che crollavano. Così è stato. I due bambini si sono salvati. Solo il maggiore, nella paura e nel buio, ha domandato inquieto cos’era, quella cosa morbida che lo aveva protetto. “È un materasso”, gli hanno detto i ragazzi, pietosi. Ma il bambino ha capito. E dopo un momento ha detto, piano: “Non ditelo a mio fratello. Sapete, lui è piccolo”.
 
E allora tu che ascolti pensi che c’è qualcosa che tiene anche quando il mondo crolla addosso. È il bene dei genitori per i figli: quando tutto è perduto, il proprio povero corpo può ancora servire a proteggere loro. È il bene di un fratello di dieci anni per il più piccolo, quello con cui magari ogni giorno, come tutti i bambini, litigava. E però, cresciuto quel ragazzino in una notte, sorge in lui quell’accento improvvisamente adulto: “Non ditelo a mio fratello, lui è piccolo”. Quasi in una responsabilità paterna, ereditata in un istante. Com’è possibile? È possibile se quel ragazzo aveva visto i suoi, da sempre, prendersi cura di lui e del fratello. In un amore imparato per osmosi, nella semplice quotidianità dei gesti in una casa. In quel tessuto di affetti così rinnegato oggi, e ritenuto da tanti superato; quel tessuto fatto da un padre, da una madre uniti da una promessa solida e fedele, e dai figli.
 
Si chiama famiglia, è una cosa antica. Non s’è saputo inventare di meglio, per crescere i bambini, educarli, sostenersi reciprocamente, proteggere i vecchi e i malati. Non s’è saputo trovare altro, di così grande, e rispondente alla natura istintiva degli affetti degli uomini. Niente di così forte, che il terremoto non lo possa neanche scalfire. Quei due così lucidi nell’ultimo istante, chini sui loro figli. Quel figlio bambino sfiorato dalla morte che, in salvo da un attimo, cosciente da un attimo, ha un sussulto: “Non ditelo a mio fratello. Sapete, lui è piccolo”.
 
Tratto da: Noi genitori e figli
 
Marina Corradi
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