«La Repubblica combatte il razzismo, l'antisemitismo e la xenofobia. Essa non riconosce l'esistenza di alcuna cosiddetta razza». Un passo in avanti verso l'obiettivo finale: non parlare più di razze, per non dover più parlare di razzismo
del 13 luglio 2013
Le razze non esistono. Il concetto è acquisito da decenni in ambito accademico; tuttavia stenta – e molto – a far breccia nell’opinione comune. Anche in quanti rigettano ogni discriminazione. Per questo ripetere che le razze non esistono non è banale, anzi: la stessa parola “razza” andrebbe espulsa non solo dal linguaggio scientifico, dove non ha più diritto di cittadinanza per manifesta infondatezza, ma anche dal linguaggio corrente. Va in questa direzione l’iniziativa del Parlamento francese di rimuovere il termine da tutti i testi legislativi.
Spesso queste epurazioni sono coperte da un velo di ipocrisia: il sociologo Eric Fassin ha obiettato su “Le Monde” che «l’eufemismo non fa che oscurare il problema». In questo caso tuttavia l’operazione è semplicemente corretta dal punto di vista linguistico, prima ancora che contenutistico. Parlare in termini di razze umane non ha senso; tutti noi apparteniamo a una sola razza, caratterizzata da un’infinita variabilità al suo interno. Esistono certo gruppi di caratteristiche somatiche simili, ma ogni tentativo di isolarli in razze è destinato al fallimento; basti a testimoniarlo il fatto che ogni cultura divide le razze umane a modo suo. Gli americani per esempio – ce lo ricordano tanti film e telefilm – distinguono caucasici, afroamericani, ispanici, asiatici e nativi americani; la polizia inglese invece scinde la razza caucasica d’Oltreoceano in due, razza europea e razza mediorientale, alle quali aggiunge afrocaraibici, indiani (dell’India) e indocinesi.
La biologia insegna che non è possibile tracciare linee che separino una razza da un’altra; si possono solo indicare punti estremi – l’area del mondo dove mediamente la pelle è più scura, quella dove mediamente i capelli sono più chiari – ma non definire intorno a essi insiemi coerenti. Senza contare che le caratteristiche biologiche sono innumerevoli e già solo scegliere il colore della pelle o il taglio degli occhi è una scelta arbitraria: perché non l’altezza, o il gruppo sanguigno? A questa domanda risponde la storia della cultura: perché l’altezza o il gruppo sanguigno non erano funzionali alle distinzioni che interessavano in un dato momento. La teorizzazione scientifica delle razze umana ha preso piede non caso nell’età del colonialismo, tra Otto e Novecento, nutrendosi dell’evoluzionismo allora in impetuosa ascesa. Complice lo scientismo positivista, tutto sembrava poter essere inquadrato in schemi rigidi e definiti, “scientifici”: anche le differenze tra i gruppi umani. Il passo successivo (ma spesso in realtà precedente, almeno nelle motivazioni) fu l’attribuire a ogni razza non solo caratteristiche fisiche, ma anche intellettuali e morali; e poi ancora, a queste caratteristiche assegnare una precisa gerarchia, invariabilmente con l’uomo bianco al vertice. Nell’Ottocento era comune, nelle pubblicazioni scientifiche, scendere ancor più nel dettaglio e parlare di razza italiana, razza francese, razza inglese: ognuna definita con caratteri biologici (era in gran voga la craniologia, la classificazione metrica dei crani umani, poi rigettata dall’antropologia successiva), e in sprezzo a ogni evidenza di senso comune.
Naturalmente ricordare che le razze non esistono non significa negare la possibilità di ragionare in termini di gruppi umani. Ma le etnie sono qualcosa di ben diverso dalle razza, individuato non biologicamente ma culturalmente. Il riferimento è la celebre definizione di Benedict Anderson delle nazioni come “comunità immaginate”: a fare un popolo è il senso di appartenenza dei suoi membri, mentre le caratteristiche usate per definirlo (aspetto fisico, territorio, lingua, religione, storia, cultura...) sono elementi secondari, scelti a posteriori proprio in funzione di quel senso di appartenenza. Per esempio la religione è l’elemento chiave della distinzione tra irlandesi e inglesi o tra serbi e croati, altrimenti accomunati dalla lingua e da secoli di storia, mentre a noi italiani suona naturale riferirsi proprio alla lingua come elemento identificativo primario.
L’Assemblea Nazionale ha rilanciato in Francia il dibattito sul razzismo, e sensatamente è stato da più parti fatto notare come non basti eliminare il termine per eliminare l’atteggiamento che sottende. Così, se la prima stesura della legge si limita a espellere il termine razza dalla legislazione, un emendamento attualmente all’esame del Parlamento aggiunge: «La Repubblica combatte il razzismo, l’antisemitismo e la xenofobia. Essa non riconosce l’esistenza di alcuna cosiddetta razza». Un passo in avanti verso l’obiettivo finale: non parlare più di razze, per non dover più parlare di razzismo.
di Edoardo Castagna
Testo tratto da avvenire.it
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