La metafora non è sempre etica, non è sempre lecita e non è sempre piacevole, un po' come la satira...
No, non sono un feticista della parola. Eppure il linguaggio conta, è innegabile. Quando parliamo, usiamo un codice di comunicazione che presuppone un rapporto dialogico con l’interlocutore, un rapporto basato essenzialmente su un vocabolario comune, fatto di segni e di simboli. Poi c’è lei, la metafora. Un mezzo potente, immediato, intrinsecamente poetico ma incredibilmente popolare, usato (e abusato) dai letterati, dai politici, dai giornalisti, dai cantori e dai comici. Difficile dire se esista ancora qualcuno in grado di distinguerla dalla similitudine, ma è certo che la metafora è capace di produrre immagini devastanti, più efficaci di mille parole.
La metafora, tuttavia, non è sempre etica, non è sempre lecita e non è sempre piacevole (un po’ come la satira, direbbe qualcuno). Provate a pensare a tutte le volte in cui avete sentito l’espressione «cancro della società». La si ripete con insistenza: la mafia/la corruzione/le ideologie deviate/gli estremismi/la demagogia sono il cancro della società civile. Eppure nessuno si chiede mai come si senta una persona affetta da questa malattia nel sentire queste espressioni. Non si tratta certo di paternalismo, o della classica ipocrisia di chi predica di utilizzare solo parole politicamente corrette; si tratta, piuttosto, di avere la giusta sensibilità nei confronti di chi lotta ogni giorno contro un mostro feroce, invisibile e proprio per questo ancora più temibile. Certo, direte voi, ci sono tante persone che ironizzano sulla propria malattia: ma anche quello è un modo per combattere, per resistere, per vincere.
Chi ha il cancro dentro di sé ha il pieno diritto di parlarne come vuole, perché il suo rapporto con la malattia è qualcosa di esclusivo, personalissimo, intangibile. Chi cura il cancro ha ovviamente il diritto di parlarne, ma solo con la delicatezza di chi comprende i problemi altrui, li condivide e li fa propri. Il resto delle persone non ha il diritto di parlare a vanvera, di pontificare sulla questione, di dare sfogo alla propria dialettica con figure retoriche decisamente inappropriate. Stessa cosa per chi –soprattutto nell’ambito della comicità – fa ampio uso delle parole chemioterapia e prostata per suscitare risate che, a onor del vero, non arrivano quasi mai.
C’è chi banalizza il male di questi secoli nominandolo a sproposito, e c’è chi abbassa la voce se si parla di malattia, condendo il tutto con espressioni di pietà e –insieme- di disgusto. Non è raro che a questi atteggiamenti seguano vere e proprie azioni di isolamento, forse nella convinzione fallace che la persona malata non possa più essere se stessa, non sappia più svolgere le sue funzioni, non sia più affidabile. Linguaggio e comportamenti, così, banalizzano la malattia a tal punto da ingigantirla, da renderla una vera peste agli occhi della società.
Com’è possibile? Com’è possibile che la banalizzazione di un concetto, dovuta essenzialmente all’ignoranza, finisca per creare un movimento antitetico di esagerazione?
Sarà forse che il sonno della ragione genera mostri.
Sarà che la vera malattia della modernità… è la stupidità.
Fabrizio Margiotta
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