Non quella del film di Maselli, ma di Sara e Michele, i due giovani colpiti da AIDS, che avevo sposato il 22 novembre dell'anno scorso. Ne avevo parlato per difendere il loro diritto ad amare, diritto che non può essere negato a nessuno.
del 07 gennaio 2008
Non quella del film di Maselli, ma di Sara e Michele, i due giovani colpiti da AIDS, che avevo sposato il 22 novembre dell’anno scorso. Ne avevo parlato per difendere il loro diritto ad amare, diritto che non può essere negato a nessuno.
È passato quasi un anno. Che ne è stato di loro? Sono stati almeno capaci di costruire un rapporto di coppia dignitoso? Michele, in realtà si chiama Massimo, è morto il  giorno 9 settembre 1987, dopo un lunghissimo periodo di sofferenze dovuto alla malattia.
La stampa ne ha parlato a lungo. Il suo era «un caso», sembrava avesse commesso un delitto in conseguenza dell’Aids, che ne aveva intaccato le facoltà mentali. Lui non ricordava niente del «fatto»: il processo non si è ancora concluso, comunque per la gente e i giornali lui era «l’assassino del play-boy».
La Sara di questa storia si chiama Grazia: è stata accanto a Massimo fino agli ultimi momenti. Quando lo aveva sposato non sapeva niente di queste sue vicende. Sapeva solo che era colpito dalla sua stessa malattia, che era depresso e gli mancava la voglia di vivere.
L’amore li libera dalla droga – «È molto più bello dipendere da Grazia che dall’eroina!» –, ma non dall’AIDS: «La malattia non era un incubo per noi. Bastava ritrovarci e pensavamo alla vita e non alla morte. Io non avevo mai provato un sentimento così intenso e pulito come il mio amore per Massimo. Pensavo che esistesse solo nei sogni. L’avevo accettato con paura, perché nessuno mi aveva mai amata veramente. Ci ha reso felici e ci ha fatto rinascere».
Il loro è stato un amore trepido, dolce, tenace, anche se apparentemente disperato, perché segnato dalla malattia: «Non è stato una cosa temporanea, durata lo spazio di pochi mesi. La vita non finisce con la malattia, la sofferenza, la morte; qualcosa resterà in eterno. La mia è stata una sfida al dolore, alla disperazione, una lotta che ho combattuto anche per Massimo. È stato questo mio amore per lui ad aprirmi a Dio, alla luce, alla gioia. E anche agli altri. Nonostante tutto sono stata fortunata: c’è gente che muore senza aver amato».
Un motivo di sofferenza è venuto dal comportamento della gente: «Ho sofferto molto a causa della gente. Questa malattia fa paura e lo posso capire. Ma spesso, oltre ad essere evitati, ci si sente giudicati e condannati. Vorrei che la gente capisse cha la vita non è uguale per tutti, non è sempre tranquilla e ordinata; ci sono mille situazioni difficili, ci sono delle malattie, dei problemi, delle situazioni diverse, che non sono volute eppure si verificano. Una di queste è l’AIDS. Ma non è giusto condannare.Vorrei che ci fosse maggior rispetto, più comprensione, più amore».
E tu, Grazia, non ti sei mai pentita d’aver sposato Massimo, con quello che è successo dopo? «Ti dico solo che se tornassi indietro, vivrei un’altra volta la mia storia con lui, ancora più intensamente. Solo avrei voluto un po’ più di tempo per stare insieme per fare le cose che fan tutti: camminare per strada, parlare, ridere e amare, guardare le montagne ed essere felici».
Da: Vittorio Chiari, Un giorno di 5 minuti. Un educatore legge il quotidiano
don Vittorio Chiari
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