del 19 dicembre 2016
Intervento di don Giannantonio Bonato al Ritiro di Avvento 2016 per i giovani del MGS Triveneto...
E VENNE AD ABITARE IN MEZZO A NOI
Giovanni 1, 1In principio era il Verbo,e il Verbo era presso Dio e il Verbo era Dio. 2Egli era, in principio, presso Dio: 3tutto è stato fatto per mezzo di lui e senza di lui nulla è stato fatto di ciò che esiste. 4In lui era la vita e la vita era la luce degli uomini; 5la luce splende nelle tenebre e le tenebre non l'hanno vinta. 11Venne fra i suoi, e i suoi non lo hanno accolto. 12A quanti però lo hanno accolto ha dato potere di diventare figli di Dio. 14E il Verbo si fece carne e venne ad abitare in mezzo a noi.
Invito
Stiamo vivendo il periodo di immediata preparazione al Natale. Il grande dono che dobbiamo invocare in questi giorni è la capacità di farci "attenti" al Mistero. Attenzione (ad tendere latino) significa "tendere verso", tendere verso Colui che viene. E’ una disposizione d’animo da coltivare e da difendere contro tutto ciò che è distrazione, dispersione, dissipazione. Il grande Mistero si è compiuto nel silenzio e nell’oscurità di una notte; lo si attinge solo se si accetta la non facile prova dell’interiorità. Per cogliere, allora, ciò che è essenziale: ed è il venire di Lui a noi. Il nostro ritiro è anzitutto questo: un invito ad entrare nel silenzio per udire la Voce: “Mi son fatto carne e ho messo su casa nella tua casa, io ospite di te, tu ospite di me”.
Riconciliarsi con la vita
Proprio così: viene a noi, questo Dio. E lo fa per assumere tutti i nostri limiti, nessuno escluso. Lo vediamo calarsi nel seno d'una donna, dentro una patria decaduta, un'epoca non pacificata, una cultura meschina, una politica sbagliata, una carne destinata alla morte; dentro l'incomprensione della gente, il monotono quotidiano, il fallimento, la solitudine, anche quella estrema del tradimento degli amici e della morte. Se dentro questi limiti è penetrato Dio, vuol dire che questi nostri limiti hanno un senso, hanno un valore, possono aprire un varco alla gioia. I suoi limiti che sono poi i nostri limiti: "Diede alla luce il suo figlio primogenito" (Luca 2,7) Primogenito ... primo di una serie … gli altri fratelli siamo noi! Significa che ogni vita, che ogni storia, ogni esperienza hanno un valore perché abitate da Lui.
Quale, questo valore? "Il Verbo si è fatto carne e ha piantato la sua tenda in mezzo a noi" (Giov 1,14). Eccolo: la tua vita è "abitata". Perché Egli viene ogni giorno e pianta la sua tenda nello spazio della tua vita. Così che i nostri luoghi sono i suoi luoghi e le nostre ore sono le sue ore, e le nostre avventure (o disavventure) sono le sue avventure.Il suo nome è Emanuele, Dio‑con‑noi! "Camminerò in mezzo a voi; sarò il vostro Dio e voi sarete il mio popolo" (Levitico 26,12). Il vostro Dio! Il Dio che ha in mente voi, che ha nel cuore voi, che parla a voi, che si premura di voi; il Dio per voi, per la vostra liberazione, la vostra vita, la vostra gioia, il vostro futuro. Per voi, con le vostre paure, le vostre miopie, le parole inadeguate, le menzogne, i sogni sbagliati, le fughe, le esaltazioni, gli scoramenti, gli errori, persino le derive... Vostro Dio, sempre! E voi sarete mio popolo! Mio, cioè gente che trova in me il proprio senso, il proprio centro, il proprio cardine, il proprio orizzonte, la propria forza ... Popolo: e cioè fratelli che si sostengono l'un l'altro, gente che comincia a farsi vicino, a condividere, a solidarizzare, a farsi carne nella carne dell'altro.
Ma è vero tutto questo? A volte il dubbio ci prende. Eppure... "Nessuno più ti chiamerà Abbandonata né Devastata; ma sarai chiamata Mio Compiacimento e Sposata; perché il Signore si compiacerà di te e la tua terra avrà uno sposo. Si, come un giovane sposa una vergine, così ti sposerà ‑il tuo creatore; come gioisce lo sposo per la sposa, così il tuo Dio gioirà per te" (Is 62,4ss). "Sarai una magnifica corona nella palma del tuo Signore, un diadema nella palma del tuo Dio"(Isaia 62,3). Noi siamo la corona di Dio, il tesoro di Dio, la gioia di Dio! Noi che a volte non andiamo fieri di noi stessi, noi che ci sentiamo stretti dai nostri limiti personali e da quelli che le situazioni di vita ci buttano addosso. E quasi ci detestiamo: "E’ così difficile amarsi ed è così facile odiarsi" diceva un autore francese (Bernanos). E’ l’impressione che si ha di fronte a non pochi giovani: sembra che abbiano qualcosa dentro che li rende scontenti di ciò che sono, un male oscuro che li fa dubitare del loro valore, una colpa misteriosa da espiare magari buttandosi via … forse la colpa di essere al mondo? Pensiamo all’aumento (così dicono le statistiche) dei casi di bulimia, di anoressia, di autolesionismo … Sono le ferite che la nostra cultura lascia nel fondo della loro anima.
E se non mi amo, come faccio ad accogliere il fratello per diventare con lui solidale (fare popolo con lui)? Come faccio ad educare se non giungo a questa accettazione di me e dell’altro, che è riconoscimento dei miei e dei suoi limiti, ma nella speranza che dentro lì si cala il dono di Dio che fermenta in me possibilità sempre nuove? Se così fosse i limiti diventerebbero opportunità per una vita sempre possibile, una vita chiamata a pienezza …
Allora, frutto del silenzio, è questo fare pace con se stessi, con la vita, con la storia, anche se a volte non ci piace, anche se ci pesa, anche se, tanto o poco, delude. Ci riconciliamo con noi stessi perché scopriamo di essere una corona nella palma del nostro Dio! E ci riconciliamo con gli altri perché scopriamo che pure loro sono una corona nella palma dello stesso Dio. Il vero natale deve avvenire in noi tramite questa riconciliazione con noi stessi, con tutto noi stessi; e questo è possibile se ci guardiamo con lo sguardo di Dio, se ci accogliamo nell’accoglienza di Dio, se ci perdoniamo nel perdono di Dio, se ci progettiamo nel progetto di Dio.
Fare pace con la vita ... condizione indispensabile per essere generatori di vita. Diceva un filosofo del Novecento: “Per ogni tipo di creazione esiste una condizione previa ed essenziale: ed è il giuramento di fedeltà alla vita” (Mounier). La generatività (che è ben più della semplice procreazione) è possibile solo se si ama talmente la propria vita da sentire il bisogno di prolungarla, estenderla, moltiplicarla, condividerla, rischiarla, donarla e celebrarla. E che cos’è l’educazione se non l’espressione e l’esercizio di una autentica generatività?
Aprirsi all’incontro
Ma anche, è allora che diventiamo capaci di incontro vero: perché capiamo e accettiamo le ristrettezze del fratello; è allora che, condividendo ciò che lo limita e lo angustia, lo aiutiamo a scoprire il segreto della felicità che è di accogliere il dono di Dio. Perché l’etimo della parola “felicità” è la radice indoeuropea fe che significa vita (donde derivano altre parole come fe-condità, fe-mmina, fe-to ...). Felicità è trovarsi pieni di vita attingendo vita in Chi non solamente ha la vita ma è la Vita e cioè Dio. E’ proprio per questo che il discorso inaugurale di Gesù consiste nella proclamazione delle Beatitudini ossia nella comunicazione della felicità che Dio vuole donarci rendendoci partecipi della sua. La prima parola di Dio pronunciata nel Verbo fatto carne non è di chiederci qualcosa, ma di donarci qualcosa: la felicità stessa che è in Dio: Beati voi …
Allora entriamo in solidarietà con ciò che di più profondo l’altro si porta dentro: la sete di essere amato e capito, e consolato, e risanato, e portato, lui stesso, da un Amore grande che mai deluda. E se ci affianchiamo a lui, giorno dopo giorno, e lo accettiamo come Dio lo accetta, e lo amiamo come Dio lo ama, allora potremo comunicargli questa lieta notizia. E’ da qui che prende l’avvio l’avventura dell’educazione e della pastorale giovanile, all’insegna della speranza. Ma allora nell’atto stesso di capire le ristrettezze del fratello scopriamo anche le sue ricchezze, quell’immenso potenziale di bene che si porta dentro e che è traccia di Dio in lui, segno d’una Presenza reale anche se non sempre riconosciuta, e di un amore fedele anche se non sempre corrisposto. Allora, lo sguardo che posi su un giovane (chiunque egli sia) è uno sguardo che coglie la luce prima che la tenebra (e coglie la sua tenebra ma al chiarore di quella luce: questo è l’ottimismo tipico di don Bosco), è un’apertura che esprime fiducia, attesa positiva, abbandono di eventuali pregiudizi, disarmo delle istintive difese, desiderio di scoprire, per dirla sempre con don Bosco, quel punto di bene facendo leva sul quale tutto diventa possibile. Tutto, anche ciò che, umanamente, non sembrerebbe possibile.
Amare ciò che i giovani amano
Infine è allora che ci sentiamo invogliati ad amare ciò che i giovani amano (è sempre don Bosco a parlare) perché cogliamo, in profondità, ciò che li attira per davvero, ciò che desiderano per davvero, ciò che li appaga per davvero; partiamo sì da ciò che sul momento li interessa, li occupa o li preoccupa; ma, proprio perché condividiamo tutto questo, ci facciamo accettare come compagni di viaggio e, poco per volta, li aiutiamo a scoprire qualcosa di più vero e profondo: i desideri dentro i bisogni, la gioia dentro i piaceri, la verità dentro le curiosità, l’incanto dentro le evidenze, la fedeltà dentro gli incontri, la bellezza dentro l’utilità, la speranza dentro gli appagamenti, la pace dentro l’ostilità, l’oltre dentro le ovvietà, il mistero dentro la vita, Dio dentro la storia …
E non è un condividere tattico per portarli dove noi abbiamo già deciso di portarli, ma è un condividere vero, facendo strada con loro senza sapere dove sfocerà quella strada, né quali ostacoli si incontreranno, né a quali effetti produrrà quell’avventura vissuta con loro. E’ un vero e proprio atto di fede: in Dio e nel giovane, in Dio che abita quel giovane, che ha cura di quel giovane, che non dispera mai di quel giovane, che scommette sempre su quel giovane. Qui si gioca tutta la fede dell’educatore: fede in Dio, fede nei giovani, fede in se stesso. Il che significa che è una strada su cui si proietta l’ombra della croce … Gli Atti del IV Convegno europeo si Pastorale giovanile (2014) attestano che proprio questa è la strada. Tutto questo è possibile se la nostra vita è “abitata”, se lasciamo che Dion pianti la sua tenda dentro di noi, se facciamo spazio alla sua azione dentro di noi. Perché il natale è un dono ma è anche un invito … Venne fra i suoi, e i suoi non lo hanno accolto. A quanti però lo hanno accolto … il che significa che in gioco c’è sempre la nostra libertà.
La traduzione del frammento biblico che abbiamo preso in considerazione dice testualmente: “Il Verbo ha piantato la sua tenda tra di noi” (eschenosen, la schené essendo la tenda). E la tenda è la casa del beduino, è la casa dell’ebreo in esodo dall’Egitto, è la casa dove Dio si fa incontrare (la tenda del convegno).
Tant’è che la etimologia del sostantivo “casa” è la radice indoeuropea kay che significa pelle e che richiama, appunto, le tende dei nomadi. Oltre a casa noi usiamo anche il termine “abitazione” che deriva dal latino habere, lo stesso etimo di abito, e qui ancora ci rimanda alla pelle, a qualcosa che ci avvolge e ci protegge.
Dunque, quando noi diciamo che Il Verbo è venuto ad abitare tra di noi diciamo che è venuto a “piantar casa” in noi e tra di noi. Il che sta a dire che la missione, per il cristiano, consiste nel diventare casa per chi casa non ha o per chi è povero di casa, o per chi è desideroso di casa, ossia di riconoscimento, ospitalità, intimità, cura, protezione, stima, sostegno, comprensione, perdono, fiducia, futuro …
E qui troviamo l’intuizione originaria di don Bosco: “dare una casa a chi non aveva casa” (il che costituiva un bisogno urgente a quel tempo essendo tanti i ragazzi che dalle valli del Piemonte scendevano a Torino in cerca di lavoro nelle nascenti industrie). Ma per don Bosco “dare una casa a chi non ha casa” diventa molto di più d’un ricovero temporaneo; diventa un ambiente educativo. Non si tratta semplicemente di una struttura recettiva, non di un servizio sociale, e neppure d’una proposta come la si pensava e la sia realizzava ai suoi tempi, ossia collegio, istituto, riformatorio, strutture di contenimento, di costrizione, di rieducazione all’insegna non certo dell’amore che risveglia le migliori energie, ma della coercizione che limita le libertà e piega le volontà.
Don Bosco non ha mai voluto chiamare le sue opere “Istituto” ma semplicemente “Case”. E cioè: luoghi dove ci si sente libri di essere e di crescere e questo perché ci si sente accolti, capiti, amati, sorretti, incoraggiati. E ciò avviene quando si incontra un educatore che non solo fa casa ma che diventa casa per ogni giovane che incontra. E’ il natale stesso che don Bosco traduce in missione e in pedagogia. Allora, per noi: “fare natale” ossia accogliere Dio che fa casa in noi significa diventare persone/casa, ambienti/casa, proposte/casa, stile/casa.
Proviamo a vedere come ciò incide sul nostro modo di essere educatori e di agire da educatori nel nome di don Bosco.
La casa è, per definizione ambiente di accoglienza. Non esiste casa se non ci si sente accolti cioè riconosciuti, accettati, valorizzati, in una parola, amati. E l’accoglienza deve essere incondizionata almeno nell'intenzionalità anche se non sempre nell'esercizio concreto, per limiti di risorse personali, di istituzioni, organizzazioni, strutture e servizi (non sempre si è in grado di dare risposte a tutti i bisogni né come singoli né come comunità educativa); ma non deve mai mancare lo sguardo che si protende al di là delle limitazioni e l’animo che trepida proprio per quei giovani che non si riesce a raggiungere e a servire.
Una capacità di illimitata accoglienza che don Bosco attingeva al mistero stesso di Dio. “La presenza dell'educatore che si fa accoglienza ricorda la priorità del giudizio di fede sopra ogni giudizio etico, la priorità del dono di Dio che fa nuove le persone, sopra la fragile e incompleta risposta dell'uomo. Per questo la sua presenza è un gesto di amore, radicato su di una esperienza più grande che avvolge e fonda quello che viene posto nell'atto educativo. Anche quando l'educatore fa fatica a fidarsi dei suoi giovani, egli si esprime in un'accoglienza incondizionata nel nome di Dio. E così egli va alla radice, verso una esperienza di verità più grande di quella che riusciamo a possedere con i nostri strumenti di analisi” (Riccardo Tonelli).
E’, dunque, un’accoglienza che diventa evangelizzazione, ossia annuncio e indicazione d’un Amore che supera ogni amore umano mentre lo sostanzia, lo purifica e lo potenzia chiamandolo a perfetto compimento. Non per nulla don Bosco fa parte di quella numerosa schiera di santi che hanno evangelizzato la Torino dell’800 grazie al multiforme esercizio della carità, tanto da essere chiamati “i santi sociali”. Si scopre allora la verità di quanto don Bosco stesso affermava ossia che l’educazione è “cosa di cuore”: nel senso che mette in gioco l'affettività del singolo e la tonalità affettiva dell'ambiente declinandosi in cordialità, condiscendenza, tollerabilità, disinteresse, adattabilità, fiducia sempre rinnovata nelle risorse del giovane, speranza sempre coltivata sul suo futuro.
E deve trattarsi d'un amore “dimostrato” (è sempre don Bosco che ce lo ricorda), vale a dire espresso con i linguaggi adeguati all’età agli ambienti, alle situazioni e alle culture, purché provengano dal profondo portando così il marchio della sincerità: “Non quelli sentimentali ed impulsivi, ma quelli della vera accoglienza fondata sulla fiducia e quelli dell'aiuto e della disponibilità fattiva. Amore significa sostenere, collaborare, animare, guidare, accompagnare, non lasciar soli nel cammino e al tempo stesso far acquisire gli strumenti per vivere con ragionevole sicurezza nel momento in cui occorre camminare da soli” (Carlo Scurati).
E’ quanto don Bosco intendeva con “assistenza”, quella costante presenza tra i giovani che non è semplice sorveglianza, ma partecipazione, incoraggiamento, correzione (se necessario), sempre condivisione di esperienze, fianco a fianco.
Non esiste casa senza paternità intesa in senso lato, ossia come presenza ed azione di genitori che, autori della vita, ne sono i difensori, gli accrescitori e gli educatori. “II padre, fin dai primordi della storia, ha sempre rappresentato in modo concreto l'insieme delle leggi e degli ordinamenti che presiedono la vita in un determinato gruppo sociale (…) Si può dire che il mondo dei padri è quello della storia, ed è relativo al livello evolutivo della coscienza raggiunto in un determinato gruppo sociale. I valori, quindi, che il padre trasmette, riguardano la vita storica che il figlio dovrà compiere all'interno del gruppo sociale al quale appartiene. Le norme, le leggi, i tabù, le prescrizioni morali, gli stili e i modi di vita appartengono al mondo paterno. I valori che la madre trasmette, invece, sono relativi alle dimensioni esistenziali più profonde, e prescindono dalla cultura locale. Sono quelli connessi ai sentimenti più profondi dell'uomo e al senso della vita” (Mario Pollo).
Gli educatori assumono quindi funzioni irrinunciabili: interpretare la vita a partire dalla piccola storia del minore per creare collegamento con la grande storia (e quella più grande ancora che è la storia di salvezza); enucleare e proporre valori mediati nei linguaggi (esperienze) dell'oggi: offrire “ragionevolezza” ossia richiamo e sostegno normativo (di qui il valore di una “certa” disciplina con preoccupazione che venga internalizzata e non solo ottemperata); sempre e a tutti, donare sostegno affettivo nella fatica di affrontare, interpretare, significare e trasformare se stessi e la realtà.
Sentirsi a casa vuol dire possibilità di essere se stessi; nel varcare la soglia di casa uno smette un certo tipo di controllo perché sa che, lì dentro, può dire e dirsi con spontaneità, utilizzando i linguaggi tipici dell’età, del carattere, dell’educazione ricevuta, della cultura d’ambiente; e dove ci sono dei minori, si sa che non possono mancare vivacità, fantasia, rumorosità, agitazione, disordine, proposte e richieste anche imprevedibili; espressioni tutte che vanno educate e talora disciplinate, mai negate o represse. Ma è in questo clima che la persona si rivela per quello che è, mentre, nel confronto con gli altri, scopre quello che potrebbe e dovrebbe essere.
La novità introdotta da don Bosco rispetto agli stili educativi dell’epoca stava proprio nella libertà data ai ragazzi di esprimersi con tutto se stessi. Non per niente il momento di maggior attenzione e di più ampio coinvolgimento era, per don Bosco, il cortile. Senza questa “totale” espressività la scuola farà del giovane un recettore/ripetitore, la palestra ne farà un atleta/competitore, il teatro ne farà un dilettante/attore; ma, forse, non riuscirà a farne una persona che conosce se stessa, apprezza se stessa, costruisce se stessa, progetta se stessa. Qui si gioca, più che in altri ambiti, il tema della casa.
E' questo il “contesto” nel quale è possibile il “testo” dell'educatore. E ciò avviene se l'educatore è protagonista assieme al giovane, se con lui vive tutto e non solo alcune parti di sé. E' il richiamo contenuto nella famosa lettera di don Bosco ai Salesiani, scritta da Roma nel 1884, quasi un rimprovero ed un testamento: l'educatore non si celi dietro al ruolo di competenza o di autorità ma diventi compagno, amico, propositore e guida, ovviamente senza mai perdere l’identità e la funzione di adulto perché, a quel punto, verrebbe meno la stessa relazione educativa. Allora, ammoniva don Bosco, rifiorirà la confidenza d'un tempo, ciò che consente la comunicazione tra adulti e giovani; poiché la fiducia non la si impone e la comunicazione non la si produce; ciò che si può e si deve fare è istituire le condizioni perché fioriscano in libertà e responsabilità; ma allora, in educazione, tutto diventa possibile; di questo, don Bosco era più che convinto.
Il nesso tra valori/modelli/comportamenti non è più un portato culturale come avveniva in altri tempi. Esso va fatto scoprire e sperimentare come positiva affermazione di sé, fonte di sicurezza, equilibrio, ottimismo, creatività. E questo può avvenire se si dà vita ad un progetto educativo che renda possibile toccare con mano i valori, confrontarli con diversi modelli d’umanità, e, una volta scelti, calarli in comportamenti coerenti. Trascurare la progettualità è favorire quella frantumazione interiore che impedisce la sintesi personale tra valori/modelli/comportamenti. E' del tutto inutile stigmatizzare i comportamenti devianti o indesiderati dei giovani se non si opera per costruire questa solidarietà di base! Del resto, una casa senza fisionomia (ossia progettualità) è pensione, albergo, caserma o peggio. Ha da essere, questo, un progetto che dal tavolino della riflessione passa subito al quotidiano della vita per segnare di sé il clima d’ambiente, le proposte educative, lo stile partecipativo, le iniziative che possono sorgere dall’alto o dal basso, da dentro o da fuori. Un progetto che è continuamente in via di sperimentazione e di elaborazione grazie all’apporto dei giovani stessi che, esprimendo novi bisogni e sensibilità inedite, si fanno promotori di adattamenti e cambiamenti, sempre in dialogo con gli educatori e le famiglie.
Che per molti, oggi, la casa stia diventando una fortezza che isola dal mondo, ce lo dicono i sociologi e lo tocchiamo con mano guardandoci attorno. Ma questo è un pericolo, e non tra i minori. La casa è sempre parte d’un contesto sociale e d’un progetto globale; per cui, è, allo stesso tempo, intimità e apertura, comunità e popolo, particolare e universale. Anche la famiglia educativa è un organismo politico nel senso che fa parte di una “polis” ed educa alla “polis”. E mentre rende attori i giovani dentro e fuori le proprie mura, rende protagonisti anche gli adulti in un ampio coinvolgimento sulle grandi tematiche culturali e sui problemi del vivere sociale. Perché è sui giovani che si scarica, più pesantemente che su altre categorie, l'esito negativo; e perché è con i giovani che si può e sì deve prefigurare l'avvenire.
Comporta altresì un accentuato impegno vocazionale dei giovani stessi: dimensione futuro e sfida della speranza dato che il sistema “preventivo” (così lo chiamava don Bosco) è “proattivo” nel senso che anticipa e predispone ad un futuro ricco di vita per sé e per gli altri! Non porte chiuse, dunque, ma spalancate sul mondo d’oggi e di domani, per quella grande passione che don Bosco esprimeva nell’adagio “fare dei giovani buoni cristiani ed onesti cittadini”.
Gioia e festa sono celebrazioni della vita; è per questo che scaturiscono da una istintiva disponibilità dei giovani. Don Bosco aveva intercettato questo bisogno profondo, per cui non riconosceva come propria una casa ove non ci fossero allegria e festa nelle più svariate espressioni. Ma sono espressioni vere e durature (negli effetti) quando si constata che, in quella casa, tutta la vita e la vita di tutti viene accolta come valore e perciò promossa, difesa, espansa, orientata, celebrata. E quando si offre l'opportunità di attingere al fondamento ultimo della vita come valore‑dono: ed è il Dio della vita! Per don Bosco non è pensabile educare salesianamente senza questo elemento. Qui promozione umana ed evangelizzazione trovano perfetta fusione e reciproca fecondazione.
Conclusione: la concretezza dei gesti
Nella sua ultima raccolta di poesie dal titolo Elogio dell'ombra (1969), lo scrittore argentino Jorge Luis Borges (1899-1986) presenta una lirica intitolata significativamente Giovanni 1,14. Si tratta di una meditazione sul versetto 14 del prologo del Vangelo secondo Giovanni: E il Verbo si fece carne e venne ad abitare in mezzo a noi fatta da un agnostico che conserva la nostalgia della fede. Egli fa dire a Cristo:
Per opera di un incantesimo nacqui stranamente da un ventre. Vissi stregato, prigioniero di un corpo e di un'umile anima. Conobbi la memoria, moneta che non è mai la medesima. Il timore conobbi e la speranza, questi due volti del dubbio futuro. Ed appresi la veglia, il sonno, i sogni, l'ignoranza, la carne, i tardi labirinti della mente, l'amicizia degli uomini, la misteriosa devozione dei cani. Fui amato, compreso, esaltato e sospeso a una croce. Bevvi il calice fino alla feccia. Gli occhi miei videro quel che ignoravano: la notte e le sue stelle. Conobbi ciò ch'è terso, ciò ch'è arido, quanto è dispari o scabro, il sapore del miele e della mela e l'acqua nella gola della sete, il peso d'un metallo sulla palma, la voce umana, il suono di passi sopra l'erba, l'odore della pioggia in Galilea, l'alto grido degli uccelli. Conobbi l'amarezza. [...] Ricordo a volte, e ho nostalgia, l'odore di quella bottega di falegname.
Se il Verbo si è fatto carne, vuol dire che ha scelto la strada che lo avrebbe portato a sentire, a gustare, a toccare, a vedere, a odorare; a entrare cioè in questo ritmo di gesti umili e immediati, eppure costitutivi della nostra umanità. Pensiamo alle carezze che Gesù ha dato ai bambini e diciamo: “Il Verbo si è fatto carezza”. Pensiamo al pianto di Gesù davanti alla tomba di Lazzaro e diciamo: “Il Verbo si è fatto lacrime”. Pensiamo a quella specie di fango applicato sugli occhi del cieco nato e diciamo: “Il Verbo si è fatto saliva”. Pensiamo al lebbroso che ha toccato e diciamo: “Il Verbo si è fatto piaga”. Ma pensiamo anche al pane spezzato con i suoi amici e con gli intimi e diciamo. “Il Verbo si è fatto convivialità”. E alla letizia delle nozze a Cana dopo che il vino era tornato a sorridere sulla
mensa dei commensali e diciamo: “Il Verbo si è fatto gioia per l’amore ritrovato”.
Il Verbo si è fatto questo nostro sentire, vedere, gustare, gioire e patire; il Verbo si è fatto umanità, più ancora, potremmo dire “si è fatto carnalità” che è proprio un richiamo alla concretezza dei gesti.
Don Giannantonio Bonato
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