Ci sono tanti modi di ritornare a casa dopo un viaggio. C'è chi ritorna per riposarsi dalla stanchezza del viaggio.Tra questi ritorni per raccontare, amo pensare quello dei nostri quasi 1.500 giovani dall'incontro con il Papa a Loreto per l'Agorà dei giovani italiani. Non sono stato con loro a Loreto, ma li credo portatori a tutti noi rimasti in città di un forte messaggio. Quale?
del 11 settembre 2007
 
 
 
 
Ci sono tanti modi di ritornare a casa dopo un viaggio. C’è chi ritorna per riposarsi dalla stanchezza del viaggio.
Chi ritorna per ritrovare, dopo la dispersione estiva, i volti noti di casa, le abitudini e i ritmi delle sue giornate di lavoro, le relazioni amicali, i luoghi e le tradizioni più care della sua città, i vincoli di appartenenza alla propria comunità ecclesiale.
E c’è chi ritorna per raccontare la bellezza di qualche incontro, secondo il pensiero pascaliano che “nessuno si metterebbe in viaggio, se non avesse la speranza di raccontarlo”.
Tra questi ritorni per raccontare, amo pensare quello dei nostri quasi 1.500 giovani dall’incontro con il Papa a Loreto per l’Agorà dei giovani italiani. Non sono stato con loro a Loreto, ma li credo portatori a tutti noi rimasti in città di un forte messaggio. Quale?
 
 Per Dio non ci sono periferie
 
Coerente con il suo stile e metodo di incontro, Papa Benedetto XVI, prima di fare discorsi, ha voluto ascoltare le domande dei giovani.
La prima, quella di due giovani di Bari, è stata questa: “A molti di noi giovani di periferia manca un centro, un luogo o persone capaci di dare identità. Siamo spesso senza storia, senza prospettive e perciò senza futuro. Sembra che ciò che aspettiamo veramente non capiti mai. Di qui l’esperienza della solitudine e, a volte, delle dipendenze. Santità, c’è qualcuno o qualcosa per cui possiamo diventare importanti? Com’è possibile sperare, quando la realtà nega ogni sogno di felicità, ogni progetto di vita?”.
È una domanda che ci riguarda tutti, non solo il Papa. Quale la risposta del Papa? Anticipando la sostanza della risposta di fede, il Papa afferma: “Abbiamo visto e vediamo oggi nel Vangelo che per Dio non ci sono periferie”. Il riferimento, sabato scorso a Loreto, era al Vangelo dell’annunciazione di Maria in Luca (1,26-38), ma lo stesso messaggio lo ritroviamo nel Vangelo di Matteo oggi (Mt 1,1-23).
Che cosa ci ha proclamato il Vangelo che abbiamo ascoltato? Matteo nel suo Vangelo — che sarà il libro biblico dell’anno pastorale, scelto per accompagnare gruppi biblici, scuole della Parola, ritiri... — incomincia con la “genealogia di Gesù Cristo, figlio di Davide, figlio di Abramo”. Pensate, Colui che è il centro della storia, ha le sue origini alla periferia della storia del mondo: nella storia di un popolo nomade con Abramo, emigrato in terra d’Egitto con Giacobbe e i suoi figli, osteggiato dai popoli più forti con Davide, esiliato a Babilonia con Ieconia e i suoi fratelli. “Per Dio non ci sono periferie”.
È lo stesso messaggio del profeta Michea nella prima lettura: “E tu, Betlemme di Efrata, così piccola per essere fra i capoluoghi di Giuda, da te mi uscirà colui che deve essere il signore di Israele” (cf. Mi 5,1). E, con riferimento alla città di Gerusalemme, così si esprime l’autore del Salmo 86 (87): “Di te si dicono cose stupende, città di Dio… Si dirà di Sion: L’uno e l’altro è nato in essa e l’Altissimo la tiene salda”.
Sì, per Dio non ci sono periferie! Commenta il Papa: “La Terra Santa, nel vasto contesto dell’Impero Romano, era periferia; Nazareth era periferia, una città sconosciuta. E tuttavia propria quella realtà era, di fatto, il centro che ha cambiato il mondo!”. È questo un messaggio che per noi è carico di conseguenze. Ne sottolineo due.
 
 Creare centri
 
Rispondendo alla domanda dei due giovani, anche al Papa, come vescovo di Roma, non doveva sfuggire in particolare la situazione delle periferie romane con i loro problemi di convivenza e di emarginazione analoghi a quelle di altre città del mondo. “A molti di noi giovani di periferia manca un centro!”.
Un aspetto di questa situazione di emarginazione è il fatto che le grandi cellule della vita della società, che possono costituire centri anche nella periferia, sono frantumate. E il Papa cita la famiglia: la famiglia, che dovrebbe essere il luogo di incontro delle generazioni — “dal bisnonno fino al nipote” — è frantumata, è in pericolo. Ridare alla famiglia il suo ruolo di luogo dove “si imparano le virtù essenziali per vivere” — dice il Papa — è il nostro compito: vuol dire creare centri di speranza, di amore e di solidarietà anche nelle periferie.
E dopo la famiglia, il Papa cita la parrocchia, la cellula vivente della Chiesa, “un luogo di ispirazione e di solidarietà che aiuta a costruire centri nella periferia”. Come? Mettendo al centro non l’individuo, ma la persona soggetto di relazioni, ridando piena cittadinanza alla famiglia e conservando alle parrocchie il loro volto originario di “comunità tra le case”. Questo vale anche per il centro storico di una città.
Anche la scuola converge a questo scopo: essere centro di attenzione di ragazzi e giovani, già per il fatto che lì ci passano molta parte del loro tempo, ma soprattutto perché luogo di confronto sui problemi centrali della loro vita e da lì ricevere quella spinta che determina il loro futuro.
Pure le associazioni e i movimenti, i gruppi di volontariato dovrebbero formare altrettanti “centri nella periferia” e così aiutare “la società di oggi che ha bisogno di solidarietà, di senso della legalità, dell’iniziativa e della creatività di tutti”. Solo così può sopravvivere la società moderna. Vivere una comunità basata sul protagonismo di ciascuno, che dice no alla droga o all’abuso di alcool, perché ci portano via i nostri ragazzi e il loro desiderio di essere protagonisti.
 
 Accompagnare cammini
 
Questi nostri giovani da Loreto ora sono ritornati a casa, abitano nelle nostre case, frequentano le nostre parrocchie e oratori, studiano e lavorano nelle nostre città e paesi. Vivono accanto ad altri giovani, magari indifferenti, contrari, agnostici, consumatori, i quali “vedono la Chiesa come una realtà che giudica i giovani, che si oppone ai loro desideri di felicità e di amore”, secondo le parole di un’altra ragazza che a Loreto si è rivolta al Papa.
“Sappiamo bene — osservava Benedetto XVI alla vigilia dell’incontro con i giovani a Colonia due anni fa — che molti di loro non sono in grado di comprendere e di accogliere subito tutto l'insegnamento della Chiesa, ma proprio per questo è importante risvegliare in loro l'intenzione di credere con la Chiesa, la fiducia che questa Chiesa, animata e guidata dallo Spirito, è il vero soggetto della fede, inserendoci nel quale entriamo e partecipiamo nella comunione della fede. Affinché ciò possa avvenire, i giovani devono sentirsi amati dalla Chiesa, amati in concreto da noi Vescovi e sacerdoti”. Non pare che il Santo Padre abbia cambiato metodo e strategia. Come fare?
È questo il passo del cammino che come Chiesa abbiamo a cuore. È questo l’obiettivo che in tema di educazione dei giovani ci dobbiamo proporre per il nuovo anno pastorale: «Accompagnare per educare insieme, famiglie e comunità». Non basta educare istruendo nelle conoscenze di cui c’è bisogno nella vita, conoscenze religiose comprese; occorre accompagnare cammini di vita. Cosa vuol dire “accompagnare”?
Vuol dire anzitutto uscire da una logica attendista: quella dell’educatore che sta ad attendere e basta; magari prega ma non muove un passo verso il mondo giovanile. Alla base è da chiedersi se si amano veramente questi giovani o no; se si è veramente interessati a loro, se si ha stima di loro. È lo spirito che vedo animare gli itinerari proposti dalla nostra Pastorale giovanile, accompagnandoli sul territorio. E ringrazio tutti quelli che si stanno impegnando in questa direzione.
Vuol dire inoltre identificare con maggiore precisione possibile i luoghi dell’incontro: quei momenti, situazioni o eventi che i giovani in qualche modo considerano fonte di vita o condizione di felicità. Questo non vuol dire, banalmente, andare in discoteca o dintorni, mettendoci in competizione con le agenzie del divertimento giovanile. Semmai non la discoteca, ma il dopo- discoteca, il dopo certe esperienze su cui il mondo giovanile credeva di investire  chissà quali attese: esperienze su cui riflettere insieme, giovani ed educatori, per cogliere da dove viene davvero la felicità cercata.
Vuol dire infine — e questa è la prima scelta da fare — creare i nostri ambienti di parrocchia e di oratorio come centri di vita e di verità, luoghi di senso e di esperienza di una felicità nuova e impensata. Anche l’educatore accompagnatore più esperto ha bisogno di avere alle spalle una comunità viva, delle famiglie che si coinvolgono, delle associazioni che si integrano, una scuola che non si chiude al contributo di cultura, di valori e di linguaggi propri della pedagogia cristiana, una città dove tutti hanno voglia di creare centri, di dare ordine e bellezza al vivere insieme.
 
Piace, concludendo, affidare questo nuovo anno pastorale a S. Giuseppe, figura di educatore accompagnatore, come ci ricorda il Vangelo che abbiamo ascoltato. Come Giuseppe, anche il vescovo con i suoi presbiteri e diaconi, con i catechisti ed educatori, genitori e insegnanti a scuola, è chiamato ad accompagnare il cammino di una Chiesa vicina e amica dei giovani, che sappia dire come il Papa ai giovani di Loreto: “Il mondo, lo vediamo, deve essere cambiato, ma è proprio la missione della gioventù di cambiarlo!”.
 
  Reggio Emilia - Basilica della Ghiara, sabato 8 settembre 2007
mons. Adriano Caprioli
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