Don Domenico Ricca, cappellano del carcere minorile Ferrante Aporti racconta: "Il problema degli istituti minorili oggi non è quello degli spazi, semmai quello della povertà dei percorsi riabilitativi e di una certa caduta delle idealità educative. Forse manca un po' a tutti la capacità di rischiare. Ma educare non è anche rischiare su e con i giovani?".
Lottiamo abbastanza, noi cristiani, contro le condizioni inumane dei detenuti nelle carceri italiane? Me lo sono domandato spesso in tanti anni di servizio come cappellano fra i carcerati, e me lo domando in questi giorni di fronte alla condanna inflitta dall’Europa all’Italia (100 mila euro di risarcimento a 7 detenuti costretti a vivere in 3 metri quadrati di spazio personale; obbligo allo Stato italiano di provvedere, entro un anno, con rimedi urgenti, al sovraffollamento nelle carceri).
Non stupisce il contenuto della sentenza pronunciata dalla Corte di Strasburgo, ma il clamore che essa sta suscitando, come se le pesanti condizioni dei carcerati non fossero sotto gli occhi di tutti da anni. Il sovraffollamento è una evidente espressione di inumanità. Riguarda purtroppo anche Torino dove il carcere Lorusso Cotugno delle Vallette costringe circa 1.530 detenuti a vivere in celle misurate per ospitarne 1.130: una popolazione in eccesso del 35%, in linea con la media nazionale. Possiamo lasciare la denuncia di questo abuso collettivo alle solite piccole sigle politiche e a pochi gruppi di volontariato, alla voce dei cappellani, a qualche rivista che grida nel deserto? Non è forse un tema fondamentale di civiltà?
Io svolgo il mio servizio nell’Istituto penale minorile Ferrante Aporti, che ogni giorno affronta il dramma della delinquenza fra i ragazzi ma che per fortuna non ha problemi di spazio, anzi forse nei prossimi mesi concluderà i lavori di ampliamento che ne eleveranno la capienza da 25 a 35 posti (i ragazzi reclusi sono mediamente 25). Il problema degli istituti minorili oggi non è quello degli spazi, semmai quello della povertà dei percorsi riabilitativi e di una certa caduta delle idealità educative, per esempio la quasi totale scomparsa delle esperienze di lavoro al di fuori del carcere per i ragazzi detenuti, cui si dovrebbero offrire percorsi di riscatto sociale e invece riusciamo ad offrire sempre meno opportunità, al di là della reclusione pura e semplice, complice la mancanza di fondi economici e di personale. Forse manca un po’ a tutti la capacità di rischiare. Ma educare non è anche rischiare su e con i giovani?
Restando alla piaga del sovraffollamento, essa riguarda solo i penitenziari degli adulti (65 mila detenuti) dove l’anno scorso sono stati registrati 60 suicidi: il 10% in Piemonte a Torino (2), Biella (1), Alba (1), Vercelli (1), Novara (1). Il 2013 è appena iniziato, ma già si contano due suicidi nuovi nelle carceri di Palermo e Lecce. È assodato che molti gesti di autolesionismo sono legati proprio al sovraffollamento, alla promiscuità di tanti individui in celle troppo piccole, all’angoscia, alla paura, alla violenza che può derivare da tutto questo. Ripeto: si può giustificare il silenzio, la nostra distrazione collettiva di fronte al degrado esagerato? Si costruiscano pure nuovi penitenziari, ma non sono convinto che l’umanizzazione delle carceri sarà risolta per questa strada. So per esperienza che tutti i posti a disposizione si riempiono: più costruisci carceri, più gente nuova manderai in carcere.
Il Piano del Governo Monti per l’edificazione di nuovi istituti di pena si è arenato nelle sabbie mobili della crisi politica, ma molto più dovrebbe far riflettere l’abbandono del disegno di legge sulle misure alternative al carcere. Ecco la vera questione: perché non si vuole discutere sulle misure alternative? Quanti piccoli delinquenti intasano le carceri essendo «casi sociali» prima che criminali, uomini e donne che il carcere non rieducherà mai, anzi forse deteriorerà? Penso al volto di tante persone che non rappresentano un pericolo per la sicurezza sociale e che incontrerebbero molte migliori prospettive di riabilitazione seguendo percorsi alternativi al carcere, per esempio di detenzione domiciliare e lavoro sorvegliato, comunità riabilitativa... Le carceri si riformano in tanti modi, compreso quello di selezionare diversamente i detenuti. Mi rendo conto, è un nodo culturale. Anche nelle comunità cristiane – ricche di volontari generosi che ogni giorno entrano nei penitenziari per assistere i detenuti – percepisco diffidenza rispetto a questa affermazione, considerata lassista, quasi a dire che sì, siamo vicini ai condannati, ma se hanno sbagliato non ci sono alternative: possono stare soltanto dietro alle sbarre. Credo che sia giustizia metterci a distinguere. L’apertura di nuove carceri resterà a lungo un miraggio. Le misure alternative sono una necessità ma anche un modo per evitare che lo Stato si mostri forte e intransigente con i deboli, debole con i forti e i delinquenti di grosso calibro, i notabili che in carcere non finiscono quasi mai. Il massimo dell’intasamento nei penitenziari è stato registrato nell’ultimo decennio proprio in corrispondenza di leggi intransigenti con le categorie deboli (la Bossi-Fini sui flussi di migrazione, la legge Giovanardi sulle droghe), categorie non sempre corrispondenti ai gruppi di massima pericolosità sociale.
Vogliamo considerare insieme tutti i temi? Il problema degli spazi carcerari e insieme quello delle politiche per la giustizia? Su circa 1.530 reclusi nel carcere delle Vallette, oggi solo 695 sono delinquenti condannati in tribunale, gli altri 835 (più della metà!) sono uomini e donne in attesa di sentenza, tenuti in carcere per esigenze cautelari. Sproporzioni su cui riflettere.
don Domenico Ricca
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