Chi accetta il compito di educare continua il lavoro di Cristo in questo mondo al servizio dei giovani, come fece Don Bosco. Questi aspettano che noi siamo veramente continuatori dell'opera della salvezza di Cristo.
E’ diffusa la percezione che il fenomeno salesiano sia ancora un fiume in piena. La cronaca, spesso, riporta di ricorrenze, iniziative, fronti missionari nuovi che continuano a coinvolgere un vasto movimento di persone che si rifanno a Don Bosco. Tale lettura, talvolta, trascura di cogliere la dimensione spirituale che soggiace a tale moltiplicarsi di risorse e iniziative, dimenticando i tanti occhi che riescono a fissare, attraverso il volto del padre dei giovani, il volto di Cristo che li chiama ad assumere la logica del Vangelo.
Cercheremo di evidenziare alcuni tratti della spiritualità salesiana considerandoli capisaldi della vita interiore dell’adulto educatore.
La vocazione
Il Vangelo è chiaro nel presentare il tema vocazionale nella prospettiva dell’iniziativa di Dio. In Mc 3,14 scorgiamo come Cristo non abbia chiamato i Dodici, ma li abbia istituiti, per farne i suoi compagni e inviarli come apostoli, associandoli alla sua attività: l’annuncio del Regno di Dio e la liberazione dal potere malvagio. «Come il Padre ha mandato me, io mando voi» dirà in altra occasione. Essere fedeli a Cristo, quindi, non è soltanto un’esecuzione dei suoi comandi, ma molto di più. È una continuazione del suo lavoro in questo mondo, è un farsi carico del mistero della salvezza così come egli lo impostò, lo visse e lo consumò nella sua passione. Questo implica un pieno coinvolgimento della persona. Il Vangelo dice chiaramente che Gesù scelse dodici uomini, fra i suoi discepoli, prese la loro vita, il loro essere, la loro intelligenza, le loro forze, le loro capacità e potenzialità, il loro futuro, tutto.
Chi accetta il compito di educare continua il lavoro di Cristo in questo mondo al servizio dei giovani, come fece Don Bosco. Questi aspettano che noi siamo veramente continuatori dell’opera della salvezza di Cristo.
Restare con Cristo restando con Don Bosco e condividere con Don Bosco la passione di Dio per i giovani è espressione della grazia dell’unità che ci fa essere fedeli a Dio che ci ha scelti ed essere degni di fede dinanzi ai giovani a cui siamo inviati. Stare con Cristo significa stare veramente faccia a faccia con lui, dissetarsi della sua parola, come faceva Maria seduta ai suoi piedi, senza tanta febbrile agitazione come Marta. Stare con Cristo significa non porre nulla tra sé e Cristo, nulla che ci interessi più di lui. Stare con Cristo significa stabilire con lui una tale amicizia che ci venga davvero voglia di parlare di lui con i giovani. Questo dovrebbe essere il vero apostolato.
Allora, anche se si è mandati, cioè se si va agli altri in nome di Cristo, non ci si stacca affatto da lui, anzi quanto più si è uniti a lui, tanto più si sente il bisogno prepotente di parlare di lui, di predicare lui, di annunciare che lui è il centro della vita di ogni uomo, che è il centro della storia dell’umanità.
Si comprende, allora, come tutta la pastorale, e in particolare quella giovanile, sia radicalmente vocazionale. Questa dimensione costituisce il suo principio ispiratore e il suo sbocco naturale. L’animazione vocazionale deve creare le condizioni adeguate perché ogni giovane possa scoprire, assumere e seguire responsabilmente la propria vocazione.
La santità
Il richiamo del fine proprio della missione salesiana, condurre i giovani alla comunione d’amore con Dio, si ebbe nell’apertura del processo informativo per la beatificazione di Domenico Savio (aprile 1908). In quell’occasione si diede ampia diffusione alla ristampa della Vita scritta da don Bosco. Questo strumento servì a rimarcare non solo il primato della religione nel metodo educativo del santo, ma anche la tensione perfettiva e la dimensione mistica della spiritualità giovanile da lui propugnata. La biografia del piccolo santo dimostrava in forma narrativa la fecondità di tale pedagogia. I lettori potevano capire, che cosa volesse dire «darsi a Dio per tempo», esortazione ripetuta dal santo, fin dagli inizi dell’Oratorio. Domenico si era dato «totalmente» al Signore ed era giunto ad amarlo «sopra ogni cosa».
Don Bosco illustra un processo di appropriazione battesimale vissuto nelle modalità tipiche di un ragazzo alle soglie dell’adolescenza che, non solo sa vincere se stesso superando ogni affetto disordinato (fino a pregare di «morir piuttosto che mi accada la disgrazia di commettere un solo peccato»), ma si offre a Dio e ai fratelli generosamente e con gioia, attraverso l’esercizio della carità, il fervore dell’operosità quotidiana, il gusto della preghiera e l’obbedienza collaborativa, come quella di Gesù fanciullo, e si innamora della perfezione cristiana, della santità. Questo anelito perfettivo era un tratto caratteristico della pedagogia di don Bosco.
È soprattutto in riferimento alla comunione eucaristica e all’orazione davanti al SS. Sacramento che emerge la tonalità mistica della spiritualità giovanile proposta da don Bosco. Egli considera il sacramento dell’altare come epicentro della vita spirituale, campo di attrattive, di esperienze estatiche che includevano la coscienza di una particolare invasione del divino.
Permeato del pensiero di S. Francesco di Sales, don Bosco si sforza di educare i suoi ragazzi a vivere «alla presenza di Dio», a questo «semplice sguardo» rivelatore dell’amore di Dio nella natura e negli eventi. Ed essi imparano, come leggiamo nelle biografie edificanti. Inoltre l’esercizio della presenza di Dio in lui si connette a quello della conformità alla volontà divina, mirato a suscitare disponibilità amorosa, fervore nella carità, abbandono nelle braccia del Padre Celeste.
Quale educatore potrà proporre questi temi senza l’impegno di assumerli quotidianamente in una tensione alla santità?
L’identità carismatica
Il 31 gennaio 2012, il Rettor Maggiore dei Salesiani, don Chavez, ha promulgato la Carta dell’identità carismatica della Famiglia Salesiana. In essa troviamo espressi i tratti della santità salesiana per gli adulti che abbracciano la proposta spirituale e pedagogica di Don Bosco.
Il capitolo terzo presenta la spiritualità salesiana. Si rende sempre più chiaro che la vita dell’educatore è guidata dallo Spirito e che è pervasa di un dinamismo interiore che spinge al dono e al servizio, dando efficacia salvifica all’azione educativa ed evangelizzatrice, unificando tutta l’esistenza attorno a questo centro ispiratore. I collaboratori di Dio impegnano le loro energie nell’annunciare il suo amore e nel compiere opere di bene, attingendo da lui la forza per amare, donare e servire, prodigandosi per i destinatari privilegiati della propria missione. Sanno anche cogliere e accogliere i segni della sua misteriosa presenza nelle attese e nelle richieste degli uomini e delle donne del nostro tempo. Al Padre misericordioso Don Bosco ha rivolto la sua accorata invocazione:
«Da mihi animas, cetera tolle». A tutti i suoi discepoli e discepole Don Bosco ripete: «La più divina delle cose divine è cooperare con Dio alla salvezza delle anime, ed è una strada sicura di alta santità».
Don Bosco ebbe un grande amore per la Chiesa e lo manifestò nel senso di appartenenza alla comunità ecclesiale. I suoi figli lo manifestano costruendo, in seno alle comunità cristiane, una rete di rapporti fraterni e di collaborazioni fattive. Così si esprime che questa è una spiritualità educativa che si propone di aiutare i giovani e i poveri a sentirsi a loro agio nella Chiesa, ad essere costruttori di Chiesa e partecipi della sua missione; è una spiritualità che arricchisce tutta la Chiesa col dono della santità di tanti suoi figli e figlie divenuti maestri d’una spiritualità semplice perché essenziale, popolare perché aperta a tutti, simpatica perché carica di valori umani e perciò particolarmente disponibile all’azione educativa nell’esperienza di chi si lascia attrarre, convincere e conquistare da Dio, penetrando sempre più nel Suo mistero.
La Famiglia Salesiana, nella rilettura di Don Bosco Fondatore, ha tradotto le esigenze della spiritualità e della mistica di San Francesco di Sales con una formulazione semplice e impegnativa: spiritualità del quotidiano. Questa, animata dal cuore oratoriano si esprime in fervore, zelo, messa a disposizione di tutte le risorse, ricerca di nuovi interventi, capacità di resistere nelle prove, volontà di ripresa dopo le sconfitte, ottimismo coltivato e diffuso. Insomma, una sollecitudine, piena di fede e di carità, che trova in Maria un esempio luminoso di donazione di sé.
La Carta d’identità della Famiglia Salesiana indica nella carità apostolica il principio interiore e dinamico capace di unificare le molteplici e diverse attività e preoccupazioni quotidiane. Favorisce la fusione in un unico movimento interiore dei due poli inseparabili: la passione per Dio e la passione per il prossimo.
I giovani
I giovani e le giovani sono riconosciuti come dono di Dio alla Famiglia Salesiana; sono il campo indicato dal Signore e da Maria a Don Bosco in cui svolgere la sua azione, sono per noi tutti sostanza della vocazione e della missione. Essere dediti ai giovani significa avere il cuore continuamente rivolto verso di loro, cogliendo aspirazioni e desideri, problemi ed esigenze. Vuol dire anche incontrarli nel punto in cui si trovano nella loro maturazione; ma non solo per far loro compagnia, bensì per portarli là dove sono chiamati; per questo gli educatori intuiscono le energie di bene che i giovani si portano dentro e li sostengono nella fatica della crescita, sia umana che cristiana, individuando con loro e per loro cammini possibili di educazione. Nel cuore di appassionati educatori ed evangelizzatori risuona sempre l’appello paolino: «La carità di Cristo ci sospinge continuamente» (cf. 2Cor 5,14).
L’amorevolezza di Don Bosco è, senza dubbio, un tratto caratteristico della sua metodologia pedagogica ritenuto valido anche oggi, sia nei contesti ancora cristiani sia in quelli dove vivono giovani appartenenti ad altre religioni. Non è però riducibile solo a un principio pedagogico, ma va riconosciuta come elemento essenziale della nostra spiritualità. Essa infatti è amore autentico perché attinge da Dio; è amore che si manifesta nei linguaggi della semplicità, della cordialità e della fedeltà; è amore che genera desiderio di corrispondenza; è amore che suscita fiducia, aprendo la via alla confidenza e alla comunicazione profonda (»l’educazione è cosa di cuore»); è amore che si diffonde creando un clima di famiglia, dove lo stare insieme è bello ed arricchente.
Per l’educatore, è un amore che richiede forti energie spirituali: la volontà di esserci e di starci, la rinuncia di sé e il sacrificio, la castità degli affetti e l’autocontrollo negli atteggiamenti, l’ascolto partecipe e l’attesa paziente per individuare i momenti e i modi più opportuni, la capacità di perdonare e di riprendere i contatti, la mansuetudine di chi, talora, sa anche perdere ma continua a credere con speranza illimitata. Non c’è amore vero senza ascetica e non c’è ascetica senza l’incontro con Dio nella preghiera.
L’amorevolezza è frutto della carità pastorale.
Diceva Don Bosco: «Questa nostra reciproca affezione sopra quale cosa è fondata? […] Sul desiderio che ho di salvare le vostre anime, che furono redente dal sangue prezioso di Gesù Cristo, e voi mi amate perché cerco di condurvi per la strada della salvezza eterna. Dunque il bene delle anime nostre è il fondamento della nostra affezione». [1]
Questa forma di amore diventa così segno dell’amore di Dio, e strumento per risvegliare la sua presenza nel cuore di quanti sono raggiunti dalla bontà di Don Bosco; è una via all’evangelizzazione. Da qui la convinzione che la spiritualità apostolica della Famiglia Salesiana si caratterizza non per un amore genericamente inteso, ma per la capacità di amare e di farsi amare.
Quella salesiana è una preghiera apostolica; è un movimento che parte dall’azione per giungere a Dio, ed è un movimento che, da Dio, riconduce all’azione portando Lui. Il lavoro straordinario che impegnava Don Bosco da mattina a sera non disturbava la sua preghiera, anzi la suscitava e la orientava; e la preghiera coltivata nel profondo del cuore nutriva in lui rinnovate energie di carità per dedicarsi con tutto se stesso al bene dei suoi poveri giovani. Il nome stesso di oratorio dato alla sua prima istituzione sta a significare che tutto, in quell’ambiente, era preghiera o poteva diventare preghiera; e che quanto di bene si compiva in quella casa era frutto della preghiera: di Don Bosco, dei suoi collaboratori e dei suoi ragazzi. La preghiera diffusa è, dunque, tipica di quanti vivono la spiritualità di Don Bosco e realizzano la sua missione. Senza però trascurare quei momenti di preghiera esplicita, nutrita di ascolto della Parola di Dio e risposta d’amore, che trasformano la vita in preghiera e la preghiera in vita.
Una proposta ai giovani
Alcuni tratti manifestano l’assunzione vitale di questa spiritualità apostolica. Possono essere vissuti dal giovane e dall’adulto e manifestano, in questa specifica interazione la pedagogia dell’ambiente tanto cara al sistema preventivo. Ne sottolineiamo alcuni.
La bontà. Questa virtù, fondata sul Vangelo, è sempre ben disposta verso la vita. È capace di apprezzare, di favorire, di aiutare. Si manifesta anche nella forza, quando è pura, e la bontà perfetta è inesauribile. Alla vera bontà occorre pazienza. Di continuo essa avverte i difetti altrui, che sono insopportabili proprio perché li si conosce. Di continuo la bontà deve rendersi pronta e disposta a volgersi dov’è il bisogno. Anche l’umorismo arricchisce la bontà di don Bosco. Esso aiuta a rendere più facile una sopportazione, anzi senza di esso non c’è propriamente cosa al mondo che riesca.
La semplicità. Don Bosco vive come respira. È sempre lui. Mai doppio, mai pretenzioso, mai complesso. L’intelligenza non è arruffamento, complicazione, snobismo. La realtà è complessa senza dubbio. C’è la complessità del pensiero e la semplicità dello sguardo. Il contrario del semplice non è il complesso, ma il falso. Le Memorie tranquillamente affermano: «Era evidente essersi egli gettato nelle braccia della divina Provvidenza, come un bambino in quelle di sua madre» (MB III, 36).
Tutto è semplice per Dio. Tutto è divino per i semplici. Anche il lavoro. Anche lo sforzo. Non fu mai visto un momento ozioso. Parlando egli della fatica e del lavoro e rispondendo a chi gli domandava come potesse resistere, diceva: «Iddio mi ha fatta la grazia che il lavoro e la fatica invece d’essermi di peso, mi riuscissero sempre di ricreazione e di sollievo».
La purezza. C’è l’amore che prende, ed è impurità. E c’è l’amore che dona o contempla, ed è la purezza. L’amore puro è il contrario dell’amor proprio. È il risultato di un lavoro di purificazione per cui l’amore sgorga liberandosi di sé. La purezza è l’amore senza avidità, senza voglia di possedere. È trasparenza totale, la qualità più magica di una persona. Castità e celibato o simili sono i paracarri, non la strada. La strada è la beatitudine dei puri di cuore.
L’attenzione. Fare attenzione vuol dire essere svegli. E quindi essere consapevoli di ciò che abbiamo davanti. A questo punto è chiaro che essere nel presente è una condizione necessaria per qualsiasi tipo di relazione. L’attenzione è una forma di gentilezza, come la disattenzione è lo sgarbo più grande che si possa fare. L’attenzione è calore e affetto, che permette alle potenzialità migliori di svilupparsi e fiorire.
Il contatto. «Ascoltava i ragazzi colla maggior attenzione come se le cose da loro esposte fossero tutte molto importanti. Talora si alzava, o passeggiava con essi nella stanza. Finito il colloquio li accompagnava fino alla soglia, apriva egli stesso la porta, e li congedava dicendo: Siamo sempre amici, neh!» (Memorie Biografiche IV, 439).
È uno che ama davvero e, ovviamente, con un profondo interesse delle preoccupazioni degli altri. Possiede la pazienza, nonostante le interruzioni, e la gentilezza. Il suo amore per la vita è evidente, e il suo dare è continuamente incoraggiamento. Sa che non esistono ragazzi cattivi. Se ci sono ragazzi che si comportano male è perché sono scoraggiati. La bellezza morale ha effetti significativi sia su noi stessi e sugli altri. Quando osserviamo la bellezza morale, la prendiamo in noi stessi. Diventa parte della nostra vita, e se non abbiamo l’abitudine di accorgercene, siamo in grado di sentire il cambiamento che avviene in noi.
Per chi ha facilità di contatto, come era evidente per don Bosco, la relazione è lo strumento principale di crescita, l’incontro con l’altro è il campo in cui la crescita può accadere. Perché egli ha la possibilità di rivelarci la sua es#senza spirituale, e in questo incontro possono succedere cose sorprendenti e bellissime.
La gioia. La gioia, uno stato d’animo positivo e felice, era la normalità della vita di don Bosco. Davanti all’amore non vi è nessun adulto, solo dei bambini, questo spirito infantile che è abbandono, spensieratezza, libertà interiore.
Una missione ecclesiale
Quella che può sembrare un’esperienza spirituale personale assume il volto di un mandato ecclesiale che continua a risuonare, anche oggi, ad ogni latitudine.
Ci collochiamo in un periodo di grandi cambiamenti sociali, economici, politici. In particolare, gli appelli che i giovani ci rivolgono, soprattutto le loro domande sui problemi di fondo, fanno riferimento agli intensi desideri di vita piena, di amore autentico, di libertà costruttiva che essi nutrono. Sono situazioni che interpellano a fondo la Chiesa e la sua capacità di annunciare oggi il Vangelo di Cristo con tutta la sua carica di speranza.
Con il motto «Da mihi animas, cetera tolle» l’educatore si propone di ravvivare la passione apostolica in modo che egli diventi sempre più consapevole della sua identità di persona consacrata «per la gloria di Dio» e sia sempre più infiammato di slancio pastorale «per la salvezza delle anime».
Don Bosco è fulgido esempio di una vita improntata alla passione apostolica, vissuta a servizio della Chiesa. Accanto all’ardore dell’amore di Dio, l’altra caratteristica del modello salesiano è la coscienza del valore inestimabile delle «anime». Questa percezione genera, per contrasto, un acuto senso del peccato e delle sue devastanti conseguenze nel tempo e nell’eternità. «Salvare le anime» fu quindi l’unica ragion d’essere di Don Bosco.
Il Beato Michele Rua, suo primo successore, così sintetizzò tutta la vita del vostro amato Padre e Fondatore: «Non diede passo, non pronunciò parola, non mise mano ad impresa che non avesse di mira la salvezza della gioventù... Realmente non ebbe a cuore altro che le anime».
Anche oggi è urgente alimentare nel cuore di ogni educatore questa passione. Egli non avrà così paura di spingersi con audacia negli ambiti più difficili dell’azione evangelizzatrice a favore dei giovani, specialmente dei più poveri materialmente e spiritualmente. Avrà la pazienza e il coraggio di proporre ai giovani di vivere la stessa totalità di dedizione. Egli avrà il cuore aperto a individuare i nuovi bisogni dei giovani e ad ascoltare la loro invocazione di aiuto, lasciando eventualmente ad altri i campi già consolidati di intervento pastorale. La passione apostolica si farà così contagiosa e coinvolgerà anche altri, aiutando prima di tutto i giovani a conoscere e amare il Signore Gesù, a lasciarsi affascinare da Lui, a coltivare l’impegno evangelizzatore, a voler far del bene ai propri coetanei, ad essere apostoli di altri giovani, come San Domenico Savio, la Beata Laura Vicuña e il Beato Zefirino Namuncurà e i cinque giovani Beati Martiri dell’oratorio di Pozna≈Ñ. È necessario assumere l’impegno di formare laici con cuore apostolico, invitando tutti a camminare nella santità di vita che fa maturare discepoli coraggiosi e autentici apostoli.
Educare non è mai stato facile e oggi sembra diventare sempre più difficile: perciò non pochi genitori e insegnanti sono tentati di rinunciare al proprio compito, e non riescono più nemmeno a comprendere quale sia, veramente, la missione loro affidata. Troppe incertezze e troppi dubbi, infatti, circolano nella nostra società e nella nostra cultura, troppe immagini distorte sono veicolate dai mezzi di comunicazione sociale. Diventa difficile, così, proporre alle nuove generazioni qualcosa di valido e di certo, delle regole di comportamento e degli obiettivi per i quali meriti spendere la propria vita. In realtà, l’aspetto più grave dell’emergenza educativa è il senso di scoraggiamento che prende molti educatori, in particolare genitori e insegnanti, di fronte alle difficoltà che presenta oggi il loro compito. Oggi la nostra speranza è insidiata da molte parti, e rischiamo di ridiventare anche noi, come gli antichi pagani, uomini ‘senza speranza e senza Dio in questo mondo’, come scriveva l’apostolo Paolo ai cristiani di Efeso (2,12). Proprio da qui nasce la difficoltà forse più profonda per una vera opera educativa: alla radice della crisi dell’educazione c’è infatti una crisi di fiducia nella vita, che, in fondo, non è altro che sfiducia in quel Dio che ci ha chiamati alla vita.
La radice pasquale del carisma salesiano provoca a rinnovarsi nella speranza con la capacità di guardare a nuovi fronti di impegno e di apostolato, quale la famiglia. Curare le famiglie non è sottrarre forze al lavoro per i giovani, anzi è renderlo più duraturo e più efficace. Siamo incoraggiati, quindi, ad approfondire le forme di questo impegno. Ciò tornerà anche a vantaggio dell’educazione ed evangelizzazione dei giovani e sarà luogo di crescita spirituale feriale anche per tanti educatori che hanno abbracciato la vocazione matrimoniale.
[1] Giovanni Bosco, Lettera a don Giuseppe Lazzero e alla comunità degli artigiani di Valdocco, Roma 20 gennaio 1874, in Epistolario, vol. IV p. 208, a cura di Francesco Motto, LAS Roma 2003.
Guido Errico
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