Elogio del giudizio: un antidoto al nichilismo

È entrato in casa quello che Nietzsche chiama “l'ospite più inquietante”, ovvero il nichilismo. Il nichilismo consiste nella negazione di qualsiasi valore, nella perdita di qualsiasi punto di riferimento: ogni cosa si avvolge su se stessa in un'assenza assoluta di orizzonte e di orientamento.

Elogio del giudizio: un antidoto al nichilismo

da Quaderni Cannibali

del 14 gennaio 2011

 

          La nostra esperienza non può fermarsi alle pure sensazioni: queste ultime vanno vagliate criticamente per favorire la nostra crescita umana          La qualità del disagio giovanile che colpisce molti ragazzi di oggi è stata analizzata da numerosissimi studiosi. Il dato incontrovertibile, di natura culturale ma soprattutto esistenziale, che da queste ricerche campeggia con chiarezza, è il seguente: è entrato in casa quello che Nietzsche chiama “l’ospite più inquietante”, ovvero il nichilismo.           Il nichilismo consiste nella negazione di qualsiasi valore, nella perdita di qualsiasi punto di riferimento: ogni cosa si avvolge su se stessa in un’assenza assoluta di orizzonte e di orientamento. Il futuro, più che un’opportunità, rappresenta una minaccia, ragion per cui ci si raccoglie nel presente cercando di vivere tutto ai limiti dell’esuberanza e della decenza. Dovrebbe risultare quantomeno paradossale che nell’era della comunicazione, di Internet e di Facebook, i giovani siano così soli: la solitudine è una delle più chiare espressioni del nichilismo all’interno dei rapporti relazionali che si costruiscono.           La confusione lievita fino a soffocare. Il ricorso alla droga pare la soluzione più semplice ed efficace al problema e, intanto, la depressione incalza. Sono sempre più numerosi, troppi, i casi di ragazzi che crollano o addirittura si tolgono la vita. Ma qual è la causa originaria di tale problema? Quale può essere la soluzione?          All’origine del disagio vi è un problema di “esperienza”. Una risposta reale alla questione consiste nel recuperare e comprendere il vero significato della parola “esperienza”. Sicuramente, oggi più che in passato, i giovani sono sollecitati da molteplici stimoli esperienziali fin dalla prima adolescenza; e tuttavia quanti di questi impulsi si trasformano in vere e proprie esperienze? La confusione che domina è l’immediata conseguenza di una concezione sempre più errata dell’esperienza: tante volte quest’ultima è ridotta all’impatto che le cose provocano, al riverbero sentimentale che le cose suscitano, dimenticando, puntualmente, di giudicare tutte queste provocazioni del reale.          Quello che caratterizza l’esperienza è il “giudizio”. È il giudizio che rende esperienza una cosa che si fa. L’esperienza è la strada dello sviluppo della persona umana, è lo strumento che noi abbiamo nelle nostre mani per il nostro sviluppo, per la nostra crescita; perciò, se noi lo riduciamo o lo usiamo male, tutto quello che ci capita nella vita è inutile, è sterile, non serve: si può diventare vecchi e vuoti, pur avendo vissuto tante cose, perché non si è fatta veramente esperienza. Tante volte per noi l’esperienza è ridotta semplicemente alle impressioni che le cose suscitano che, per quanto reali, sono solo impressioni: l’esperienza, perciò, è cieca e meccanica. Quello che noi chiamiamo esperienza non è altro che mera emozione, mera sensazione, senza intelligenza, senza giudizio.          Senza capacità di valutazione l’uomo non può fare esperienza: l’esperienza include, certo, il “provare” qualcosa, ma, soprattutto, coincide col giudizio dato su quel che si prova. Questa incomprensione della parola “esperienza” è resa evidente dal modo in cui siamo soliti opporla al “giudizio” (conoscenza): dove c’è l’una, non c’è l’altro. È il segno più chiaro che si è confusi sull’uno e sull’altro termine. Sovente l’esperienza è ridotta a questa sorta di impatto, di “shock meccanico”, mentre il giudizio ci appare come qualcosa di intellettuale, di appiccicato, una forzatura che si impone al reale e che rovina l’incantesimo di quello che si vive, come se lo “spoetizzasse”. Quando le cose sono state interessanti, belle, persuasive, che bisogno c’è di giudicarle? Ce la siamo goduta! Insomma, si vive una cosa bella e si deve pure giudicarla? In altri termini, sembra di compiere un’operazione artificiosa e faticosa.          Che cosa si perde? Facendo questa esperienza così ridotta, “godendocela” e non sentendo il bisogno di “giudicarla”, sembra che non ci manchi niente. Il vero guaio, però, è che proprio che sembra non manchi niente. Tutto diventa formalismo, superficialità e conformismo. Perché non giudicare è perdere il meglio, è fermarsi prima di arrivare a quello che davvero interessa. E allora colpisce che la cosa che più dovrebbe essere “nostra”, cioè il desiderio di pienezza davanti al reale, sia la cosa a noi più estranea. Ma cosa succede, quando ci si sveglia dal sogno? Dopo che passa il godimento, cosa resta? Noi, soli, con il nostro niente, sempre più smarriti, sempre più scettici e la confusione cresce…          Vi è chi crede di poter superare il problema semplicemente non pensandoci, riempiendo il proprio tempo con altro, anzi, moltiplica gli impegni e cerca lo stordimento, proprio per metter da parte la questione; ma la realtà, prima o poi, sbatte in faccia questa insopprimibile verità, e allora la confusione e il vuoto riemergeranno brutalmente.          Non c’è esperienza fin quando non si arriva a capire. Per farlo occorre fermarsi fino a quando non si trova una risposta esauriente a quello che si vede. Uno sguardo attento al “giudizio” sulla realtà costituisce l’ancora salda per non esser travolti dalle onde del nichilismo. Solo in questo modo è possibile restare a galla e a percorrere la rotta della vita che più risponde alle esigenze del cuore dell’uomo, crescendo in saggezza. È una sfida importante, talvolta faticosa, ma è una cosa da uomini. Basta un cuore palpitante d’umanità, un “io” impegnato in ciò che prova.  

Andrea D’Ettorre

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