L'idea di ostaggio, dell'espiazione di me per l'Altro, dove si rovesciano le relazioni fondate sulla proporzione esatta tra le colpe e le pene, tra libertà e responsabilità, non può estendersi fuori di me.
del 18 novembre 2009
 
La filosofia è messa in luce. Secondo un'espressione alla moda, coniata quasi per sottolineare l'indiscrezione dell'impresa filosofica, essa è disvelamento. Come, dunque, trattare da filosofo una nozione che pertiene all'intimità di centinaia di milioni di credenti, al mistero dei misteri della loro teologia e che, dopo circa venti secoli, riunisce gli uomini di cui io condivido il destino e la maggior parte delle idee, eccetto appunto, la credenza che è in questione qui questa sera? 
 
Certamente avrei potuto astenermi. Ma l'amicizia con cui mi era a rivolta la richiesta di partecipare a questo incontro ha reso il rifiuto impossibile. Non che io avessi avuto paura di mancare di cortesia, ma come chiudersi alle intenzioni generose del nostro tempo e dimenticare la solidarietà degli anni tragici?
 
Io non ho la tracotanza di mischiarmi in un ordine proibito a chiunque non vi partecipi con la fede e le cui dimensioni ultime, senza dubbio, mi sfuggono. Voglio riflettere su due tra i molteplici significati che suggerisce la nozione di Uomo-Dio, che, seguita da un punto interrogativo nei programmi di queste giornate, è riconosciuta come problema.
 
Il problema dell'Uomo-Dio comporta, da un lato, l'idea di un'umiliazione che l'Essere supremo si infligge, di una discesa del Creatore al livello della Creatura, cioè dell'assorbimento nella Passività più passiva dell' Attività più attiva. Il problema comporta, d'altro canto, e come producentesi da questa passività spinta nella Passione al suo limite ultimo, l'idea di espiazione per gli altri, cioè di una sostituzione: l'identico per eccellenza, ciò che non è intercambiabile, ciò che è l'unico per eccellenza, sarebbe la sostituzione stessa.
 
Queste idee, a prima vista teologiche, rovesciano le categorie della nostra rappresentazione. Voglio dunque chiedermi fino a che punto queste idee che valgono incondizionatamente per la fede cristiana abbiano un valore filosofico: in che misura esse possano mostrarsi nella fenomenologia. Fenomenologia già beneficiaria della saggezza ebraico-cristiana. Certamente. Ma la coscienza non assimila tutto nelle saggezze. Essa restituisce alla fenomenologia unicamente ciò che ha saputo sostenerla. Mi domando dunque in che misura le categorie che abbiamo appena descritte siano filosofiche. Sono certo che questa misura sarà giudicata insufficiente dal credente cristiano. Ma forse non è inutile mostrare i punti a partire dai quali niente può subentrare alla religione.
 
Penso che l'umiltà di Dio, fino ad un certo punto, permetta di pensare la relazione con la trascendenza in termini diversi da quelli dell'ingenuità o del panteismo; e che l'idea di sostituzione - secondo una certa modalità - sia indispensabile alla comprensione della soggettività. L'apparizione di uomini-dei, che condividono le passioni e le gioie degli uomini puramente uomini è certamente il fatto banale dei poemi pagani. Ma nel paganesimo, a prezzo di questa manifestazione, gli dei perdono la loro divinità. Così i filosofi cacciano i poeti dalla città per preservare la divinità degli dei nello spirito degli uomini. Ma alla divinità salvata in tal modo, manca ogni condiscendenza.
 
Il Dio di Platone è l'impersonale Idea del Bene; il Dio di Aristotele è un pensiero che si pensa. Ed è con questa divinità indifferente al mondo degli uomini che termina l'Enciclopedia di Hegel, cioè, forse, la fIlosofia. Come nei poeti il mondo ha assorbito gli dei, nei filosofi il mondo si è sublimato nell'Assoluto. L'Infinito si manifesta quindi nel finito, ma non si manifesta al finito. L'uomo non è più coram Deo. Lo stra-ordinario surplus della prossimità tra finito e Infinito rientra nell'ordine. In un ordine impassibile dell'assoluto e della totalità si risolvono e si riassumono gli uomini, le loro miserie e le loro disperazioni, le loro guerre e i loro sacrifici, l'orribile e il sublime.
 
In un discorso ininterrotto che sa ricondurre fino alla propria interruzione, che risorge sempre nell'intersoggettività immortale, si mostra certo, a credere ai filosofi, il senso reale della nostra vita. Esso non ha mai il senso che ha nella nostra vita. Ma questa impossibilità di pensare da filosofo il faccia-a-faccia, la prossimità e l'insolito di Dio e la strana fecondità dell'incontro, non dipende da qualche smarrimento del pensiero logico - essa deriva dal formalismo incontestabile della logica stessa. Se l'assolutamente Altro mi si mostra, la sua verità non si integra, con ciò stesso, al contesto dei miei pensieri per attingervi un senso, al mio tempo, per divenirne contemporaneo?
 
Ogni disordine finisce per rientrare nell'ordine lasciando apparire un ordine più ampio e più complesso. Questa non è una visione dello spirito, è la grande esperienza della nostra epoca: lo storico ritrova un senso naturale a tutte le irruzioni insolite. Come mantenere la comunicazione di due ordini contro un universo in cui tutto è Dio o tutto è mondo? Com'è possibile il movimento stravagante verso Dio, senza rimarcare, come un volo interplanetario, l'unità dell'ordine che lo rende possibile?
 
Ma allora, l'idea di una verità, la cui manifestazione non è gloriosa né clamorosa, l'idea di una verità che si mostra nella sua umiltà, come la voce di fine silenzio secondo l'espressione biblica - l'idea di una verità perseguitata non è forse l'unica modalità possibile della trascendenza? Non a causa della qualità morale dell'umiltà, che io peraltro non voglio affatto contestare, ma a causa della sua modalità d'essere che è, forse, la sorgente del suo valore morale.
 
Manifestarsi come umile, alleato del vinto, del povero, del perseguitato, significa appunto non rientrare nell'ordine. In questa disfatta, in questa timidezza che non osa osare, con questa sollecitazione che non ha la sfacciataggine di sollecitare e che è la non-audacia stessa, con questa sollecitazione di mendicante e di senza patria che non ha dove posare la testa - alla mercé del sì o del no di colui che lo accoglie - l'umiltà scombina in maniera assoluta; non è del mondo.
 
L'umiltà e la povertà sono un modo di stare nell'essere - un modo ontologico (o me-ontologico) - e non una condizione sociale. Presentarsi in questa povertà di esiliato, significa interrompere la continuità dell'universo. Aprire l'immanenza senza ordinarvisi. Una tale apertura, indubbiamente, non può che essere ambiguità. Ma l'apparizione di un'ambiguità nella tessitura non lacerabile del mondo, non è un allentamento della sua trama, né un cedimento dell'intelligenza che la scruta, ma appunto la prossimità di Dio che non può accadere se non attraverso l'umiltà.
 
L'ambiguità della trascendenza - e di conseguenza l'alternanza dell'anima che va dall'ateismo alla credenza e dalla credenza all'ateismo e quindi il solecismo che ci sarebbe nell'impiegare alla prima persona singolare del presente indicativo il verbo credere - non è la debole fede che sopravvive alla morte di Dio, ma il modo originale della presenza di Dio, il modo originale della comunicazione.
 
La comunicazione non significa la presenza di sé a sé della certezza, cioè una dimora ininterrotta nel medesimo - ma il rischio e il pericolo della trascendenza. Vivere pericolosamente non è la disperazione, ma la generosità positiva dell'incertezza. L'idea di verità perseguitata ci permette così di mettere fine al gioco del disvelamento in cui l'immanenza vince sempre sulla trascendenza; infatti, l'essere, una volta svelato - anche se parzialmente, anche se nel mistero - diviene immanente.
 
È senza dubbio Kierkegaard colui che ha meglio compreso la nozione filosofica di trascendenza che il tema biblico dell'umiltà di Dio porta con sé. Per lui la verità perseguitata non è una verità raggiunta malamente. La persecuzione e l'umiliazione per eccellenza alla quale essa espone sono modalità del vero. La forza della verità trascendente è nella sua umiltà. Essa si manifesta come se non osasse dire il proprio nome, essa non viene a prendere posto nel mondo con cui si confonderebbe immediatamente come se non venisse dall'aldilà.
 
Ci si può anche chiedere, leggendo Kierkegaard, se la Rivelazione che dice la sua origine non sia contraria all'essenza della verità trascendente che in tal modo affermerebbe ancora la sua autorità impotente contro il mondo; ci si può chiedere se il vero Dio possa mai rimuovere il suo incognito, se la verità che si è detta non dovrebbe immediatamente apparire come non detta, per sfuggire alla sobrietà e all'oggettività di storici, filologi e sociologi che la rivestiranno con tutti i nomi della storia, che ridurranno la sua voce di fine silenzio agli echi dei rumori che si levano dai campi di battaglia e dai mercati, o alla configurazione strutturata di elementi senza senso.
 
Ci si può chiedere se la prima parola della rivelazione non debba venire dall'uomo come nell'antica preghiera ebraica in cui il fedele rende grazie non di ciò che ha ricevuto, ma del fatto stesso di rendere grazie. Ma l'apertura dell'ambiguità in cui la trascendenza si insinua, forse richiede un'analisi supplementare. Il Dio che si umilia per «abitare con il contrito e l'umile» (Is 57,15), il Dio «del senza patria, della vedova e dell'orfano», il Dio che si manifesta nel mondo attraverso la sua alleanza con ciò che si esclude dal mondo, può nella sua dismisura divenire un presente nel tempo del mondo?
 
Non è troppo per la sua povertà? Non è troppo poco per la sua gloria senza la quale la sua povertà non è un'umiliazione? Bisogna che l'umiltà della manifestazione sia già lontananza, perché l'alterità che scompone l'ordine non divenga immediatamente partecipazione all'ordine, perché resti aperto l'orizzonte dell'aldilà. Perché il distacco dall'ordine non sia ipso facto partecipazione all'ordine, bisogna che questo distacco - per un anacronismo supremo - preceda il suo ingresso nell'ordine.
 
È necessario un ritrarsi inscritto nell'anticipo, come un passato che non fu mai presente. La figura concettuale che disegna l'ambiguità - o l'enigma - di questo anacronismo in cui si dà un ingresso posteriore al ritrarsi e che, quindi, non è mai stato contenuto nel mio tempo ed è perciò immemorabile, noi la chiamiamo traccia. Ma la traccia non è una parola in più: essa è la prossimità di Dio nel volto del mio prossimo. La nudità del volto è uno strappo al contesto del mondo, al mondo significante come contesto. Il volto è appunto ciò per cui originariamente si produce l'evento eccezionale dell'in-faccia, che la facciata dell'edificio e delle cose non fanno che imitare.
 
Ma questa relazione del coram è anche la nudità più nuda, il «senza difesa» e «senza risorse», la nudità e la povertà dell'assenza che costituisce la prossimità di Dio -la traccia. Infatti, se il volto è il di-fronte (en-face) stesso, la prossimità che interrompe la serialità, è perché esso enigmaticamente viene a partire dall'Infinito e dal suo passato immemorabile e perché l'alleanza tra la povertà del volto e l'Infinito si inscrive nella forza con cui il prossimo è imposto alla mia responsabilità prima di ogni impegno da parte mia l'alleanza tra Dio e la povertà si inscrive nella nostra fraternità. L'Infinito è alterità inassimilabile, differenza assoluta rispetto a tutto ciò che si manifesta, si fa segno, si simbolizza, si annuncia e si ricorda - in rapporto a tutto ciò che si presenta e si rappresenta e in tal modo si fa «contemporaneo» del finito e del Medesimo.
 
Esso è Egli, Illeità. Il suo passato immemorabile non è estrapolazione della durata umana, ma l'anteriorità originaria o ultimità originaria di Dio in rapporto a un mondo che non può ospitarlo. La relazione con l'Infinito non è una conoscenza, ma una prossimità che conserva la dismisura dell'ininglobabile che appare. Essa è desiderio, cioè un pensiero che pensa infinitamente più di quanto non pensi.
 
Per sollecitare un pensiero che pensa più di quanto non pensi, l'Infinito non può incarnarsi in un Desiderabile, non può chiudersi in un finito. Egli sollecita attraverso un volto. Un Tu si inserisce tra l'Io e l'Egli assoluto. Non è il presente della storia il diaframma enigmatico di un Dio umiliato e trascendente, ma il volto dell'Altro. E allora comprenderemo il senso insolito - o che ridiviene insolito e sorprendente non appena dimentichiamo il mormorio dei nostri sermoni - comprenderemo il senso sorprendente di Geremia 22,16: «Egli tutelava la causa del povero e del misero [...].
 
Ecco ciò che si chiama conoscermi, dice l'Eterno». Ma la nozione di Dio-Uomo, nella transustanziazione del Creatore in creatura, afferma l'idea della sostituzione. Questo attacco portato al principio di identità, non ha forse, in una certa misura - ma bisogna appunto vedere in quale misura - espresso il segreto della soggettività? In una filosofia che, ai giorni nostri, non riconosce allo spirito altra pratica che la teoria e che riconduce al puro rispecchiamento delle strutture oggettive - l'umanità dell'uomo ridotta a coscienza l'idea della sostituzione non permette una riabilitazione del soggetto di cui non sempre fu capace l'umanesimo naturalista, perdendo subito, nel naturalismo, i privilegi dell'umano?
 
La soggettività umana interpretata come coscienza è sempre attività. Sempre posso assumere ciò che mi si impone. Sempre, io ho la possibilità di acconsentire a ciò che subisco e fare buon viso a cattivo gioco. Di modo che tutto accade come se io fossi al principio; meno che nell'approssimarsi del prossimo. Sono chiamato a una responsabilità mai contrattata, inscritta nel volto d'Altri. Nulla è più passivo di questa messa in questione precedente a ogni libertà. Bisogna pensarla con attenzione.
 
La prossimità non è una coscienza della prossimità. Essa è ossessione che non è coscienza ipertrofica, ma coscienza controcorrente, che sconvolge la coscienza. Evento che spoglia la coscienza della propria iniziativa, che mi sconfigge e mi pone davanti ad Altri in stato di colpevolezza; evento che mi mette sotto accusa, accusa persecutrice poiché anteriore a ogni colpa - e che mi riconduce al sé, all'accusativo che nessun nominativo precede. Il se stesso non è una rappresentazione di sé per sé - non è una coscienza di sé - ma una ricorrenza preliminare che rende soltanto possibile ogni ritorno della coscienza su di sé. Se stesso, passività o pazienza, il «non poter prendere le distanze da sé».
 
L'io è in sé, costretto a sé, senza ricorso a niente nella sua pelle - male nella sua pelle- questa incarnazione che non ha alcun senso metaforico, ma che è l’espressione più letterale di una ricorrenza assoluta, che ogni altro linguaggio direbbe già soltanto in maniera approssimativa. Il se stesso non è un io incarnato, oltre la sua espulsione in sé, esposizione all'offesa, all'accusa, al dolore.
 
Passività senza limiti? L'identità del sé non oppone un limite alla passività del subire, la resistenza ultima che anche una materia oppone alla sua forma? Ma la passività del sé non è una materia. Spinta fino in fondo essa consiste nell'invertirsi nella propria identità, nel disfarsene. Se una tale defezione dell'identità, se un tale rovesciamento è possibile senza trasformarsi nell'alienazione pura e semplice, che cos'altro può essere se non una responsabilità per gli altri, per ciò che gli altri fanno, fino a essere reso responsabile della stessa persecuzione che essa subisce?
 
Secondo il versetto 30 del capitolo 3 delle Lamentazioni: «egli porge la guancia a colui che lo percuote ed è saziato di vergogna». Non perché la sofferenza avrebbe un qualunque potere soprannaturale. Ma perché sono ancora io che sono responsabile della persecuzione che subisco. Il sé è la passività al di qua dell'identità, quella dell'ostaggio.
 
Passività assoluta che si muta in assoluta indeclinabilità: accusata al di là della libertà, ma proprio per questo votata all'iniziativa della risposta. C'è qui un insolito rovesciamento della pazienza in attività e del singolare in universale, e l'abbozzo di un ordine e di un senso nell'essere che non dipende né da un'opera culturale, né da una semplice strutturazione.
 
L'antiumanesimo moderno, negando il primato che giocherebbe la persona nell'essere, fine a se stessa, cercando quindi questo senso nella pura e semplice configurazione di elementi, ha forse lasciato uno spazio per la soggettività come sostituzione. Non che l'io sia soltanto un essere dotato di certe qualità dette morali, che egli porterebbe come degli attributi. È l'infinita passività o passione o pazienza dell'Io - il suo sé - l'unicità eccezionale alla quale egli è ricondotto che è questo incessante evento di sostituzione, per l'essere il fatto di svuotarsi del suo essere.
 
Ma l'analisi che ha condotto alle mie conclusioni non partiva né da un Dio, né da uno spirito, né da una persona, né da un'anima, né da un animal rationale. Ciascuno di questi termini è sostanza identica. Smentirsi della propria identità è incombenza dell'Io. Come aspettare da un altro che si sacrifichi per me, senza esigere il sacrificio degli altri? Come accettare la sua responsabilità nei miei confronti, senza trovarmi immediatamente, per la mia condizione di ostaggio, responsabile della sua stessa responsabilità? Essere io significa sempre avere una responsabilità in più.
 
L'idea di ostaggio, dell'espiazione di me per l'Altro, dove si rovesciano le relazioni fondate sulla proporzione esatta tra le colpe e le pene, tra libertà e responsabilità (relazioni che trasformano le collettività in società a responsabilità limitata), non può estendersi fuori di me. Il fatto di esporsi al peso che impongono la sofferenza e la colpa degli altri pone il se stesso dell'Io. Io soltanto posso, senza crudeltà, essere designato come vittima. L'Io è colui che, prima di ogni decisione, è eletto per portare tutta la responsabilità del Mondo. Il messianismo è questo apogeo nell'Essere - ribaltamento dell'essere «che persevera nel suo essere» - che comincia in me.
 
 
 
(Da E. Levinas, Tra noi, a c. di Emilio Baccarini, Milano, Jaca Book, 1998, pp. 85-92)
 
 
Emmanuel Levinas
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