Ho trovato una ricetta che mi sembra funzionare. Così ho deciso di pranzare ogni settimana con un collega diverso.O gni tanto ci scappa un sorriso, una risata aperta, o magari gli occhi si inumidiscono, e questa umanità trabocca. E i ragazzi al bar ti guardano stupiti e scoprono che abbiamo bisogno anche noi di amici con cui confidarci, collaborare, lottare insieme...
del 05 marzo 2012 (function(d, s, id) { var js, fjs = d.getElementsByTagName(s)[0]; if (d.getElementById(id)) return; js = d.createElement(s); js.id = id; js.src = '//connect.facebook.net/it_IT/all.js#xfbml=1'; fjs.parentNode.insertBefore(js, fjs);}(document, 'script', 'facebook-jssdk')); 
 
           Quando ho cominciato a insegnare, 11 anni fa, un conoscente mi disse: “Per sapere qualcosa di una professione ci vogliono almeno dieci anni”. Mi sembrò un’esagerazione sul momento e un’assurdità dopo solo un mese di scuola: avevo visto abbastanza per scappare… Altro che dieci anni! Invece aveva ragione: comincio a capire qualcosa di questo mestiere adesso, dopo dieci anni suonati dalla prima campanella. E c’è una cosa che vedo sempre più chiara dopo tanti errori: la forza di una scuola dipende dalla forza delle relazioni tra colleghi.
           Spesso i nostri sistemi educativi, improntati ad un illuminismo becero, sono basati sul fatto che basta pronunciare i concetti perché la mente li recepisca e li metta in pratica. Inventiamo le mille “educazioni” teoriche, come quella alla cittadinanza, credendo che l’enunciazione e lo studio di alcuni principi renderà i nostri ragazzi cittadini responsabili e rispettosi delle regole. E magari i colleghi dello stesso consiglio di classe non solo non si parlano fra loro, ma sparlano l’uno dell’altro…
           Ho deciso di superare i normali muri presenti in ogni posto di lavoro, ma poco giustificati in un sistema non competitivo come la scuola, in cui fai punteggio per il fatto stesso di entrare in classe, e non perché lavori meglio o peggio (ma questa è un’altra storia…) e ho scoperto che superare questi muri è distruggere la incapacità di collaborare con gli altri, per la pretesa di essere migliore di loro o per la paura di essere da loro giudicato.Ho trovato una ricetta, da buon siciliano, che mi sembra funzionare. Sono nato in una terra in cui l’affetto si manifesta in calorie e l’amicizia si nutre di lunghe, troppo lunghe a volte, chiacchierate postprandiali. Così ho deciso di pranzare ogni settimana con un collega diverso.
           Alla fine dell’orario scolastico ci troviamo nel piccolo bar della scuola e sgranocchiando un panino ci raccontiamo dei ragazzi, delle materie, dei nostri interessi. Insomma facciamo quello che fanno gli amici: quando mettono in comune le vite raccontandosele.
           Questo mi ha portato a scoprire le battaglie personali e familiari che molti miei colleghi conducono, spesso difese da volti inconsapevolmente arcigni (come sempre quando guardi da vicino il giudizio si trasforma in empatia), ho scoperto le passioni di alcuni di loro, ho scoperto che possiamo fare una lezione o un modulo intero in parallelo perché stiamo trattando gli stessi argomenti, ho imparato in un solo pranzo cose che due ore di preparazione personale non mi avrebbero consentito di raggiungere perché quel mio collega ha già approfondito quel tema in passato, ha già preparato una verifica su quell’argomento, ha appena letto un libro su quell’autore.Uno dei miei colleghi scrive poesie e mi ha regalato il suo più recente libro, una collega mi ha dato uno spunto su un ragazzo da aiutare in un certo aspetto, un altro mi ha chiesto una mano per affrontare una difficoltà nelle relazione con alcuni alunni, un’altra mi ha spiegato alcune cose di fisica di cui sono a digiuno, un altro ancora aveva un dolore da condividere, un’altra invece una gioia, una collega ordina il panino vegetariano e un altro si sente inadeguato come padre. Insomma i pranzi con i colleghi stanno diventando una necessità, dei veri e propri toccasana all’individualismo o all’anonima burocrazia di alcune riunioni scolastiche in cui uno parla e gli altri si dedicano ad altre attività: proprio come fanno i ragazzi di cui ci lamentiamo.
           Ogni tanto ci scappa un sorriso, una risata aperta, o magari gli occhi si inumidiscono, e questa umanità trabocca. E i ragazzi al bar ti guardano stupiti e scoprono che abbiamo bisogno anche noi di amici con cui confidarci, collaborare, lottare insieme.Al pranzo di ieri abbiamo cominciato in due.Alla fine eravamo sei.
Alessandro D'Avenia
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