Chi sono io, chi sei tu? Quale la tua personalità, il tuo carattere, la tua identità? Perché voglio conoscere il mio IO, non ciò che appaio, non ciò che faccio, non ciò che produco, non gli esami che sostengo o la macchina che guido...
del 13 settembre 2010
          Troppo di frequente ci auto-giudichiamo o lasciamo giudicare da altri riguardo quanto facciamo. Hai fatto i compiti, hai fatto l’esame, hai studiato, hai agito in questo o quel modo…? Può essere una prospettiva, un modo di vedere il mondo, noi stessi, gli altri – perchè anche noi giudichiamo gli altri secondo tale criterio: “che cosa fai?”.
 
          Perché però giudicare le persone da quanto fanno o producono? Credo possa essere motivo di riflessione la parola ‘invalidità’. Una persone può essere definita invalida per un determinato handicap, ad esempio la cecità. Ma qual e l’etimologia della parola “invalido”? Fermiamoci al banale: non-valido. Wow! Significa che stiamo dicendo che quella persona manca di valore perché, come supponevamo prima, è cieca!? Forse dovremmo usare più cautela riguardo questa parola…
          Quante persone sono definite invalide e anche inutili alla società: gli anziani che in Italia sono sempre in maggior numero, persone che hanno subito dei traumi gravi come può essere un ictus in-validante o un trauma cranico che riduce pesantemente le capacità motorie, di linguaggio o cognitive della persona, gli ‘esserini’ che spesso e facilmente donne eliminano dal loro corpo perché imprevisti o scomodi…
          D’altronde, io stessa mi chiedo se non sia inutile alla società quando invece di fare qualcosa di produttivo, come studiare per ottenere la laurea e lavorare per il bene mio e degli altri, mi perdo in pensieri, distrazioni e passatempi inutili… Così come mi sono chiesta se non fossi totalmente inutile a questo mondo, invalida, senza un minimo di valore, quando per cause di forza maggiore mi sono dovuta fermare un anno intero all’università, perché una situazione patologica mi impediva di studiare e di condurre una vita “normale”.
          Ci lasciamo troppo facilmente giudicare da quanto facciamo, e i primi giudici feroci siamo noi stessi. Non ci ricordiamo che ciò che conta nella nostra vita è essere. Chi sono io, chi sei tu? Quale la tua personalità, il tuo carattere, la tua identità? Perché voglio conoscere il mio IO, non ciò che appaio, non ciò che faccio, non ciò che produco, non gli esami che sostengo o la macchina che guido. Quelle sono cose esterne. Posso prendere 30 e lode ad un esame e non valerlo, però sono sempre io.
          In quante situazioni ci scordiamo di essere noi stessi per assumere una qualche facciata. Non sono amico, ma faccio l’amico. Non sono generoso, ma faccio il generoso. Non sono disponibile, ma faccio il volenteroso, presente e disponibile… solo per apparire, solo per dare un’impressione di me diversa da quel che sono veramente, semplicemente per farmi giudicare da canoni sbagliati – atteggiamento che si fonda sull’ipocrisia.
          Dovremmo tutti tornare alla radice della vita: essere, ed essere amati. Perché siamo nati da un rapporto d’amore, rapporto su cui vorrei soffermarmi rapidamente ma non per questo superficialmente: si fa l’amore perché si è amati, si è innamorati, si è una coppia, si è fedeli l'uno all'altro, ci si è promessi. Non sono cose che si fanno, ma che sono nel nostro essere, nella nostra anima, nel nostro cuore, nella nostra mente. Solo dall’essere amati e dall’amare può derivare l’atto d’amore, anche detto 'fare' l’amore.
          Un libro a me molto caro mi aiuta in tutte queste riflessioni, dice:
 
           Queste voci negative sono così forti e così intense che è facile credere loro. Questa è la grande trappola. E’ la trappola del rifiuto di noi stessi. Nel corso degli anni sono arrivato a rendermi conto che, nella vita, la più grande trappola non è il successo, la popolarità o il potere, ma il rifiuto di noi stessi (…). Quando si da ascolto alle voci che ci chiamano indegni e non-amabili, allora il successo, la popolarità e il potere sono facilmente percepiti come soluzioni attraenti. Ma la vera trappola è il rifiuto di noi stessi.
          Mi stupisco sempre di come cado in fretta in questo tipo di tentazione. Appena qualcuno mi accusa o mi critica, appena mi sento rifiutato, lasciato solo o abbandonato, mi trovo a pensare Questo prova, ancora una volta, che non sono nessuno. Invece di assumere una posizione critica a riguardo, o cercare di capire quali sono i miei e gli altrui limiti, tendo a colpevolizzarmi – non solo per ciò che ho fatto, ma per ciò che sono. Il mio lato oscuro mi dice Non sono buono… mi merito di essere messo da parte, dimenticato, rifiutato e abbandonato.”
          Addirittura crediamo di meritare il rifiuto, l’abbandono, la dimenticanza? Forse dovremmo fermarci, ogni volta che ci sentiamo rifiutati, meritevoli di critiche e abbandono, per chiederci chi siamo stati, l’essere da cui è scaturito il nostro agire. A volte vedremo un errore effettivo, e potremo tornare sui nostri passi, imparare, chiedere scusa. Altre vedremo che invece è solo un giudizio del nostro fare, non del nostro essere, da parte di qualcuno che, invece di apprezzare la nostra identità, si ferma alla superficie, all’abito che spesso purtroppo il monaco lo fa.
          Sarebbe un ulteriore passo poter riflettere su chi siamo noi, scoprire la nostra identità, sapere chi siamo in atto, così da poter sfruttare le nostre potenzialità e crescere.
          D’altronde, lo stesso Dio degli ebrei si è presentato al suo popolo non come colui che salva, colui che libera, colui che agisce, colui che punisce,… Quando Mosè gli ha chiesto come avrebbe dovuto presentarlo al popolo d’Israele, Dio ha risposto “Io sono colui che sono”, dove il verbo usato in ebraico indica una particolare a-temporalità, perché la traduzione vera, letterale, sarebbe “Io sono colui che era, che è, che sarà” – ossia l’eterno, al di sopra del tempo, al di là di esso.
          L’essenza per eccellenza, l’essere supremo. Chissà perché Dio non s’è presentato come “Io sono quello che ha fatto il mondo, quello che ha fatto miracoli, quello che ha fatto profetizzare molti”…! Forse anche lui ci teneva di più ad essere, che a fare. Per questo neanche Dio ci giudica dal fare. Per questo l’amore è qualcosa di gratuito: perché amo te, così come sei, e non come vorrei che fossi, come vorrei che diventassi, come dovresti essere. Ti amo e basta, e questo è la bellezza di essere, ed essere amati.
          Essere o non essere. Tu sei? Questo il dilemma!
          “Il più grande dono che l’amicizia possa farti è il dono di riconoscere il tuo stato di essere amato. Posso farti questo dono solo per quanto l’ho preteso da me stesso. Non è questa l’amicizia: darci l’uno all’altro il dono del nostro essere amati? (…) Non è certamente facile ascoltare quella voce in un mondo pieno di altre voci che gridano: Tu non sei buono, sei brutto; sei indegno; sei da disprezzare, non sei nessuno – e non puoi dimostrare il contrario.
Alessandra Olivari
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