Prolusione di don Fabio Attard tenuta presso lo studentato salesiano di Nave (BS). «Le seguenti riflessioni hanno un taglio ben chiaro. Scrivo da una prospettiva che è quella di uno che ha fatto la scelta educativa con dei precisi punti di riferimento. Tali punti di riferimento sono molto semplici. Prima di tutto...».
del 05 novembre 2009
L'esperienza educativa è stata chiamata arte, ma è stata anche chiamata sfida. E credo che i due termini non sono contrari, perché la vera arte non è mai un'esperienza di leggerezza, anzi una vera e propria sfida.
In pi√π, in questi ultimi anni sentiamo parlare anche di emergenza educativa. Sentiamo forte il grido di coloro che chiedono di essere accompagnati, di non essere lasciati soli - i nostro ragazzi, i nostri giovani.
Comunque sia il termine che usiamo per spiegare l'attuale situazione educativa, rimane il fatto che il discorso educativo oggi sta conquistando uno spazio sempre pi√π crescente.
Le seguenti riflessioni hanno un taglio ben chiaro. Scrivo da una prospettiva che è quella di uno che ha fatto la scelta educativa con dei precisi punti di riferimento. Tali punti di riferimento sono molto semplici. Prima di tutto, va tenuta al centro la persona che è impegnata nella ricerca del senso. Secondo, questa centralità s'ispira ad un quadro antropologico che vede la persona come creatura di un Dio: un Dio che ama, e che continua ad amarla in Cristo. Terzo, con tanti altri mi metto in questo pellegrinaggio, seguendo un maestro, che lo ha già percorso prima di me - Don Bosco.
Il metodo di Don Bosco, la sua maniera di essere presente come educatore si traduce essenzialmente nell'essere al servizio dei ragazzi e dei giovani. Essere vicino ai giovani in una maniera che nel loro cuore sia suscitata la voglia di crescere (ragione), il coraggio di guardare in alto (religione), per arrivare, poi, al desiderio di vivere e condividere il tutto come dono (amorevolezza).
 
1. Essere vicini
L'essere vicini come educatori per sentire il racconto della loro storia, un sentire passivo ed attivo allo stesso tempo, sembra una cosa semplice. Per alcuni sembra perfino che sia anche una perdita di tempo. Non è detto che sia semplice, meno ancora che non possa accadere anche che sia perdita di tempo. Però, il vero «essere vicini» ai nostri giovani oggi, acquista un significato diverso. In genere, in un contesto dove noi adulti sembra che siamo troppo preoccupati per riuscire, per accumulare, è chiaro il rischio che ci rimane poco tempo per stare vicino ai nostri ragazzi.
In uno degli ultimi sondaggi sulla scuola in Italia, ho incontrato una frase che ci deve fare molto riflettere: «i giovani oggi sono orfani con dei genitori viventi».[1] Mi sono chiesto, ma se i loro genitori sono lì, accanto a loro, come mai risulta come se non ci fossero? Sono certamente lì, fisicamente accanto a loro, ma solo come risorsa materiale, non necessariamente, e non sempre, come una presenza affettiva.
Credo che qui, tutti noi, genitori e educatori, abbiamo un primo interrogativo da contemplare: in che modo siamo noi presenti ai giovani? Se il mio essere pastore dei giovani si limita soltanto a provvedere attività, e gestire piani di azione e organizzare un progetto, mi chiedo se proprio in questo punto non stiamo perdendo un'opportunità unica - essere vicini per sentire il racconto.
 
2.   Sentire il racconto
In un ambiente dove siamo sopraffatti da una valanga d'informazione e d'immagini, non rischiamo anche noi il rischio di trattare la storia dei nostri giovani nella stessa maniera che trattiamo le storie di tutto ciò e di tutti coloro che ci passano davanti? Voglio dire in una maniera superficiale? Il vero pastore che sta vicino ai giovani, offre loro la possibilità nella quale la loro storia sia un dono da raccontare, un'esperienza da condividere.
Quante volte ci capita di sentire i giovani che ci ringraziano perché abbiamo ascoltato le loro storie offrendo loro tutto il tempo necessario! Quante volte davanti allo schermo del computer si affaccia un messaggio msn o chat, perché un giovane ha bisogno di 'parlare', di essere ascoltato!
Il bello di tutto questo sta in un fatto molto semplice: chi racconta se stesso/a non solo ha bisogno di sentirsi ascoltato/a ma, pi√π profondamente, scopre che nel raccontarsi, lui o lei sta ascoltando se stesso/a.
In questo contesto di rispetto, essere pastori ci chiede di cogliere nel racconto la sete nascosta e la fame non ancora incontrata. Sentire il racconto, diventa per noi pastori, un'opportunità per educare i giovani a decifrare i loro stessi bisogni, e con coraggio tracciare i percorsi necessari.
Però, dobbiamo fare attenzione a non ridurre 1' «essere vicini» o il «sentire il racconto» come se fossero una mera tecnica. Risulta, piuttosto, un atteggiamento del cuore. Il che ci chiede tutta una vasta preparazione a livello di cammino personale. È questo che ci mette in sintonia con il loro ambiente, intuire il loro linguaggio, ed esplorare le loro metafore.
 
3.   Il ruolo della religione
Uno studio attuale di Daniele Hervieu-Leger,[2] che tratta il tema del sacro nella post­modernità, ci apre alcune piste molto interessanti per il nostro essere pastori oggi. Hervieu-Leger scrive che la trasmissione del credere assicura la continuità della memoria. Per lei la memoria è l'anima del credere, e la dimensione rituale è il rinnovamento della memoria.
Sono termini che qui non abbiamo il tempo di esplorare. Ma, sicuramente, ci fanno riflettere, specialmente davanti a certe scelte che abbiamo fatto nel passato, cioè credere che il discorso religioso e l'esperienza spirituale fossero proposte superate.
In una società dove manca la memoria, il rischio è che subentra un atteggiamento dove qualunque decisione etica sia condizionata da un «imperativo dell'immediato». Quest'ultima frase è molto più forte da un mero individualismo, che in piccole o grandi dosi si trova sempre nel cuore della persona.
L'ascolto del racconto dei nostri giovani è una via privilegiata attraverso la quale noi pastori abbiamo l'opportunità di suscitare ed educare alla memoria. La sete e la fame nascoste dentro il loro cuore rimangono una realtà mai incontrata se ciò non accade. La memoria viene incontro a tale sete e fame.
La conseguenza di tutto questo fallimento, che in verità possiamo chiamarlo un vuoto nell'anima, è quella di un ambiente dove il presente domina senza riferimento al passato -figli senza eredità. Un passato che sparisce. E la connessione con il futuro sarà sempre più opaca e senza senso.
In fin dei conti, la bellezza di fare della propria vita un'estensione del proprio essere, gestendo una eredità all'insegna del futuro, diventa un miraggio, una fatica impossibile.
 
4.  Le ricerca ed il ritorno del sacro
Oggi tutti coloro che condividono un interesse nella vita dei giovani, che sono quotidianamente impegnati nella storia dei giovani, dai sociologi agli educatori, dai pastori agli operatori sociali, sono d'accordo che la dimensione spirituale non è una dimensione transitoria ma fa parte dello stesso essere persona. In questo scenario la sete del divino e la fame del trascendente sono di nuovo prese sul serio.
Gli stessi giovani, nel loro deserto della quotidianità, non mancano a formulare domande a proposito. Però c'è da notare che la loro ricerca della identità religiosa la vivono con gli stessi criteri della post-modernità - in una maniera frammentata, individuale ed auto-costruita.
Quest'ultimo sembra che sia l'unico linguaggio che il mondo adulto sia stato capace di trasmettere loro. La dimensione aggiunta in questo, è che i giovani che affrontano il discorso spirituale continuano a chiedere che questo cammino non desiderano farlo da soli.
Non è un caso, allora, che da una parte vediamo una mentalità individualista nella ricerca della dimensione spirituale, ma dall'altra una voglia di fare tale cammino in comunità, con altri, anche loro in ricerca.
Un caso tipico lo possiamo trovare nei vari sondaggi sui giovani e la dimensione religiosa. In un'indagine su La religiosità giovanile in Italia, realizzata dall'Istituto Iard e dal Centro di orientamento pastorale (Cop), tra la primavera e l'estate del 2004, vediamo come la maggioranza dei giovani italiani, il 70%, professa il cattolicesimo. Un tipo di appartenenza che però varia nelle sue espressioni: da quella occasionale a quella fervente, da quella intimista a quella rituale.
La tendenza in genere è quella di vivere, si, la propria religiosità ma all'insegna di una gestione a piacimento. In questi protagonisti notiamo come la presenza della domanda religiosa, che porta con se il desiderio di una ricerca e di una pratica, non è distinta o distaccata da un approccio soggettivo ed individuale.
E qui ci troviamo come pastori in un crocevia molto interessante. Se da una parte esiste la domanda al religioso, ed è una domanda sincera, la maniera e il metodo con i quali tale domanda è espressa e formulata sono nuovi.
Siamo chiamati a dialogare con questa storia e con tutti i suoi connotati. Ci troviamo di fronte ad una personalizzazione del discorso religioso che ha due possibili esiti: da una parte esiste il rischio di un relativismo a tutto campo, dall'altra esiste l'opportunità di una possibile personalizzazione che apre nuove strade verso una religiosità più convincente perché comunitaria.
In altre parole, la seconda pista sarebbe quella che favorisse la costruzione di una seria coscienza cristiana e di un cammino serio e profondo.
 
5. Creare comunità
Perseguire la seconda pista lo possiamo fare solo in un clima di fraterna comunione. A tale aspetto vorrei riferirmi a un'opera recente di Mgr. Claude Dagens,[3] vescovo francese, membro della Academie Francaise. Scrive che frutto della sua esperienza pastorale lui è convinto che la sete e l'attesa per la spiritualità è viva nella nostra società - e fin qui siamo tutti d'accordo. Per lui, questo è il segno che ci dà forza e coraggio. Inoltre, - ed è qui la novità - questa consapevolezza deve costituire una forte motivazione per le nostre comunità.
Dagens continua a dire che, in relazione a tutti coloro che sono alla ricerca, noi, come credenti, siamo chiamati ad uscire ed incontrarli, accoglierli, farli sentire che da noi sono a casa. Quello che qui c'è in gioco è la nostra capacità di vedere e ascoltare per saper offrire cammini di fede.
Sarà una vera e propria tragedia quella che ci vede unicamente come gestori di un'impresa piuttosto che profeti pronti a tracciare la via per un messaggio di vita e di verità.
Mi pare che in queste parole noi come pastori troviamo il nucleo della nostra sfida. Saper proporre cammini, creare spazi di convergenza con questa generazione che ha lo stesso anelito ma usa un tipo di linguaggio diverso.
Nel 2005, in una conferenza a Londra sul contributo della fede cristiana nel futuro dell'Europa, padre Timothy Radcliffe OP, già Generale dei Domenicani, commenta il ritorno del sacro e l'aumento del credere religioso. Dice che, sicuramente e con chiarezza, la grande sfida per noi cristiani sarà quella di rimanere in contatto con tanti milioni di persone che sono onestamente alla ricerca di Dio, ma che non frequentano la Chiesa. Al centro della fede cristiana c'è la comunità; siamo radunati dal Signore attorno all'altare. È questo spazio di sacralità e di umanità che vada offerto e condiviso.
Quelle di Dagens e di Radcliffe sono due testimonianze forti che vengono fuori da due esperienze tipiche di pastori che sono vivi a ciò che richiede la fede, come lo sono anche per ciò che ha a che fare con la ricerca della fede dei tanti.
 
6.   Offrire una testimonianza
A questo punto, noi non possiamo stare lì a fare i commentatori di turno. Perché siamo persone di fede, persone che nella persona di Cristo abbiamo posto la nostra speranza, fortemente crediamo che Cristo continua a camminare con noi.
In termini di una lettura sociologica constatiamo che assistiamo a un cambio radicale di epoca. In questo nuovo scenario, siamo convinti che il messaggio di Cristo non solo non ha perso la sua perenne novità, ma da varie parti riceviamo la conferma che il «problema di Dio» è più che mai vivo, se mai «problema» fosse.[4]
Per l'educatore cristiano, la fede offre la certezza che non vi sia nessun tempo - nemmeno quello della post-modernità - che può essere un tempo senza Dio, oppure da Lui ab­bandonato.[5] Possiamo dire che il contributo della fede offerto dal pastore a coloro che sono alla ricerca, e tra questi ci sono i giovani, è una forma di solida testimonianza che Dio cammi­na sempre a fianco dell'uomo.
 
7.   Proposta
Alla fine di questa breve riflessione vorrei riferirmi ad una articolo molto interessante di Franco Dorofatti, docente di psicologia presso il seminario di Brescia.[6] Dorofatti conclude il suo contributo suggerendo quattro piste pastorali che qui riporto in forma molto breve:
a. invitare le persone ad avere lo spirito aperto e disponibile ad accogliere il mistero della vita, del nascere e morire dell'uomo, dell'amore, della sofferenza, di Dio, con sentimenti di stupore, meraviglia, gratitudine, gioia, dolore, speranza, pace, afferrati dal mistero, posseduti dal mistero, più che voler governare e possedere il mistero. C'è bisogno di liberare la dimensione contemplativa della vita, dando spazio all' «homo sapiens» e all' «homo religiosus». Suscitare il desiderio, tipico del pellegrino, alla ricerca di Dio;
b.  urge un aggiornamento nella comunicazione del messaggio cristiano. Il nostro linguaggio in quanto è veicolo di ciò che significa essere Chiesa deve farsi «contemporaneo», che tiene conto dei tempi, dei valori e disvalori presenti nella società, della lingua di un popolo. Il filosofo canadese Charles Taylor, in un'intervista rilasciata ad «Avvenire», afferma che la Chiesa può essere richiesta come «riserva di valori e simbologie», ma non è questo il suo compito principale. La missione della Chiesa è quella di vivere il vangelo e chiamare alla fede, far incontrare Dio. La sfida prioritaria per la Chiesa è di parlare al mondo di oggi nella sua lin­gua complessa;
c. L'asserto sulla morte di Dio, semmai è stato vero per il passato, non lo è più oggi. Il XXI secolo vede la rivincita della religione. Però al ritorno di Dio manca il ritorno dell'uomo: manca la fiducia nell'uomo, per cui il morto non è Dio, ma l'uomo. Se Dio comincia a tornare, l'uomo continua ad andare incontro a manipolazioni, dissesti, violazioni, tra cui acuta quella del non rispetto della vita, dal concepimento alla morte. Ora nella proposta cristiana si deve procedere con fedeltà a Dio e all'uomo, alla sua dignità, sperando che al ritorno di Dio corrisponda un ritorno dell'uomo. Ci troviamo a proporre un'antropologia aperta al trascendente, consapevoli che la fiducia in Dio apre alla fiducia nell'uomo e che solo l'uomo vivente diventa gloria Dei;
d. È necessario mettere in atto una pre-evangelizzazione che parta dal risveglio della domanda religiosa e prepari il terreno adatto alla «germinazione» della religione nel cuore delle persone. Occorre sollecitare la domanda attraverso momenti d'incontro, di dialogo, di dibattito, di confronto sui grandi problemi della vita, di silenzio, di preghiera. Il cristianesimo può divenire una risposta esaustiva ai cosiddetti «massimi problemi» del vivere. È da augurare che le persone indifferenti, che si trovano coinvolte in un cammino di coinvolgimento cristiano, possano incontrare comunità cristiane «attraenti», capaci di affascinare con la loro fede, con la gioia e la vita di carità.
 
8. Conclusione
A modo di conclusione offro la reazione di Paul Riceour a proposito dei suoi soggiorni annuali a Taizé. Lo faccio perché, prima, mi sembra che colga bene i quattro suggerimenti offerti. Secondo, mi auguro che i nostri luoghi siano davvero spazi di accogliente carità.
Noi veniamo dalla civilizzazione che effettivamente ha ucciso Dio, cioè che ha fatto prevalere l'assurdo e il non-senso sul senso, però questo provoca una profonda protesta. Uso questa parola che, nel senso, è vicina alla parola attestazione, perché l'attestazione adesso procede dalla protesta che il nulla, l'assurdo, la morte non sono l'ultima parola. Questo raggiunge la mia questione sulla bontà poiché la bontà non è soltanto la risposta al male, ma è anche la risposta al non-senso. Nella protesta c'è la parola «testimone»: si pro-testa prima di poter at-testare. A Taizé si fa il cammino dalla protesta all'attestazione e questo cammino passa attraverso la legge della preghiera, la legge della fede. La protesta è ancora nel negativo: si dice no al no, e qui bisogna dire sì al sì. C'è quindi un movimento di pendolo dalla protesta all'attestazione, e credo che si faccia attraverso la preghiera.
Sono convinto che noi, Salesiani di Don Bosco, oggi più che mai, siamo chiamati a scoprire la bellezza dell'essere figli di Don Bosco. Il Capitolo Generale 26 ci invita a vivere il vero ritorno a Don Bosco, ritornando ai giovani. Mi pare che le riflessioni del CG 26 sono sulla stessa lunghezza d'onda di ciò che da varie parti stiamo sentendo:
Ritornare a Don Bosco significa 'essere nel cortile', ossia stare con i giovani, specialmente i più poveri, per scoprire in loro la presenza di Dio e invitarli ad aprirsi al suo mistero di amore. Don Bosco ritorna tra i giovani di oggi attraverso la testimonianza e l'azione di una comunità che vive il suo spirito, animata dalla stessa passione apostolica. Egli raccomanda ad ogni salesiano di incontrare i giovani con gioia nel loro vissuto quotidiano, impegnandosi ad ascoltare i loro appelli, a conoscere il loro mondo, a incoraggiare il loro protagonismo, a risvegliare il loro senso di Dio e a proporre loro itinerari di santità secondo la spiritualità salesiana. È sempre Don Bosco a chiederci di affrontare con audacia le sfide giovanili e di dare risposte coraggiose alla crisi di educazione del nostro tempo, coinvolgendo un vasto movimento di forze a beneficio della gioventù (CG26, n.2).
Mentre porgo i miei più sentiti ringraziamenti per la vostra presenza ed attenzione, vi auguro un anno fecondo di momenti significativi di riflessione, ricerca ed approfondimento della vostra chiamata. Che quest'anno possa veramente un anno di grazia per ognuno di voi personalmente, ma anche per tutti coloro che il Signore della vita vi farà incontrare sulla vostra strada.
 
Grazie.               
[1] Una frase che si rifa ad una pubblicazione che porta lo stesso titolo: Ivan Battista, Orfani di genitori viventi (Pieraldo Editore, 1998).
 
[2] Daniele Hervieu-Leger, La religion en mouvement. Le pelerin et le converti (Flammarion, 1999).
 
[3] Claude Dagens, Méditation sur l'Église catholique en France : libre et présente (Paris, Ed. du Cerf 2008).
 
[4] G. Campanini, 77 tempo della secolarizzazione. Il tempo della fede, in O. Svanera (a cura di), Il tempo tra inquietudine e responsabilità (Messaggero, Padova 2000).
[5] G. Lorizio, Rivelazione cristiana. Modernità. Post-modernità (San Paolo, Cinisello B. 1999).
[6] Franco Dorofatti, Dall' eclissi del sacro al suo ritorno - con prospettive pastorali, in Orientamenti Pastorali 10/2008, 15-22.
don Fabio Attard
Versione app: 3.25.3 (26fb019)