Eutanasia, uno spot da bocciare

«Non entro nella dubbia opportunità di uno spot come questo - risponde allora il sottosegretario alla Salute, Eugenia Roccella - ma la scelta tra la vita e la morte non è accostabile a un taglio di capelli...». Tra l'altro qui «si oltrepassa quel confine tracciato con grande cautela e precisione tra libertà di scelta delle terapie e diritto a morire».

Eutanasia, uno spot da bocciare

da Attualità

del 10 novembre 2010

Bocciato dal garante per la televisione australiana, lo spot pro eutanasia ci riprova qui da noi. Lo hanno presentato ieri a Telelombardia, in una conferenza stampa disertata dai giornalisti, Marco Cappato, segretario dell’Associazione Coscioni, Mina Welby, moglie di Pier Giorgio (morto nel 2006 dopo il distacco dal respiratore) e Fabio Ravezzani, direttore di Telelombardia e Antenna 3: «Dovremo sottoporre lo spot all’approvazione dell’Autorità garante delle Comunicazioni, poiché una violazione significherebbe una sanzione fino a 700mila euro - ha annunciato Ravezzani - ma, se avremo il permesso, manderemo in onda questa pubblicità, e a prezzi molto convenienti. Lanceremo anche una raccolta fondi del Partito radicale per diffonderla sulle reti nazionali».

 

E in caso di bocciatura? Cappato promette battaglia: «Trasmetteremo dall’estero e su Internet, raggiungeremo in qualsiasi modo i cittadini italiani». A pensar male non si fa peccato, e così è lecito se non altro dubitare che dietro ci sia il tentativo di ridare visibilità a un canale che col digitale ne ha persa parecchia, ma Ravezzani assicura: «È il contributo che qualunque organo di informazione serio dovrebbe dare».

 

Così ai tre giornalisti presenti (Adnkronos, Ansa e Avvenire) è stato riproposto in italiano lo spot che da mesi circola in inglese su Internet: un attore seduto sul letto ricorda che «la vita è questione di scelte». Lui stesso ha scelto «che macchina guidare, la maglietta che ho indosso, il taglio di capelli... Quello che non ho scelto è di diventare malato terminale. Ho fatto la mia scelta finale. Ho solo bisogno che il governo mi ascolti». «Non entro nella dubbia opportunità di uno spot come questo - risponde allora il sottosegretario alla Salute, Eugenia Roccella - ma la scelta tra la vita e la morte non è accostabile a un taglio di capelli...». Tra l’altro qui «si oltrepassa quel confine tracciato con grande cautela e precisione tra libertà di scelta delle terapie e diritto a morire».

 

Mai una volta si pronuncia la parola eutanasia, tutto è lasciato intuire mentre alle spalle del malato una donna si avvicina con un vassoio di oggetti... (impossibile non pensare al 'kit eutanasia' che lo stesso ideatore dello spot, il medico australiano Philip Nitschke, con l’associazione Exit International ha provato a mettere in vendita in Gran Bretagna al modico prezzo di 35 sterline). Eppure Marco Cappato aveva annunciato che «con questo video si infrange il tabù e ci si riappropria della parola eutanasia, così vicina al vissuto delle persone». Basta giri di parole - aveva ammonito - «recuperiamo una parola di cui la gente non ha paura». Sembrava dimenticare, Cappato, che proprio chi ha voluto la fine di Eluana Englaro ha passato i mesi a forgiare perifrasi come 'accompagnare alla morte' o 'lasciare andare' proprio per non dire eutanasia.

 

«Finalmente oggi sono felice di poter liberamente parlare di eutanasia -commentava Mina Welby-: di solito mi devo attenere a definizioni come 'desistenza terapeutica' o altro. E in Germania, poi, non puoi pronunciare la parola perché ricorda il nazifascismo...». Bando alle ipocrisie, allora: quella su Eluana fu eutanasia? Possiamo una buona volta ammetterlo? Perché allora lo stesso Beppino Englaro va in giro dicendo (ancora pochi giorni fa in università Statale) che «l’eutanasia è una cosa esecrabile» ben lungi dalle aspirazioni sue e di chi lo ha sostenuto (cioè i radical-socialisti)? Cappato si barcamena, «Englaro tiene a questa distinzione per ribadire la legalità di ciò che ha fatto: fu eutanasia da un punto di vista filosofico, non lo fu dal punto di vista giuridico», perché - sostiene - non ci fu «un’azione proprio attiva per provocare la morte di Eluana», che infatti agonizzò per giorni dopo il distacco di alimentazione e idratazione. Eppure poco prima la stessa signora Welby aveva asserito (e come darle torto?) che «non è la durata di un’agonia a rendere o meno morale un’azione (lo diceva in relazione al fatto che lo stesso medico a suo marito aveva negato la sedazione e il successivo distacco del respiratore, ma poi aveva proposto «di non farlo mangiare fino a morire», come se fosse meno grave).

 

Grande confusione anche sui limiti del lecito: «Sì all’eutanasia solo in caso di malattia irreversibile e se il malato è in condizioni disperate», chiarisce Ravezzani. E di un «collegio medico che ammetta l’eutanasia solo dopo aver provato che il malato non sia depresso e che il suo male sia irreversibile» parla pure Cappato, ma poi ricorda di continuo che è solo questione di scelta libera e del tutto relativa: «La vita che per uno è sopportabilissima per un altro è invivibile». «Sì all’eutanasia anche quando le cure non sono inutili, anche se non c’è accanimento terapeutico insomma», si spinge a dire Mina Welby. Naturalmente la condizione indispensabile è la volontà chiara del soggetto da eutanasizzare... anche se Eluana non l’aveva mai espressa (si aggirò il problema ricostruendo una sua 'presunta volontà', vero e proprio obbrobrio giuridico).

 

Caso Eluana ancora aperto, insomma, e Ravezzani promette dibattiti seri in tivù, «con il contraddittorio». Merce rara oggigiorno, come insegna Fabio Fazio («signor Englaro, grazie a nome di tutti gli italiani per ciò che ha fatto...», Rai3, febbraio 2009).

 

Lucia Bellaspiga

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