Farneta, la strage nazista dimenticata

70 anni fa i tedeschi fucilarono 12 monaci certosini che avevano nascosto un centinaio di ricercati

Tra le stragi compiute dai tedeschi in Italia nel 1943-45, ce n’è una rimasta nascosta ma che merita di essere conosciuta per il suo alto valore cristiano. E’ la vicenda dei dodici monaci della Certosa di Farneta, in provincia di Lucca, fucilati dai tedeschi nel settembre del 1944 perché nascondevano nel monastero e nelle sue dipendenze un centinaio di ricercati dai nazifascisti. Insieme a loro ne furono uccisi altri trentadue, scelti tra quelli che avevano nascosto.

Tra le persone che nascondevano – alcuni vestendoli da monaci – c’erano: perseguitati politici che si opponevano al fascismo e al nazismo; partigiani feriti o in fuga dai rastrellamenti; ebrei che speravano di sfuggire alla deportazione.

La Certosa era diventata rifugio per chi tentava di sfuggire dai nazisti su iniziativa di fra Gabriele Maria Costa, procuratore certosino, e di Giorgio Nissim, ebreo, animatore di una rete clandestina di solidarietà e assistenza, la DELASEM, dedicata all’assistenza degli ebrei stranieri di passaggio in Italia, che poteva contare su una fitta rete di amicizie e di collaborazioni disinteressate, come quella del ciclista Gino Bartali, che nascondeva nella canna della bicicletta i fogli che poi recapitava in giro per le campagne toscane.

A ricostruire l’intera vicenda in un libro che si intitola La strage di Farneta. Storia sconosciuta dei dodici Certosini fucilati dai tedeschi nel 1944 (Rubbettino) è stato il vaticano Luigi Accattoli, che ha pubblicato dei documenti inediti dei Certosini. Il giornalista scrive che i sopravvissuti racconteranno le battute di spirito dei martiri, che non persero mai il buon umore nonostante la terribile situazione, organizzarono sempre momenti di preghiera, confessando e dando la benedizione agli altri prigionieri. Il monastero è tornato alla vita normale dopo la ritirata dei tedeschi, con il rientro dei deportati e l’affluenza di monaci da altre Certose.

I monaci al momento dell’irruzione delle SS tedesche – nella notte tra il 1° e il 2 settembre 1944 – erano più di trenta. Furono tenuti prigionieri in diversi luoghi, per una decina di giorni, tra Lucca e Massa e poi divisi tra i destinati alla fucilazione e quelli da deportare ai lavori forzati. I deportati si salveranno tutti e narreranno il modo mite ed evangelico in cui si sono comportati i dodici martiri nei giorni della prigionia. Si tratta di sei sacerdoti e sei fratelli laici messi a morte perché responsabili della Certosa (il priore Martino Binz, il procuratore Gabriele Costa, il maestro dei novizi Pio Egger), o perché troppo anziani per inviarli al lavoro. Tra gli anziani c’è il vescovo venezuelano Bernardo Montes de Oca, che aveva lasciato la diocesi e si era fatto certosino.

Nonostante la sua ricchezza umana e cristiania, questa vicenda è rimasta tuttavia quasi sconosciuta all’opinione pubblica, “complice” sicuramente l’atteggiamento estremamente riservato dei Certosini. Eppure su di essa si sono tenuti tre processi (Firenze 1947, La Spezia 1948, La Spezia 2004), mentre si sono accumulate numerose e ben documentate pubblicazioni di storici locali.

La scarsa attenzione è stata frutto probabilmente anche del conflitto tra la storiografia laica che considerava questi fatti del 1944 come un episodio della Resistenza armata – in un anniversario della strage, Bettino Craxi si recò proprio in questi luoghi – e la storiografia cattolica che li considerava giustamente come un’opera di carità lontana dalla politica.

La ricerca degli storici ha chiarito che la testimonianza di carità data allora dai Certosini ebbe motivazioni solo evangeliche, di soccorso ai perseguitati.


 

Tratto da it.aleteia.org

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