Uno dei pilastri della fede islamica è il credere in tutti i profeti: «E dite loro ancora: "Noi crediamo in Dio, in ciò ch'è stato rivelato a noi e in ciò che fu rivelato ad Abramo, a Ismaele, a Isacco, a Giacobbe, e alle Dodici Tribù, e in ciò che fu dato a Mosè e a Gesù, e ai profeti dal Signore; non facciamo differenza alcuna fra loro e a Lui tutti ci diamo!»
del 12 luglio 2010
 
               Uno dei pilastri della fede islamica è il credere in tutti i profeti: «E dite loro ancora: 'Noi crediamo in Dio, in ciò ch’è stato rivelato a noi e in ciò che fu rivelato ad Abramo, a Ismaele, a Isacco, a Giacobbe, e alle Dodici Tribù, e in ciò che fu dato a Mosè e a Gesù, e ai profeti dal Signore; non facciamo differenza alcuna fra loro e a Lui tutti ci diamo!» (Cor. 2:136) [A. Bausani, “Il Corano”, BUR, 2007(2), N.d.T.].
 
               Pertanto, non c’è sura che non menzioni un profeta o accenni alla sua vita, alla quale il Corano dà forma con stile profondamente retorico, volto a svelare il senso spirituale senza soffermarsi sui particolari.
               La percezione del senso retorico e la comprensione del significato spirituale non erano tuttavia cose alla portata di un bambino di tredici anni. I dettagli mancanti per ricostruire interamente la storia del profeta suscitavano invece in lui una terribile curiosità. Domandò quindi all’insegnante di religione se conoscesse qualcosa in più di quei dettagli, ma costui, beffandosi delle sue domande, lo sgridò dicendogli: «Questo è il libro di Dio, non un libro di favole!».
               Pur sentendosi frustrato, non si arrese. Sapeva, grazie all’insegnante di religione, che quelle vicende erano contenute nella Bibbia. Sapeva anche che la Bibbia era stata scritta dopo la morte di Cristo, motivo per cui era stata falsificata, ma non gli importava. Voleva saziare la sua curiosità e sapere come andavano a finire quelle storie, anche se, secondo l’insegnante di religione, non erano vere.
               Fu così che, per la prima volta, entrai da solo, e di mia spontanea volontà, in una “istituzione” cristiana (avevo già accompagnato mia madre in chiesa per presenziare al matrimonio di una delle sue amiche cristiane): si trattava della Libreria della Bibbia, a Shubra, uno dei quartieri in cui risiedono molti cristiani. Entrare nella libreria richiedeva grande coraggio. Se mi avesse visto qualcuno dei parenti, o dei vicini di casa, sarei stato sottoposto a una lunga inchiesta. Sapevo in anticipo che “la ricerca di particolari sulle storie dei profeti” non sarebbe stata una risposta accettabile. Forse, per tale motivo, avrei ricevuto una quantità ancor più grande di sarcasmo e prediche morali.
               C’era inoltre il pericolo che gli impiegati della libreria scoprissero che ero musulmano, nel qual caso mi sarebbe toccata in sorte la cacciata teatrale dal negozio, per dimostrare a tutti quanti - specialmente alle forze di sicurezza - che lì non si ammetteva la vendita di Bibbie ai figli dei musulmani, ritenuta da alcuni un’attività missionaria che avrebbe potuto avere come risultato la chiusura della libreria.
               Nessuno si voltò verso di me, mentre stazionavo di fronte allo scaffale pieno di edizioni e traduzioni diverse della Bibbia. Scelsi quella della casa editrice Dar al-Mashreq, edita la prima volta nel 1881 e messa a punto sotto la supervisione dello shaykh Ibrahim al-Yaziji, grande letterato arabo. Pagai il prezzo del libro con i pochissimi soldi che avevo, poi uscii, quasi volando dalla felicità. Non riuscii a smettere di leggere e sebbene non ne capissi molto, perché il libro era scritto nella lingua del XIX secolo, provavo una felicità infantile.
               Leggevo tutto il tempo, persino nell’intervallo tra le lezioni, quando mi sorprese uno dei miei compagni di scuola cristiani che mi strappò il libro dalle mani con violenza. Mi disse arrabbiato:«Perché leggi il nostro libro?». Gli risposi: «Questo è il mio libro, l’ho pagato io!» . Poi, tentai di riprenderlo, ma lui mi spinse a terra. Subito la classe si divise in musulmani e cristiani e scoppiò una battaglia. Andò a finire che fui accusato, con il mio collega cristiano, di provocare il conflitto religioso.
               Il direttore della scuola, sentiti i dettagli di quanto era successo, ordinò allo studente cristiano di tornare in classe, poi, dopo che questi se ne fu andato, mi disse: «Disgraziato! Perché leggi i libri di quei miscredenti?». Dopodiché, mi sospese dalle lezioni per una settimana per aver letto la Bibbia.
               Il mio collega cristiano faceva parte di un’associazione ecclesiastica, nella cui rivista lessi, vent’anni dopo, l’articolo di un prete che consigliava ai cristiani che avessero ricevuto una trasfusione di sangue, in seguito a un incidente, di ripetere il battesimo, poiché quel sangue poteva essere appartenuto a un musulmano. Per quanto riguarda invece l’accusa di miscredenza e di falsificazione della Bibbia rivolta ai cristiani, essa si è trasferita dalle stanze chiuse ai microfoni delle moschee, controllati dagli estremisti.
               Racconto questa storia personale, perché ho capito oggi, dopo anni di lavoro e di studio, che l’inibizione della curiosità, nell’educazione islamica come in quella cristiana, è una delle fonti della crisi che viviamo attualmente. La curiosità non conduce la persona alla scoperta di una religione nuova, ma piuttosto alla scoperta della sua relazione unica e personale con Dio e con gli altri. La privazione della curiosità, d’altro canto, trasforma la religione in ideologia e i credenti in membri di partito, riducendo la pratica della religione a simbolo di appartenenza partitica o a strumento per differenziarsi dagli altri.
               Chi visita il Cairo oggi, cammina in una foresta di simboli religiosi: il hijab [velo che lascia scoperto il viso intero, N.d.T.] e il niqab [velo che lascia scoperti solo gli occhi, N.d.T.], la barba, il segno scuro sulla fronte dovuto alle frequenti preghiere, le croci tatuate sul dorso della mano e quelle grandi appese al collo, le frasi di tipo religioso utilizzate in ogni conversazione, le scritte sulle auto e sui negozi con i versetti del Corano e della Bibbia, i giovani che leggono ad alta voce il Corano o la Bibbia sui mezzi pubblici, le immagini e le suonerie dei telefoni cellulari… Purtroppo, tutto questo non è altro che un rivestimento esterno, al di sotto del quale si nasconde la povertà di spirito.
(Traduzione dall’arabo di Elisa Ferrero)
Wael Farouq
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