Vincere se stessi, anche nel piccolo; percepire la propria corporeità, rende l'uomo maggiormente abile al dominio dei sensi e della carne, in particolare; lo predispone alla pratica del digiuno e gli insegna, inoltre, ad andare sempre più in là del limite imposto dal principio di inerzia di una società immobile, spiritualmente, ma anche fisicamente...
del 09 gennaio 2008
Leggere le impressionanti imprese sportive di Dean Karnazes, ultramaratoneta americano, in grado di percorrere 563 chilometri in 80 ore e 44 minuti e di vincere la «Ultramarathon» nella Death Valley, la corsa più dura del mondo, 216 chilometri a 48 gradi di temperatura (in 27 ore e 22 minuti), e, di recente, capace di portare a termine, negli USA, ben 50 maratone (una per Stato) in 50 giorni, terminando la carrellata con la prestigiosa corsa cittadina di New York in 3 ore e 30 secondi (invidiabile tempo, per un «amatore», si intende), fa sorgere in me spontaneamente riflessioni che mi portano a considerare la cosa da un più ampio punto di vista.
Lo sport estremo, di per sé, credo sia oggettivamente un’aberrazione contro natura: sfidare la vita per provare l’ebbrezza di una fallace onnipotenza (quante volte la cronaca ci ha informati su «incidenti» mortali in merito) può illudere la gratificazione di un «ego» malato, ma deve arrendersi irrimediabilmente e senza appello di fronte al verificarsi di una forza maggiore poi non così infrequente.
Nel caso del corridore statunitense non penso si debba parlare di sport estremo, proprio perché oggettivamente privo di quel rischio che possa, invece, incombere allorché si tenti di «sfidare la natura», senza la dovuta ponderazione di fattori di per sè indeterminabili, oltremodo superiori alla prevedibilità dell’umano sapere ed alla bravura di una perfetta esecuzione tecnica (come nel caso di sci alpino estremo, voli senza paracadute, parapendio, salti nel vuoto appesi ad un filo, ecc.); il correre di Karnazes rientra forse nella fattispecie delle megalomani esagerazioni di un self-made-man che non rinuncia alla fuga da un’implacabile routine cittadina, ma che, tuttavia, è frutto di sforzo e fatica non dipendenti che da se stessi (e dal proprio allenamento, si intende).
 
La corsa - questo sa bene chi la pratica - non regala mai nulla; impietosamente sadico evidenziatore del limite umano, anche per questo molto utile allo sviluppo della percezione del proprio margine corporale e fisico e, quindi, esistenziale.
Purché non sia idolatrata (ed il rischio incombe spesso nei praticanti agonisti, letteralmente innamorati di quanto si riceva, calcando le strade o i boschi), la corsa è uno strumento eccezionale a disposizione dell’ascesi cristiana.
Sembrerà forse uno sproloquio, tuttavia possiamo argomentare l’affermazione.
E’ chiaro, soltanto chi ha provato, sa che è effettivamente così.
Perché la corsa può essere tanto utile?
Perché è capace di rinvigorire la volontà ed insegna a percepire la propria corporeità.
Non c’è niente di più importante nella vita spirituale (insieme ad una corretta formazione nella verità) della perseveranza.
Gesù ne parla tantissime volte, subordinando anche l’esaudire delle preghiere all’insistenza della richiesta.
Cercate e troverete, chiedete e vi sarà dato, bussate e vi sarà aperto.
In realtà, nella vita dello spirito, cosa può offrire l’uomo a Dio, se non se stesso e la propria perseverante, ripetuta consegna del suo volere?
Tanto è così che amare è volere; l’amore è il più alto e più nobile dei sentimenti, ma non può essere definito semplicemente un «sentimento»; amare è dare se stesso e fare di tutto per il bene dell’altro. Quindi è principalmente ed inevitabilmente «volere il bene altrui».
Chi ama, muove tutto il proprio essere alla soddisfazione del bene del prossimo.
Non entro in dettagli, ma è evidente come il bene vero ed ultimo dell’altro (chiunque sia) è la vita eterna; quindi ama davvero, chi «dona» la vita eterna.
 
Tutto questo discorso non può evidentemente prescindere dall’operare della grazia di Dio, che previene, accompagna e porta a termine quello che l’uomo, liberamente, decide di volere e fare, ma si pone nella sola prospettiva umana; quella dell’ascesi.
Per pregare bene (e la preghiera, lo sappiamo, è la linfa vitale dello spirito), occorre continuità, che si manifesta quotidianamente in precisi ed immancabili momenti di sacro e ripetutamente nel rinnovare la sacralità di quel momento eterno. Del resto, senza fatica, non si entra nel regno dei cieli; Gesù ci avvisa: solo chi si sforza.
E torniamo dunque al principio.
Correre può essere (non necessariamente «è»: si dice che la corsa o si ami o si odi, tertium non datur) un valido ausilio non soltanto alla salute del corpo (1), ma anche a quella dello spirito, a patto che sia sempre e soltanto utilizzato come strumento dal quale trarre solo un uso legittimo e da cui poter sempre prescindere.
Chi si dedica alla corsa sa che può diventare una specie di «droga», un imprescindibile del quotidiano, un esasperato bisogno di scarico ad effetto endorfinico, ma deve, proprio per questo, tener presente che la tentazione del nemico (a seguire la quale ogni beneficio spirituale va a «farsi friggere») sia, come spesso succede, quella di confondere il mezzo con il fine.
Celebre il proverbio africano del leone e della gazzella con cui si sottolinea la necessità, per sopravvivere, di dover comunque iniziare a correre.
Invero non costa quasi nulla, non porta via molto tempo (dipende poi dagli obiettivi, ma una seduta che vada dai trenta minuti ad un’ora al giorno, per tre/quattro volte a settimana è già molto utile per i fini che ci siamo prefissati) e consente di sperimentare l’incanto di essere ridotti alla miseria di una povertà inaspettata; chi corre sa che deve sviluppare un buon rapporto con la fatica, altrimenti resta al palo.
 
Vincere se stessi, anche nel piccolo; percepire (come dicevo) la propria corporeità, rende l’uomo maggiormente abile al dominio dei sensi e della carne, in particolare; lo predispone alla pratica del digiuno (utilissimo strumento di purificazione interiore e fisica) e gli insegna, inoltre, ad andare sempre più in là del limite imposto dal principio di inerzia di una società immobile, spiritualmente, ma anche fisicamente (2), incapace di percepire la bellezza estrema di un sacrificio totalizzante, che non risparmia neppure il corpo, ma che segue inevitabilmente alla consegna dell’anima.
 
Note
1) Vi sono innumerevoli studi che ne dimostrano l’efficacia preventiva soprattutto in relazione a malattie legate al malfunzionamento del sistema cardiovascolare: quindi infarti, colesterolo alto, ipertensione, diabete,ecc.
2) Normalmente si preferisce l’ascensore alle scale; l’automobile alla passeggiate, ecc.
 
 
Fonte: www.effedieffe.it 
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Stefano Maria Chiari
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