Fatti per le cose grandi, parola di Giacomino

Siamo tutti chiamati per qualcosa di importante. Quando si diventa papà, si vedono la vita e la propria storia in modo diverso. Si guarda l'infanzia con uno sguardo nuovo, si ritorna bambini, con una consapevolezza più profonda, quella dell'adulto.

Fatti per le cose grandi, parola di Giacomino

 

          Siamo tutti chiamati per qualcosa di importante. Quando si diventa papà, si vedono la vita e la propria storia in modo diverso. Si guarda l’infanzia con uno sguardo nuovo, si ritorna bambini, con una consapevolezza più profonda, quella dell’adulto.

          Il noto comico Giacomo Poretti (1956), «il 33,33 per cento del popolare trio di Aldo, Giovanni e Giacomo», noti a tutti per I corti, Tre uomini e una gamba, Chiedimi se sono felice, Tu la conosci Claudia?, è diventato padre qualche anno fa. Forse, proprio per questo, ha sentito l’esigenza di risalire alle proprie origini, alla propria terra, alla sua infanzia. Ha voluto ricostruire la propria storia leggendola attraverso la trama degli incontri e, in particolare, di quell’incontro «che si è fatto famiglia», come scrive l’autore nella dedica del libro alla moglie Daniela e al figlio Emanuele.

          Se non c’è un poeta che decide di raccontare la tua storia, tocca a te raccontarla, annota in prefazione, perché non si dimentichi. Nella sua storia c’è la storia di tutti gli uomini, che vivono cercando la strada, la vocazione e il destino. «Perché il cuore dell’uomo è simile ad ogni latitudine, si commuove allo stesso modo al Nord come al Sud, si angoscia al mare e in montagna, anela all’immenso in cirillico come in francese, è fatto per l’eternità ovunque nasca, anche a Villa Cortese».

          In questo paese, situato nell’alto milanese, Giacomo Poretti trascorre la sua infanzia. È la storia di un bimbo che è sempre stato piccolo, più basso degli altri, che allo stadio non riusciva a vedere la partita e doveva stare sulle spalle del papà, che, a sua volta, non vedeva la partita e si faceva raccontare dal figlio le azioni di gioco e che a vent’anni parte per il militare, perché hanno valutato la sua altezza di 158 cm, quando l’anno prima era di 157 cm. «Dalla terza media fino ai 20 anni, calma piatta, e poi, improvvisamente, il corpo ha un sussulto e si innalza di dieci millimetri?!». Forse il suo corpo «si era pentito, si sentiva in colpa?». «Con un colpo di reni» gli regalava «il servizio militare e l’orgoglio di mamma e papà».

          Ironia e comicità accompagnano il racconto, condotto con la consapevolezza che la vita ha un senso, un fine. Ogni uomo ha nel cuore l’impressione di essere chiamato a qualcosa di importante. Ogni uomo ha nel cuore la domanda sul proprio destino. Ciascuno cerca il talento, che è la strada per il compimento di sé, è quanto Dio ci ha donato per compierci. «Il problema era se Dio aveva regalato anche» a lui «dei talenti, e se sì, dove erano nascosti. […] Forse Dio si era scordato» di lui. La sua storia individuale si congiunge alla storia corale, alle vicende del paese, ai luoghi come «scuole, oratori, bar, officine, campi e garage» che caratterizzavano la sua vita, come quella di tanti altri che vivevano nei decenni degli anni Sessanta e Settanta.

          Un mondo che sta tramontando, un mondo profondamente diverso da quello attuale, più povero, ma pur sempre ricco di rapporti, di «orizzontalità», come l’attore ama definire la trama di legami del paese di campagna, dove tutti si conoscono e per vedere un amico non è obbligatorio prendere un appuntamento sull’agenda, come accade invece nelle metropoli, come accade a Milano dove ben presto Poretti si trasferirà. Villa Cortese è stata un po’ la sua Ur, la sua vicenda è come la vicenda di Abramo. Ogni vicenda umana nasconde la storia di Abramo.

          «Dicono» scrive ancora l’attore «che tutti noi, a un certo punto della vita, sentiamo una voce dentro che ci spinge via da dove siamo nati; per qualcuno, o forse per tutti, la voce ha grandi progetti, il problema è capire quello che la voce ti dice». Anche Giacomo Poretti cerca «confusamente qualcosa a Milano». Una sera Giacomo finisce in un locale «dove la birra costava poco e nel prezzo era compreso uno spettacolo di cabaret». Qui avviene uno degli incontri che per lui sono stati fondamentali per la sua carriera lavorativa… Assieme ad altri incontri, con la donna che sarebbe divenuta sua moglie e madre del figlio, e con i preti.

          Così l’attore scrive nella lettera indirizzata all’Arcivescovo di Milano, «il sindaco delle anime»: «Tra me e Milano è stato un amore a prima vista. Con i preti, invece, ci ho messo un po’ di più».

          Nella stessa lettera Giacomo racconta come ha incontrato la fede: «Quando siamo arrivati a casa (dallo stadio), il papà ha detto alla mamma: “Oggi, a Milano, questo bambino ha scoperto la fede! (nell’Inter!)”. Poi sentivo a tavola che i miei genitori dicevano che la fede andava coltivata e, per far questo, mia madre mi mandava in chiesa e all’oratorio del paese: il mio papà, invece, mi portava a vedere l’Inter a San Siro».

          Nella trama di questi incontri diventa sempre più chiara la consapevolezza che c’è un destino buono, quella consapevolezza che nel bimbo Giacomino era solo una percezione proveniente dallo sguardo della mamma: «La mamma era così felice che io piangessi che si sciolse in lacrime anche lei, e così ho pensato che forse quella cosa lì, la vita, non doveva essere poi così male».

 

 

Giovanni Fighera

 

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