Nella visione cristiana la comunità degli uomini non è la semplice somma delle solitudini, reciprocamente indifferenti. L'altro non è lo “straniero morale” e la socialità non è un arcipelago. Ma perché questo sia occorre non solo garantire i diritti di ogni persona ma anche la capacità di reciproca accoglienza e dono...
del 26 novembre 2008
Nell’ambito delle “Quaestiones Quodlibetales”, frutto della collaborazione fra l’Arcidiocesi di Chieti – Vasto e l’Università Gabriele D’Annunzio, giunte ormai al quarto anno, dialogherò Venerdì prossimo 28 Novembre con Raffaele Bonanni, Segretario Generale della CISL, nativo del nostro Abruzzo, su “Fede cristiana e giustizia sociale”. Per dare un’idea dei valori in gioco nel nostro dialogo, valori centrati intorno alla concezione della dignità assoluta e irripetibile di ogni persona umana, vorrei riferirmi a due temi decisivi per la costruzione del futuro che ci aspetta, in Italia come nell’intero “villaggio globale”: il potere e la socialità.
Desmond Tutu, vescovo anglicano e premio Nobel per la pace per il suo impegno contro l’apartheid in Sudafrica, scrive così a proposito del potere in un suo libro particolarmente significativo (Anche Dio ha un sogno. Una speranza per il nostro tempo. L’Ancora del Mediterraneo, Napoli 2004): “Gesù cercò di diffondere un nuovo paradigma del potere: potere e forza non sono finalizzati al conseguimento del proprio tornaconto personale, non sono strumenti di dominio, non devono servire ad accrescere la nostra autorità, in spregio a qualsiasi legge o convenzione... Il vero potere lo si scopre donando la propria vita, servendo il più debole, il più indifeso” (103). Applicando questo criterio alla scena politica delle nostre democrazie, Tutu aggiunge: “I veri leader devono prima o poi convincere i loro seguaci che non si sono buttati nella mischia per interesse personale ma per amore degli altri. Niente può testimoniarlo in modo più convincente della sofferenza” (105s). La verifica sul campo di casa nostra potrebbe risultare impietosa: provo allora a richiamare un modello, all’apparenza lontano, che possa aiutare a comprendere che cosa vuol dire ispirazione evangelica nell’esercizio della responsabilità per gli altri. Ero in Bangladesh qualche anno fa ed avevo appena terminato un corso ai missionari che operano in quel paese nelle situazioni di povertà più grande. Mi portarono a visitare il lebbrosario gestito da un gruppo di Suore italiane: conservo ancora gelosamente i tre fiori di carta che mi furono regalati da loro ed il foglietto con cui avevano accompagnato il dono. Ecco che cosa vi è scritto: “Caro don Bruno, gradisca questo piccolo omaggio dai nostri fratelli lebbrosi: è il primo successo di un nostro ammalato che da mesi è martoriato dal dolore provocato dalle continue reazioni. Questi tre fiori sono il segno del Cristo povero e sofferente che annuncia sempre speranza. Ci ricordi nella sua preghiera e li ricordi, affinché la speranza possa nascere e rimanere sempre in loro come forza di guarigione e a noi che li serviamo non manchi mai la capacità di amarli tanto e sempre, oltre ogni misura di stanchezza”. L’ispirazione cristiana, alimento della scelta di vita di queste donne, produce frutti come questi, dove tutto quello che si è e si possiede è messo al servizio dei più deboli e poveri della terra. Ricordarsene, specie da parte di chi si impegna in politica, non può che aiutare il bene di tutti.
L’altro tema, connesso all’idea del potere, è quello della socialità: nella visione cristiana la comunità degli uomini non è la semplice somma delle solitudini, reciprocamente indifferenti. L’altro non è lo “straniero morale” e la socialità non è un arcipelago. Ma perché questo sia occorre non solo garantire i diritti di ogni persona – e qui il cristianesimo è stato fonte di ispirazione decisiva – ma anche la capacità di reciproca accoglienza e dono, senza cui nessuna crescita in umanità può realizzarsi. È ancora Desmond Tutu a scrivere: “La nostra maturità sarà giudicata dalla capacità di continuare ad amare, a prescindere dal fatto che siamo d’accordo o meno, a prenderci cura l’uno dell’altro e a perseguire sempre il maggior bene altrui” (31). È peraltro una lettura lucida della realtà del mondo che richiede questa scelta di vita: “Ogni 3,6 secondi qualcuno muore di fame, e in tre casi su quattro si tratta di bambini al di sotto dei cinque anni. Se comprendessimo di essere una sola famiglia, non consentiremmo che a nostro fratello o a nostra sorella accadesse una cosa del genere” (32). Il cristianesimo ci dice che questo amore, che spesso appare impossibile, può diventare reale: sorgente e modello di esso è il Dio con noi: “Dio ci ama – scrive ancora Tutu - per come siamo. Non ci ama perché siamo buoni. Ci ama e basta. E non perché siamo amabili. Al contrario, siamo amabili proprio perché Dio ci ama” (37). Anche questo significa l’ispirazione cristiana nell’impegno sociale e politico: non tanto declamare valori, quanto viverli con dedizione e umiltà. Protagonisti della nascita dell’Europa unita, cristiani convinti quali De Gasperi, Schuman e Adenauer, hanno dimostrato con i fatti che non di utopia si tratta, ma di un vero e proprio stile di vita e di un impegno politico, dei cui frutti tutti beneficiamo ancora. Non dimenticarsene, al di là della menzione mancata nella costituzione europea, è bene prezioso per il presente e il futuro di tutti.
 
Fonte: Il Centro
 
mons. Bruno Forte
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