L'analisi del fenomeno della FEDELT√Ä come si presenta nella vita umana porta Gabriel Marcel a scoprirvi radicata l'esigenza di assoluto, che sta a fondamento di questo valore. Umanamente parlando non si può chiedere né fedeltà, né amore.Va anzitutto precisata la differenza essenziale che distingue obbedienza e fedeltà; l'abuso che si fa del verbo servire rischia infatti di annullarla. Osserviamo anzitutto che il significato stesso della parola servire è ambiguo, e va segnalata la differenza di livello spirituale esistente fra «servire» e «servire a». [...] Vivere, nel senso pieno della parola, non significa esistere o sussistere, limitarsi a esistere o a sussistere, ma disporre di sé, darsi.
del 01 gennaio 2002
Mi sembra impossibile pensare alla decadenza spirituale di cui il nostro paese come gli altri è stato teatro da piú di mezzo secolo senza essere portato a rilevare il discredito sempre piú flagrante cui i valori di fedeltà sono stati fatti segno durante questo stesso periodo. È indispensabile, per chi oggi voglia procedere all’immenso lavoro di ricostruzione morale che ci attende, dedicarsi a ristabilire questi stessi valori nel posto che loro spetta: al centro cioè d’una vita umana non piú snaturata, alienata o prostituita, ma vissuta nella pienezza del suo significato. Infatti, l’etica che oggi comincia a delinearsi dappertutto, e soprattutto beninteso attraverso i movimenti giovanili, può essere soltanto un’etica della fedeltà.
Ma se si vogliono evitare pericolose semplificazioni, e confusioni nefaste, occorre sottoporre a un’analisi il piú possibile rigorosa i concetti d’obbedienza e di fedeltà (che con l’etica sono correlati) se non altro per prevenire l’abuso che potrebbero finire col farne tutti coloro che hanno interesse a sfruttare a loro vantaggio una buona volontà che va pian piano degenerando in una docilità sistematica e in una passività cieca della fede e della volontà.
Va anzitutto precisata la differenza essenziale che distingue obbedienza e fedeltà; l’abuso che si fa del verbo servire rischia infatti di annullarla.
Osserviamo anzitutto che il significato stesso della parola servire è ambiguo, e va segnalata la differenza di livello spirituale esistente fra servire e servire a. In presenza d’un arnese o d’una macchina la cui destinazione m’è ignota, chiederò: a che serve questo? Si tratta solo di strumenti di cui dispongono esseri dotati di volontà, persone che lavorano alla realizzazione di fini ben determinati. C’è perciò qualcosa di scandaloso nel chiedere ad un essere umano: a che servi? Appunto perché significherebbe paragonarlo ad una cosa. Notiamo del resto che una rappresentazione strumentalista dell’essere umano finisce per provocare inevitabilmente conseguenze gravissime, come la soppressione degli infermi e degli incurabili; non “servono piú a nulla”, dunque bisogna gettarli via: perché prendersi la briga di mantenere e alimentare macchine fuori uso?
Non ci sarebbe al contrario nulla d’offensivo se allo stesso individuo – se si ha una certa intimità con lui – si domandasse: che cosa servi? o chi servi? E se egli si offendesse per una simile domanda, dimostrerebbe di non capire il senso profondo della vita. È chiaro infatti che ogni vita è un servizio, il che non significa, beninteso, che si debba spenderla per un individuo determinato, ma soltanto che per sua natura deve essere consacrata a (a Dio, ovvero a un valore superiore come la conoscenza, o l’arte, ecc., ovvero a un fine sociale volutamente scelto). Servire, in questo secondo senso, significa mettersi al servizio di. E qui, l’accento va posto sulla particella si, sul pronome riflessivo. Vivere, nel senso pieno della parola, non significa esistere o sussistere, limitarsi a esistere o a sussistere, ma disporre di sé, darsi.
È purtroppo manifesto che spiriti malati o deformi hanno di fatto mirato a confondere questi due significati cosí nettamente distinti. Un’idea aberrante s’è imposta a masse sempre crescenti d’individui disseminati. L’idea secondo cui servire umilia colui che serve. La persona, vedendo sempre piú sé stessa nella veste di uno che ha da fare delle rivendicazioni, di un “io” assoluto, s’è cosí incaponita non soltanto nei suoi diritti, nelle sue prerogative, ma anche nei sentimenti d’invidia che le ispiravano i vantaggi di cui altri le sembravano godere indebitamente. “Perché lui, perché non io?”. Il risentimento, che indubbiamente ha sempre covato sotto un egualitarismo che certi odiosi psicologi si sono ben guardati per molto tempo dal mettere a nudo, ha cosí indotto innumerevoli coscienze a respingere la nozione d’una gerarchia qualsiasi e ad insorgere contro l’idea di dovere da parte loro servire qualcuno. È giusto soggiungere che coloro, capi o dirigenti, che hanno lasciato inaridire nel loro fondo il senso delle loro responsabilità, hanno contribuito, in proporzioni incredibili, a preparare questa crisi della nozione di servizio.
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L’ubbidienza è dunque nel bambino una virtú, il segno non soltanto d’un comportamento, ma anche d’una disposizione interiore che risponde alla sua condizione di bambino. Lo stesso non può evidentemente dirsi dell’adulto, se consideriamo l’insieme della sua esistenza; un adulto che si dimostrasse ubbidiente in tutto il suo modo d’essere, in tutti i suoi atti, sia quando si tratta della sua vita sessuale che della sua esistenza civica, sarebbe indegno del nome d’uomo: non si potrebbe considerarlo che come un essere degradato al quale si potrebbe applicare il termine di infantilismo. Ma è altrettanto chiaro che in alcune determinate sfere della sua esistenza anche l’adulto deve ubbidire.
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Dicendo che l’ubbidienza può e deve essere richiesta (sotto certe condizioni), che la fedeltà invece deve essere meritata, ci prepariamo a distinguere l’originalità di questa virtú ai nostri giorni cosí screditata, o cosí trascurata e ignorata.
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Io non ho tuttavia il diritto di legarmi in questo modo se non in casi rarissimi, in base a un’intuizione con la quale mi è dato di riconoscere che io devo e che io voglio mettermi a tua disposizione, e questo senza sminuirmi ai miei occhi, anzi onorandomi e come innalzandomi con questo stesso atto. Non si può dunque vendere, o svilire la fedeltà e il giuramento. Forse va detto che di fatto la fedeltà non può mai essere assoluta, tranne quando si tratti della Fede, ma va aggiunto che essa aspira a divenire assoluta, come se il mio giuramento comportasse questa preghiera: “Voglia il cielo che io non sia indotto in tentazione, cioè che i fatti non mi spingano a credermi autorizzato a denunciare il mio impegno, col pretesto che le condizioni sulle quali si basa si sono trasformate in un modo che non potevo prevedere quando l’ho assunto”. Forse non posso andare al di là di questa preghiera senza presumere troppo dalle mie forze; inoltre occorre ch’essa sia realmente sincera e che mantenga in me la volontà di lottare contro questa tentazione, se mai si presentasse.
Generalmente è vero che la tempra d’un essere si riconosce e si prova dalla fedeltà di cui è capace; ma occorre aggiungere che esistono probabilmente fedeltà nascoste, invisibili, e che nessuno è autorizzato ad affermare che un altro sia totalmente infedele. Del resto, umanamente parlando, non si può esigere la fedeltà, come non si può esigere l’amore o la vita. Io non posso esigere da un altro che mi risponda, non posso nemmeno esigere ragionevolmente ch’egli mi ascolti, e mi è sempre lecito pensare che, se non mi risponde, ciò significa che non mi ha ascoltato. Le prescrizioni in una simile sfera non possono andare al di là del come se, e riguardano solo il comportamento. Io ti ordino di comportarti con me come se tu m’avessi giurato fedeltà. Ma si vede la fragilità d’una simile finzione. La fedeltà, come la stessa libertà, trascende infinitamente i limiti del perscrutabile proprio perché è creatrice. Creatrice, quand’è autentica, la fedeltà lo e sempre in sostanza, perché possiede il misterioso potere di rinnovare non soltanto colui che la esercita, ma anche il suo oggetto, per quanto indegno di lei questo abbia inizialmente potuto essere, come se la fedeltà avesse la probabilità – e in questo non c’è proprio nulla di fatale – di renderlo alla lunga permeabile al soffio che pervade l’anima inferiormente consacrata. In forza di ciò la fedeltà rivela la sua vera natura che consiste nell’essere una testimonianza, un’attestazione; in forza di ciò anche un’etica che ne faccia il proprio fulcro è portata ad aggrapparsi a qualcosa di sovrumano, a quella volontà che in noi è l’esigenza e il segno stesso dell’Assoluto.
G. Marcel, Homo viator, Borla, Torino, 1967, pagg. 147-156
Gabriel Marcel
Scrittore e filosofo francese (Parigi 1889-1973). Si laureò a Parigi nel 1907 e quindi insegnò a Vendôme, Sens, Parigi e Montpellier. È stato considerato il maggior esponente del contemporaneo 'esistenzialismo cristiano', che tenta di conciliare lo spiritualismo personalistico cristiano con le esigenze della moderna filosofia dell'esistenza.
L'ispirazione esistenzialistico-religiosa di Marcel si concentra sul problema del rapporto fra l'uomo e Dio, che egli rifiuta di considerare come qualcosa di oggettivamente e razionalmente determinabile; tanto l'essere dell'uomo quanto l'essere di Dio si presentano come un mistero, che supera e trascende qualunque problematicizzazione; l'esistenza umana appare a se stessa come dante sé a se stessa, in quanto è a sé presente, e cosciente di sé; ma al contempo appare come data a se stessa da altro, si avverte in quanto è da altro e per altro. Perciò l'esistenza non è un problema, ma essenzialmente un dono; il che apre le porte alla dimensione religiosa, e apre l'uomo al mondo nella dimensione dell'essere, che è mistero insondabile, ma coglibile solo nei due atteggiamenti fondamentali dell'amore e della fedeltà, che costituiscono e fondano la soggettività dell'uomo e il suo rapporto con gli altri e con Dio. Al mistero dell'essere Marcel contrappone la dimensione dell'avere, propria dell'uomo limitato alle funzioni sociali, tecniche e produttive, e chiuso al mistero.
Redazione GxG
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