Messaggio del Rettor Maggiore - Settembre 2023
Riscoprire il grande valore della vicinanza, dell’amicizia, della gioia semplice nella vita di tutti i giorni, il valore della condivisione, del parlare e del comunicare.
Scrivo queste righe, cari amici di don Bosco e del suo prezioso carisma, guardando la bozza del Bollettino Salesiano del mese di settembre. Il mio saluto è l’ultima cosa che viene inserita: sono l’ultimo a scrivere, in funzione del contenuto del mese. Proprio come faceva don Bosco.
In questo mese, in occasione dell’inizio dell’anno accademico nelle scuole, negli oratori, mi fa piacere vedere che i messaggi hanno un sapore così missionario (e per questo si parla di Filippine e Papua Nuova Guinea), e anche la semplicità di una “missione salesiana” con il sapore locale della casa di Saluzzo.
La lettura del bollettino mi fa apprezzare qualcosa che è molto nostro, molto salesiano, e che sono certo fa piacere a tanti di voi: mi riferisco al grande valore della vicinanza, dell’amicizia, della gioia semplice nella vita di tutti i giorni, il valore della condivisione, del parlare e del comunicare. Il grande dono di avere amici, di sapere che non si è soli. Il sentirsi amati da tante brave persone nella nostra vita.
E pensando a tutto questo, mi è venuta in mente una testimonianza sincera e molto onesta di una giovane donna che ha scritto a padre Luigi Maria Epicoco e che lui ha pubblicato nel suo libro La luce in fondo. È una testimonianza che vorrei farvi conoscere perché la considero l’antitesi di ciò che cerchiamo di costruire ogni giorno in ogni casa salesiana. Questa giovane donna sente, in un certo senso, che non c’è successo o realizzazione se manca il più umano degli incontri, delle belle relazioni umane, e questo anno scolastico che stiamo iniziando ci riporta a tutto questo.
Questa giovane donna scrive di sé: «Caro Padre, ti scrivo perché vorrei che tu mi aiutassi a capire se la nostalgia che provo in questi mesi dice che sono strana o che è cambiato qualcosa di importante per me. Ti sarà utile forse che ti racconti un po’ di me. Ho deciso di andare via da casa che avevo appena diciott’anni. Era un modo per evadere da un ambiente che mi sembrava così stretto, così soffocante per i miei sogni. E così sono arrivata a Milano in cerca di lavoro. La mia famiglia non poteva mantenermi agli studi. Anche per questo ero arrabbiata con loro. Tutte le mie amiche erano prese dalla foga di scegliere una facoltà. Io non avevo nessuna scelta perché nessuno mi avrebbe potuto mantenere. Ho cercato un lavoro per vivere e ho sognato per anni la possibilità di studiare. Ci sono riuscita e con immensi sacrifici mi sono laureata. Il giorno della mia laurea non volli che la mia famiglia partecipasse. Pensavo che dei contadini con la sola scuola media non avrebbero capito un bel nulla dei miei studi. Comunicai solo a mia madre che era andato tutto bene, e sentii le sue lacrime che per un istante mi svegliarono a un senso di colpa che non avevo mai provato. Ma fu questione di poco. Io mi sono realizzata con le mie sole forze e non ho mai potuto e voluto fare affidamento su nessuno. Anche al lavoro ho fatto carriera perché ho scelto di allearmi con me stessa.
Ho passato anni così. E non capisco perché solo adesso, nel cuore del lockdown di questa pandemia, mi è scoppiata dentro una nostalgia della mia famiglia. Sogno di raccontare loro tutto quello che non gli ho mai detto. Sogno di abbracciare mio padre. Di notte mi sveglio e mi domando se si può vivere una vita emancipandosi da alcune relazioni così significative. Anche le storie che ho avuto in questi anni, non ho mai permesso che varcassero il confine della vera intimità. Ma ora mi sembra tutto così diverso. Ora che non posso scegliere di uscire da casa, o andare da chi reputo importante, mi sono ridestata alla consapevolezza della grande menzogna dentro cui ho vissuto tutto questo tempo.
Chi siamo noi senza relazioni? Forse solo degli infelici in cerca di affermazioni. Ora ho capito che tutto quello che ho fatto, in realtà, l’ho fatto perché speravo che qualcuno mi dicesse chi ero davvero. Ma gli unici che potevano aiutarmi a rispondere a questa domanda li ho tagliati fuori chiudendo le relazioni. E ora loro rischiano la vita, a centinaia di chilometri da me. Se dovessi morire vorrei essere con loro e non con i miei successi».
Una gioia condivisa
Apprezzo l’onestà e il coraggio di questa giovane donna che mi ha fatto riflettere molto sulla nostra realtà odierna. Mi ha fatto riflettere sullo stile di vita che si sta vivendo in tante famiglie in cui l’importante è avere dei buoni risultati, raggiungere una buona situazione economica, riempire le nostre giornate di cose da fare in modo che tutto sia redditizio, ecc. ma paghiamo prezzi molto alti per vivere sempre, e sempre di più, non fuori casa ma fuori da noi stessi. C’è il pericolo di vivere senza centro, cioè “fuori centro”. E credetemi, cari amici, non potete immaginare quanto questo si noti soprattutto nei ragazzi e nelle ragazze delle nostre case, dei nostri cortili e dei nostri oratori.
Il secondo successore di don Bosco, don Paolo Albera ricorda: «Don Bosco educava amando, attirando, conquistando e trasformando. Ci avvolgeva tutti e interamente quasi in un’atmosfera di contentezza e di felicità, da cui erano bandite pene, tristezze, malinconie… Ascoltava i ragazzi colla maggior attenzione come se le cose da loro esposte fossero tutte molto importanti».
Il primo piacere della vita è essere felici insieme: «Una gioia condivisa è doppia». La parola d’ordine dell’educatore è «Io sto bene con voi». Una presenza che è intensità di vita.
Racconta un biografo di don Bosco, don Ceria, che un alto prelato dopo una visita a Valdocco dichiarò: «Voi avete una gran fortuna in casa vostra, che nessun altro ha in Torino e che neppure hanno altre comunità religiose. Avete una camera, nella quale chiunque entri pieno di afflizione, se ne esce raggiante di gioia». Don Lemoyne annotò a matita: «E mille di noi han fatto la prova».
Un giorno don Bosco disse: «Fra noi i giovani adesso sembrano altrettanti figli di famiglia, tutti padroncini di casa; fanno propri gl’interessi della Congregazione. Dicono la nostra chiesa, il nostro collegio qualunque cosa riguardi i Salesiani, la chiamano nostra».
Ecco perché questo nuovo anno è un’occasione per prendersi cura e per prendersi cura di noi stessi in ciò che è più essenziale e più importante. Per la nostra famiglia.
Tratto da: Bollettino Salesiano
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