Funerale Casamonica risponde l'Ispettore dei Salesiani

Credo convenga tenere distinti gli ambiti civile-sociale ed ecclesiale-religioso...

Funerale Casamonica risponde l’Ispettore dei Salesiani

 

Il funerale dei Casamonica, celebrato a Roma lo scorso 20 agosto, continua ad occupare ampio spazio su quotidiani, trasmissioni televisive, social network e sulla vicenda, ormai nota, si intrecciano accuse, indignazione, sospetti, valutazioni che chiamano in causa casi giudiziari, criminalità, mafia e presunte responsabilità politiche.

Le domande restano molte e vanno in diverse direzioni. Innanzitutto ci si chiede se davvero tutti coloro che hanno manifestato indignazione erano a conoscenza, al 20 agosto, di chi fosse Vittorio Casamonica, prima di leggerlo su un quotidiano il giorno dopo o ascoltarlo in tv. Va sottolineato, peraltro, che diversi mezzi di informazione hanno continuato a definire i Casamonica come “Rom” quando invece sono di origine Sinti. Dettaglio non secondario per comprendere quali sono le radici culturali della loro etnia.

In secondo luogo, quanto c’entra la vicenda ‘mafia capitale’ in questa storia? Quanta influenza ha il contesto politico attuale di Roma, dove da mesi e da più parti, si invocano le dimissioni del sindaco Marino e della sua giunta, contestati anche in questa occasione insieme al ministro Alfano.

 

E il parroco del Don Bosco è da considerare un losco fiancheggiatore della mala romana oppure un’ignara vittima di una vicenda riportata con troppa enfasi dai media?

Lo chiediamo a Don Leonardo Mancini, salesiano e Ispettore della Circoscrizione salesiana Italia Centrale. Per chiarirci, tra i salesiani è il superiore più alto “in grado” dopo il Rettor maggiore. In Italia gli ispettori sono in tutto 6. La Parrocchia romana del Don Bosco, fa parte delle opere salesiane di cui lui è guida e responsabile.

Lo raggiungiamo mentre è a Genova per uno dei suoi incontri con le comunità locali. Un incarico che lo tiene impegnato 8 mesi all’anno su e giù per l’Italia dividendosi tra l’attività pastorale e quella che in sostanza è la stessa di un amministratore delegato.

Cinquantenne, romano, cresciuto nella parrocchia salesiana di S. Maria della Speranza, al Nuovo Salario, dal 2000 al 2006 è stato direttore dell’Istituto Pio XI, al Tuscolano, una realtà a pochissima distanza dal Don Bosco eppure completamente diversa. Del contesto romano conosce tanti dettagli e sfumature, come la maggior parte di coloro che a Roma sono nati e cresciuti.

 

Don Leonardo, cosa fa un ispettore salesiano esattamente? E quanto è grande l’ispettoria di cui lei è responsabile?

«Un ispettore salesiano ha il compito di animare e governare una provincia religiosa salesiana, ovvero un insieme di opere che sono guidate da comunità salesiane o da laici, in un determinato territorio. Nel nostro caso l’ispettoria dell’Italia centrale comprende 7 regioni: Lazio, Liguria, Toscana, Umbria, Marche, Abruzzo, Sardegna. Si tratta di animare e governare gli aspetti pastorali, educativi e anche gestionali. Il lavoro riguarda le impostazioni, le scelte, l’indirizzo da dare alle diverse opere e riguarda anche l’organizzazione dei confratelli, secondo le necessità.»

 

Di che dimensioni parliamo?

«In questo momento nel centro Italia i salesiani hanno 44 opere, delle quali 42 sono guidate da una comunità religiosa e 2 da laici. Dal punto di vista dei numeri sono centinaia di migliaia di cittadini, giovani e adulti, verso i quali siamo impegnati, con un totale di circa 400 salesiani, ai quali si aggiungono tutti i laici corresponsabili che hanno ruoli educativo-pastorali o gestionali nelle diverse opere.»

 

Qual è il vostro focus specifico e che tipo di lavoro svolgete dal punto di vista sociale?

«Dire salesiani significa, o dovrebbe significare, dire soprattutto ‘giovani’. Attenzione a tutti i giovani e, come diceva Don Bosco, in particolare quelli più poveri. Per povertà intendiamo non solo quella materiale, ma anche la povertà culturale, povertà religiosa, povertà di obiettivi. Insieme all’attenzione per i giovani c’è quella per i poveri, è per questo che in genere le nostre parrocchie sono collocate nelle zone più popolari delle città. Anche se può capitare che le città evolvano e zone inizialmente popolari si trasformino in zone centrali, come è capitato in molte nostre città. Ma le esigenze educative e pastorali restano comunque anche in questi casi.»

 

Don Mancini i salesiani sono presenti in modo capillare in tutto il mondo. Alcuni vi considerano come una delle congregazioni più potenti. Insomma siete un impero…

«Non so cosa si vuole intendere per ‘potenti’. I salesiani sono presenti attualmente in 132 nazioni del mondo. Siamo conosciuti in quanto impegnati nell’educazione, perché il nostro modo di portare il vangelo nel mondo passa attraverso una proposta educativa di crescita integrale, seguendo il sistema preventivo di Don Bosco che si riassume in 3 parole: ragione, religione e amorevolezza.

L’attività educativa movimenta e impegna delle risorse umane, strutturali ed economiche. E se le nostre opere risultano talvolta strutturalmente ampie e articolate, è perché la nostra offerta educativa richiede di mettere a disposizione dei ragazzi ambienti e strumenti adeguati per formarsi. Le risorse che abbiamo e che riusciamo a reperire vengono messe a disposizione dei giovani.

Se avete occasione di visitare una delle nostre case, potete verificare subito come gli ambienti di vita di noi confratelli sono in genere semplici, a differenza degli spazi dedicati ai giovani che invece cerchiamo ovunque di mantenere adeguati alle necessità formative.»

 

Lei che idea si è fatto di quanto è accaduto nella Parrocchia del Don Bosco nei giorni scorsi?

«L’evento è stato indubbiamente increscioso. Personalmente l’idea che mi sono fatto è che il tutto sia stato anche ingigantito e forse da qualche parte si è voluto strumentalizzarlo, non tanto contro la chiesa o i salesiani, ma piuttosto sull’onda di un clima generale romano di tensioni politiche.

Da parte della parrocchia mi sembra che ci sia stata una valutazione inadeguata della situazione, il tutto causato un po’ dal superlavoro (in quella parrocchia ci sono giorni in cui si celebrano 6-7 funerali), un po’ da un’insufficiente conoscenza del territorio, peraltro molto complesso e popoloso. Io sono certo che Don Giancarlo, uomo totalmente dedito al suo lavoro pastorale che io stimo e apprezzo,  effettivamente non sapesse chi era Vittorio Casamonica.

Però devo anche dire che un funerale che si celebra il 20 agosto, quando la metà dei confratelli è fuori  sede e, com’è accaduto in questo caso, la richiesta del funerale viene ricevuta da persone diverse dal parroco, configura una situazione ancora più particolare. Posso meravigliarmi che i collaboratori non lo abbiano avvisato o informato del contesto, ma non vedo nessuna forma di dolo in quello che è accaduto.»

 

Lei sapeva chi fossero i Casamonica prima dello scorso 20 agosto?

«Beh sì, è un nome che qualche volta ha occupato la cronaca romana. Sono a conoscenza del fatto che alcuni membri di quella famiglia hanno avuto problemi con la giustizia. In alcune nostre realtà educative di Roma, abbiamo incontrato in passato ragazzi con questo cognome.  Certo potevano essere considerati ragazzi difficili, ma trovo scorretto affermare che un cognome debba diventare automaticamente un marchio negativo. E certamente se li guardiamo con gli occhi di Don Bosco sono proprio i ragazzi difficili quelli a cui dare le nostre maggiori attenzioni educative.»

 

Questa informazione qualcuno l’aveva riferita al parroco del Don Bosco?

«Che io sappia no. Don Giancarlo Manieri è marchigiano e nelle Marche ha operato per molto tempo. Anche se già presente a Roma da qualche anno, prima di diventare parroco, non lavorava direttamente inserito nel territorio della città.»

Nel comunicato stampa che avete diffuso nei giorni scorsi sostenete la legittimità di celebrare il rito religioso dal momento che non esistevano ragioni ecclesiastiche per rifiutare. Però nel caso Welby il rifiuto c’è stato..

«Il caso Welby è un caso completamente diverso perché lì c’è stato un intervento preciso del Vicariato che, preso atto della situazione,  ha dato disposizione di non celebrare il rito religioso.  Qualsiasi parroco in quanto tale è chiamato a seguire le indicazioni del Vicariato… Ma anche sulla vicenda di Welby in qualche misura c’è stata una strumentalizzazione esterna –aggiunge sconfortato don Mancini ndr.–»

 

Dunque due casi di strumentalizzazione che però investono la stessa zona della città e la stessa Parrocchia. Ma poi perchè i Casamonica hanno chiesto i funerali al Don Bosco dal momento che Vittorio viveva a Morena?

«Non è infrequente che i familiari di un defunto chiedano il funerale in una Parrocchia diversa da quella di loro appartenenza. I motivi possono essere i più svariati, da quelli logistici alla capienza della chiesa. Da quanto ho percepito, la chiesa parrocchiale di Morena risultava insufficiente per il numero di coloro che avrebbero potuto partecipare.»

 

Alcuni giorni fa l’ex-magistrato antimafia di Palermo Alfonso Sabella, attuale assessore alla legalità e alla trasparenza del Comune di Roma, in un’intervista all’Huffington Post si è chiesto come ha potuto il parroco tollerare quei manifesti fuori dalla chiesa e quelle scritte che lui definisce “blasfeme”

«A quanto mi risulta il parroco non sapeva di quei manifesti. È stato informato solo qualche istante prima della celebrazione.»

 

Ma com’è possibile?

«È possibilissimo dati i ritmi e la mole di lavoro della parrocchia del Don Bosco. Non è strano che il parroco non si sia accorto di quello che avveniva all’esterno della chiesa prima del funerale, semplicemente perché era impegnato in tante altre attività. È chiaro che i manifesti erano fuori posto, fuori contesto e vicini alla blasfemia. Anche se non li si volesse interpretare come segno malavitoso, è chiaro che non dovevano esserci. Del perché altre persone che erano presenti sul posto, dopo averli visti non siano andati subito ad avvisare il parroco o perché non siano intervenute esse stesse, questo non sono in grado di dirlo. C’è stato un difetto di comunicazione o non si è compresa la problematicità della situazione

 

Questa vicenda porterà delle conseguenze nella famiglia salesiana? Lei ha dato delle disposizioni richiamando ad una maggiore attenzione?

«Attualmente io non ho dato disposizioni particolari. Immagino comunque che, alla luce di quanto accaduto, tutti i parroci, non solo quelli salesiani, si rendano maggiormente conto di quanto sia importante una conoscenza capillare del territorio, come è importante che non solo il Parroco ma anche tutti i suoi collaboratori debbano prestare attenzione a quello che accade e sentirsi più  corresponsabili. Questo lo dico sottolineando anche però, che non tutte le situazioni sono facilmente prevedibili.»

 

Riguardo alla conoscenza del territorio, al Don Bosco che ha una popolazione di oltre 40mila persone, come fa il parroco ad essere informato? I parroci ricevono da qualche Istituzione il Vicariato, la Questura, le forze di Polizia, il Comune, delle informative che li aggiornino sui reati dei loro parrocchiani?

«A me non risulta che esista una trasmissione sistematica di informazioni di questo genere da parte delle Istituzioni.»

 

Secondo lei sarebbe auspicabile questo tipo di coordinamento?

«Credo convenga tenere distinti e non confondere gli ambiti civile-sociale ed ecclesiale-religioso. Non vorrei che l’evento increscioso che abbiamo vissuto abbia come risultato soltanto la paura di sbagliare e si debba affrontare il prossimo funerale con l’attenzione concentrata nel verificare l’onestà pregressa del defunto. Credo che l’attenzione principale di un parroco rimanga quella del pastore di anime e che la nostra attenzione, come salesiani, non può che continuare ad essere incentrata sull’impegno di aiutare a far crescere persone libere, serene, oneste, giuste, preparate, altruiste, solidali. Buoni cristiani e onesti cittadini.

Questo è il nostro impegno e il nostro specifico, questo è quello che può contribuire concretamente a migliorare la società in tutti i sensi. All’interno del cammino educativo che proponiamo ai ragazzi c’è anche l’impegno socio-politico, cioè l’impegno per la giustizia, la legalità e la costruzione del bene comune. È qualcosa che non può mancare, che è già presente e deve essere potenziato.»

 

Chi guarda dall’esterno in conclusione come dovrebbe valutare questa vicenda?

«Al Don Bosco una serie di concause (il superlavoro, una conoscenza del territorio da migliorare e la poca comunicazione) ci ha fatto prestare il fianco, senza che fosse facilmente prevedibile, ad un evento che ha assunto connotazioni negative.

Confermo che ci dissociamo fermamente da qualsiasi forma di strumentalizzazione e spettacolarizzazione della morte, a maggior ragione se queste fossero mirate all’ostentazione del potere e di un potere che voglia nutrirsi di ingiustizia e di intimidazione. Non ha senso accusarci di connivenze.

È avvenuto qualcosa di non del tutto prevedibile, di fronte al quale credo che anche altri, se si fossero trovati nella medesima situazione, avrebbero potuto sentirsi spiazzati. Non sto parlando naturalmente del rito religioso, ma di quanto è avvenuto all’esterno. Dei manifesti e di tutti quei segni e gesti valutati come spettacolari, anche se va ricordato che alcune consuetudini rimandano all’etnia.

Circa i presenti al funerale non entro nel merito di valutazioni giudiziarie che possono coinvolgere alcuni. E comunque non credo che i 500 presenti a quel funerale fossero tutti malavitosi. Soprattutto voglio sperarlo.»

 

Don Leonardo nei fatti dal 2004 a oggi sono più di 50 i componenti della famiglia Casamonica arrestati e accusati di vari reati dalla Direzione Investigativa Antimafia che li considera la più grande famiglia malavitosa del Lazio. Non tutti saranno delinquenti certo, ma anche chi non lo fosse sarà cresciuto in questo tipo di cultura, con questi modelli e principi di riferimento. Cosa può dire Don Bosco oggi a questi ragazzi per scardinare il sistema in cui sono immersi?

 

«Intanto si può dire quello che ha detto Gesù e che ha ripetuto anche Papa Francesco: “convertitevi!” perché non c’è felicità né salvezza in una vita basata sull’ingiustizia, sulla violenza, sulla sopraffazione. E questo vale per tutti coloro che seguono queste strade.

 

La seconda risposta è l’educazione, cioè l’impegno ad accompagnare le persone su percorsi di prevenzione e recupero. Perché la possibilità di ricominciare va assicurata a chiunque mostri la volontà di cambiare.

 

È quello che ci impegniamo ogni giorno a fare in tutti i settori in cui sono attive le nostre opere. Negli oratori e centri giovanili, nelle scuole, nei centri di formazione professionale, nelle parrocchie,  nelle associazioni sportive, in quelle culturali, nelle case famiglia, nei centri per minori nei quali lavoriamo con i ragazzi affidatici dal Tribunale, nel soggiorno-proposta di Ortona che proprio quest’anno compie 30 anni ed è finalizzato al recupero dalle dipendenze.

 

In questa direzione si inquadra anche uno studio che abbiamo realizzato sulla condizione degli adolescenti romani e che presenteremo in Campidoglio il prossimo 12 ottobre, proprio perché per noi, nonostante in questa recente vicenda sia apparso diversamente, conoscere la realtà del territorio per poter meglio agire per il bene dei ragazzi, rimane di grandissima importanza. »

 

 

 

Paola Caselli

http://www.artslife.com

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