Lo sfogo di un giovane prete sui gradini della parrocchia. Con una riflessione sui destinatari di luoghi, tempi e proposte delle nostre comunità. "Io sono stufo. Stufo di vivere il mio ministero in mezzo a gente che è fuori dal mondo. Voglio persone come te, come Paola, Luciano, gente che la mattina esce di casa, va a lavorare, ha rapporti sociali..."
del 14 luglio 2011
 
          «Io sono stufo. Stufo di vivere il mio ministero in mezzo a gente che è fuori dal mondo. Voglio persone come te, come Paola, Luciano, gente che la mattina esce di casa, va a lavorare, ha rapporti sociali, si scontra con le difficoltà concrete da cui noi che viviamo chiusi nella parrocchia siamo sempre più lontani».
Glielo aveva urlato in faccia don Andrea a Martina il suo sfogo. Si vedeva proprio che non ne poteva pi√π.
          Quelle parole erano uscite inaspettate, alla fine di una giornata impegnativa, che al massimo dovevano essere due chiacchiere di solidarietà intergenerazionale sui gradoni della chiesa, nella calura di luglio nella grande città. Con un gelato in mano. Martina non poteva negare di esserne rimasta spiazzata: tutto si aspettava da quel giovane prete, tranne che una frase del genere, spiattellata con tanta veemenza.
          Ma non le era per nulla dispiaciuta: «Mi sa che possiamo proprio diventare davvero amici» aveva pensato. E naturalmente gli dava ragione: spesso luoghi, tempi e proposte per chi esercita un lavoro impegnativo, per chi è condizionato da ritmi massacranti, come quelli della Grande città, dove spesso si è costretti a lavorare molto per i costi alti di vita, sono quanto di più lontano si possa immaginare da programmazioni pastorali alle volte asfissianti, che chiedono chiedono chiedono e non danno il tempo di fermarsi a guardare quello che si ha attorno.
Forse lo sfogo di don Andrea molti altri avrebbero voluto dirlo o magari anche tradurlo nel concreto ma pochi sono quelli che hanno il coraggio di renderlo esplicito.
          Il disagio serpeggia nel sottosuolo: come se, soprattutto da giovani si dovesse per forza «fare i bravi». E magari in certi casi sprecare gli anni migliori inseguendo un modello di comunità cristiana che perde i pezzi e si allontana da tante persone che avrebbero magari non solo bisogno, ma anche voglia di mettersi in gioco in una comunità parrocchiale. Se solo la si potesse un po' rinnovare.
          Vennero alla mente di Martina quelle parole sull'«essere cristiani dentro la postmodernità». Le vennero in mente perché partivano dall'analisi di quello che è oggi il mondo. Non proponevano di rincorrerlo per non perdere terreno, di scimmiottarne le cose peggiori per non sentirsi esclusi e «abbassare il livello» a un senso comune impregnato di consumismo.
Invocavano una povertà autentica, vissuta andando magari anche controcorrente.
Perché manca il coraggio di provare a percorrere questa strada?
 
Francesca Lozito
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