Se la militarizzazione a oltranza non hanno portato alla pace per Israele e alla nascita di una patria libera per la Palestina, occorre tentare vie diverse.
A tentare di commentare l’ennesimo episodio sanguinoso del conflitto israelo-palestinese, conflitto che va avanti in forme diverse da circa ottant’anni, iniziato ai tempi del mandato britannico sulla Palestina, senza schierarsi più o meno apertamente con gli uni o con gli altri si rischia di passare per ingenui privi di esperienza che credono di risolvere drammatici problemi politici con i buoni sentimenti, o al contrario per furboni più preoccupati della propria rispettabilità e della propria immagine che della verità dei giudizi e delle analisi. Ma viene il momento in cui è giusto correre questi rischi, perché la lezione dei fatti non può essere più a lungo rigettata.
La prima volta che ho sentito parlare di una guerra fra ebrei e arabi era il 1967, avevo 9 anni e ricordo solo che mio fratello, di un anno e mezzo più giovane di me, mi chiese se anche l’Italia avrebbe dovuto mandare dei soldati e se nostro padre sarebbe partito. Da allora è passato quasi mezzo secolo, costellato di guerre di Israele con l’Egitto, terrorismo palestinese internazionale (stragi alle Olimpiadi e negli aeroporti), interventi israeliani in Libano, Intifade, operazioni contro Hamas a Gaza. Non c’è stata fase della mia vita, della vita di tanti, che non possa essere cronologicamente collegata ai tragici eventi del conflitto medio orientale. Per questo quando ho letto sul Guardian di due settimane fa l’attacco di un pezzo di commento ai fatti di Gaza scritto dal medico palestinese Izzeldin Abuelaish ho avuto un sussulto. Citava una perla di saggezza di Albert Einstein: «La follia è continuare a rifare la stessa cosa aspettandosi un risultato diverso». Un commento perfettamente calzante a quello che dal 1948 succede fra israeliani e palestinesi. Dai loro atti politico-militari, praticamente sempre gli stessi da 66 anni a questa parte, i primi si aspettano la pace nella sicurezza, i secondi una patria libera. Né gli uni né gli altri hanno finora ottenuto ciò che ardentemente desiderano, eppure continuano nella stessa linea di azione da decenni: manifestazioni violente e pratiche terroristiche da una parte, uso sproporzionato della forza armata dall’altro.
I due contendenti appaiono intrappolati in una coazione a ripetere, che naturalmente razionalizzano e giustificano in mille modi. L’israeliano vi dirà che senza togliere di mezzo Hamas, che ha per obiettivo la distruzione pura e semplice di Israele, non è possibile nessun serio negoziato e serio accordo con i palestinesi che accettano l’esistenza di Israele; il palestinese vi dirà che Hamas è il prodotto dell’intransigenza israeliana e della sostanziale indisponibilità degli ebrei a permettere l’esistenza di uno Stato palestinese, e che Hamas sparirà il giorno in cui finirà l’occupazione israeliana. Uno che guarda il conflitto da fuori e lo ha guardato fin dall’inizio o quasi, è tentato di dire che gli israeliani trovano sempre un buon motivo per non procedere nelle trattative che si concluderebbero con il riconoscimento di uno Stato palestinese, e che i palestinesi trovano sempre un buon motivo per giustificare gli atti di violenza contro Israele nel suo complesso, civili inclusi, o per prenderne le distanze solo a parole e tiepidamente. Per cui viene il sospetto che anche quando affermano di riconoscere il diritto dell’altro ad esistere, in realtà israeliani e palestinesi vorrebbero che l’altro non esistesse, o che esistesse solo nella forma subordinata che piacerebbe a loro, e questo pensiero diventa esplicito nella linea politica degli estremisti, gli ultranazionalisti israeliani da una parte, Hamas e altri gruppi jihadisti dall’altra.
La realtà è talmente più forte delle giustificazioni e delle dottrine, che viene sempre il momento in cui i princìpi solennemente proclamati debbono necessariamente essere contraddetti dai fatti. Dopo ogni guerra di Gaza, governo israeliano e Hamas, che si giurano l’uno la distruzione dell’altro, concludono un accordo fra loro che per qualche anno regge. Ciò avviene di necessità: Israele non può sperare di ripulire Gaza di ogni singolo tunnel e di ogni singolo lanciarazzi, Hamas non può sperare di sfidare le preponderanti forze avversarie all’infinito. Eppure nessuno dei due sembra trarre alcuna lezione da questo stridente contrasto fra la pratica e i princìpi.
Le critiche di un osservatore terzo europeo debbono necessariamente fermarsi qui, per una ragione morale di fondo: la responsabilità storica del conflitto arabo-israeliano ricade interamente sulle spalle di noi europei. La ghettizzazione alla quale i popoli cristiani d’Europa hanno condannato la minoranza ebraica, l’antisemitismo, il colonialismo nel Vicino Oriente e l’Olocausto sono altrettante vicende storiche di cui gli europei sono responsabili e che costituiscono le radici del dramma che dagli anni Trenta del secolo scorso attraversa quella che amiamo chiamare Terra Santa. Ma nel mentre che si batte il petto e che ammette le sue responsabilità storiche, l’osservatore terzo europeo non può fare a meno, non per terzismo ma per lealtà verso la propria coscienza e la propria ragione, non per narcisismo ma per empatia verso le sofferenze dei due popoli, di far notare che i fatti puntano in una chiara direzione: per ottenere i nobili risultati a cui si aspira, bisogna cominciare ad agire in modo diverso dal passato.
Per agire in modo diverso, bisogna pensare in modo diverso. Se la militanza e la militarizzazione a oltranza, da una parte e dall’altra, non hanno portato alla pace nella sicurezza per Israele e alla nascita di una patria libera per la Palestina, occorre tentare vie diverse. La trasformazione del militantismo palestinese in lotta integralmente nonviolenta per i diritti e la trasformazione della radicata diffidenza degli israeliani verso i palestinesi in fiducia sostanziata di coraggiose concessioni territoriali e politiche non debbono più essere viste come utopie, ma come tentativi alternativi alle politiche condotte fino ad ora. Ovviamente solo autorevoli leader dell’una e dell’altra parte in conflitto possono chiedere al proprio popolo di assumersi i rischi di queste svolte. E prima di proporre questi nuovi percorsi dovrebbero proporre ai due popoli la revisione critica della propria storia, un esame di coscienza approfondito che non si lasci distrarre da pur giuste considerazioni intorno ai propri diritti e intorno alle ingiustizie antiche e recenti subìte.
A chi obietta che molte persone potrebbero perdere la vita o i loro beni a causa delle opzioni sopra proposte, la nonviolenza palestinese e le concessioni israeliane, si può rispondere che la via militare percorsa in questi 66 anni non ha certo evitato la perdita di vite e vaste distruzioni. Non è un caso che la citazione di Einstein sia stata fatta da un palestinese nato e vissuto lungamente a Gaza, che lì ha perso tre figlie nel 2009 durante l’Operazione Piombo fuso a causa di un proiettile israeliano. Anziché vendicarsi Abuelaish ha scelto di creare una Fondazione per l’educazione delle ragazze arabe intitolata alla memoria delle figlie tragicamente scomparse. A riprova che un modo diverso di pensare e di agire è possibile.
Rodolfo Casadei
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