Per chi entra oggi nella striscia lo spettacolo è veramente impressionante, perché le macerie sono semplicemente dappertutto.
del 12 febbraio 2010
 
          Poco più di un anno fa, nei giorni del Natale 2008, l’esercito israeliano scatenava una delle più massicce offensive degli ultimi anni contro il terrorismo palestinese, colpendo in maniera durissima la striscia di Gaza. Le immagini delle distruzioni e i dati dei morti civili fecero discutere molto ma, come spesso accade, ben presto sulla situazione di Gaza scese un imbarazzato e colpevole silenzio.
 
          Ne abbiamo parlato con don Nandino Capovilla, coordinatore nazionale di Pax Christi, referente nazionale della campagna 'Ponti e non muri' promossa da Pax Christi International, e responsabile delle azioni in Israele e Palestina per Pax Christi Italia. A lui, che da anni passa lunghi periodi in Israele e Palestina, abbiamo chiesto per cominciare di raccontarci qual è la situazione di Gaza, un anno dopo l’operazione Piombo fuso. Come ha recentemente sostenuto il patriarca di Gerusalemme, a un anno di distanza dall’operazione Piombo fuso per molti aspetti non ci troviamo al punto di partenza, ma siamo addirittura andati indietro.
          Con le pochissime risorse che entrano, si fatica a garantire i livelli minimi di sopravvivenza. Ma non c’è solo la carenza dei beni di prima necessità: occorre tener conto anche del fatto che la popolazione è provata da due anni di assedio totale, che sono la causa di una vera e propria devastazione psicologica. E poi c’è un’altra distruzione, quella delle cose. Secondo le stime delle Nazioni Unite ci sono almeno 600 mila tonnellate di macerie che sono ferme dai giorni dell’operazione Piombo fuso: mentre di solito a una catastrofe segue la ricostruzione, a Gaza la gente ha ormai l’impressione che nessuna ricostruzione seguirà quella devastazione.
          Per chi entra oggi nella striscia lo spettacolo è veramente impressionante, perché le macerie sono semplicemente dappertutto.
Ma è cambiato qualcosa da un anno a questa parte nell’atteggiamento di Israele di fronte alla situazione a Gaza?
          No, in realtà non è cambiato praticamente nulla. I confini sono letteralmente sigillati, passano meno di una decina di camion al giorno, quando probabilmente ne servirebbero almeno 200 solo per le forniture minime per vivere, e così la striscia di Gaza è ormai una gigantesca pentola a pressione che può esplodere in qualsiasi momento.
E qual è l’effetto di questa situazione sul piano politico palestinese?
          Quando siamo entrati nell’ottobre scorso nella striscia di Gaza, con un gruppo di persone della Tavola per la Pace, abbiamo incontrato alcuni dei rappresentanti di Hamas. Emerge chiaramente, parlando con loro, che la disastrosa situazione sul piano umanitario rende quasi impossibile il governo dell’area, e che contribuisce a un forte aumento del fondamentalismo. Ed è questo il lato più oscuro e pericoloso di questa vicenda, poiché all’aumento del fondamentalismo corrisponde sempre il pericolo di un aumento della violenza.
          Tutto questo con la sensazione che a Gaza si viva una condizione di assoluto isolamento dalla comunità internazionale: ma questa è una storia vecchia, perché già all’indomani delle elezioni del 2006 Hamas venne presentata come una forza terroristica, e quindi inaffidabile sul piano politico. Non a caso in quel periodo la striscia di Gaza venne definita “entità nemica” e a quel punto non c’era più nessun freno alla possibilità di un intervento anche militare.
Ma qual è la consapevolezza che c’è in Israele del fatto che una politica di isolamento rischia di aumentare a dismisura il rischio di un’esplosione della violenza?
          In Israele la maggior parte del governo e dell’opinione pubblica è abituata a vedere il nemico in Hamas e per questo sono molti coloro che pensano che sarebbe legittimo anche ripetere le azioni di un anno fa per eliminare Hamas. Ma non si rendono conto che il prevalere di questo approccio è estremamente controproducente, perché allontana ogni possibilità di accordo e non garantisce nessuna stabilità. Certo, non tutti in Israele pensano così, ma chi la pensa diversamente al momento attuale è veramente una minoranza e la critica all’opzione violenta è presente più nei movimenti della società civile che nella politica.
Come mai è diventato così difficile entrare a Gaza?
          Effettivamente è ormai difficilissimo entrare. È il caso ad esempio della Freedom March che è stata bloccata al Cairo il 27 dicembre scorso dal governo egiziano, non permettendo a 1400 persone, provenienti da tutto il mondo, di raggiungere il confine di Gaza e di entrare nella striscia per ricordare le vittime dell’operazione Piombo fuso. Per noi la cosa è stata diversa. In ottobre la Tavola per la Pace, dopo molte insistenze, è riuscita ad ottenere il permesso di entrare. Era la sera del 18 ottobre 2009 quando Flavio Lotti, coordinatore della Tavola per la Pace, ha ottenuto un’autorizzazione temporanea per una piccola delegazione di quattordici persone. Fa impressione, si arriva al valico di Eretz che è completamente vuoto, perché nessuno ormai può entrare o uscire. Il permesso era per sole quattro ore, raramente i permessi sono per un tempo più lungo. Ma almeno abbiamo potuto entrare e incontrare alcune persone per capire la situazione in cui si trova la popolazione di Gaza.
E così siete entrati per poco in quella che tutti descrivono con l’immagine della prigione a cielo aperto…
          Vedi, spesso mi dicono che Gaza è “l’immagine” o “il simbolo” della prigione. Non è così. Gaza è veramente una prigione: le chiavi le ha Israele e decide Israele chi, quando e per quanto tempo può entrare e uscire. È certamente una prigione più grande rispetto a quello che possiamo immaginare, ma resta una prigione!
A un anno di distanza di Gaza non parla quasi più nessuno. Vedi vie d’uscita o elementi di speranza?
          Il problema è che la violenza del massacro non ha generato nessuna reazione nemmeno nei confronti dell’embargo, che era già terribile. Di fronte a una situazione che per i suoi effetti era e resta assolutamente inaccettabile, nei fatti la comunità internazionale è rimasta a guardare senza dire quasi nulla: si è piuttosto limitata a lasciare che le cose andassero nella direzione che avevano preso, senza nessun intervento efficace per fermare le violenze. In questa situazione non riesco a vedere vie d’uscita o prospettive positive. Anzi, per molti aspetti ci sono segni preoccupanti, come la nuova politica egiziana, che ha enormi responsabilità nei confronti della chiusura dei confini e dell’isolamento dell’intera popolazione di Gaza. Anche a questo livello la comunità internazionale ha taciuto. Alla fine gli equilibri ruotano tutti attorno alle decisioni di Israele e degli Stati Uniti, dove lo stesso Obama ha fatto passi indietro rispetto alle aperture precedenti.
Cosa ti ha spinto a dialogare con abuna Manuel Mussallam, per quattordici anni parroco a Gaza?
          Per spiegare chi è abuna Manuel potrei usare l’immagine del cellulare. Durante l’operazione Piombo fuso io lo sentivo molto spesso al cellulare, era l’unico modo che avevamo per comunicare, e m’impressionava il fatto che lui riusciva, attraverso il telefono, a rendere presente una situazione terribile di distruzione, di sofferenza, di morte. E il cellulare è stato anche il mezzo attraverso il quale lui, nei momenti più drammatici, mandava messaggi alle persone che conosceva per sostenerle in quei giorni difficili, informarsi, aiutarle. E spesso in quei messaggi era contenuta una frase del Vangelo, una “Parola meno fragile della mia” ama dire abuna Manuel. Un modo straordinario per “rompere l’assedio”. Così abuna Manuel dimostrava di credere nella vita, nella possibilità di dare forza e di sostenere gli altri: noi, lo ripete in continuazione, vogliamo vivere, e vogliamo che tutti sappiano che Gaza vuole vivere. Per questo ho scelto di dialogare con lui e di scrivere un libro con la sua storia.
Il titolo del libro, Un parroco all’inferno, tiene insieme due dimensioni, quella della condivisione e del servizio e quella della drammaticità della vita quotidiana. Pensi che l’esperienza di abuna Manuel potrebbe essere anche un modello per la politica?
          Questo titolo richiama semplicemente l’esperienza di tante donne e tanti uomini che stanno facendo una resistenza ostinata, pacifica, non violenta; ma questo mi sembra distante dalle opzioni politiche. Anche nei territori occupati ci sono opzioni forti di nonviolenza, esperienze di dialogo e di incontro, ma tutto questo non riesce a diventare opzione politica. Sono due strade che per ora sembrano correre parallele, ma senza che queste esperienze riescano a incidere efficacemente sulla politica. Solo un esempio. Quando Tony Blair incontrò, in qualità di inviato per la pace nel Medio Oriente su mandato di ONU, Unione europea, USA e Russia, alcune delle più significative esperienze di dialogo e di resistenza dei territori occupati, spese molte parole di incoraggiamento; tuttavia né lui, né altri hanno fatto qualcosa per far entrare tali posizioni all’interno della vita politica.
Dopo l’esperienza di ottobre sei entrato ancora a Gaza?
          Sì, mi è riuscito di entrare per Natale. Il 20 dicembre, abbiamo fatto un ponte di solidarietà con la comunità cristiana di Gaza, che celebra in Natale nella domenica precedente il 25. Siamo entrati grazie alla mediazione e alla presenza del patriarca di Gerusalemme e di quello di Nazareth, con due automobili. Anche questa volta è stata un’esperienza dove abbiamo vissuto un grande contrasto, non solo fra il dentro e il fuori, ma soprattutto fra la devastazione materiale e il clima di gioia che abbiamo trovato, con tutti i ragazzi vestiti a festa, con i vestiti puliti e la camicia bianchissima, che sembra quasi impossibile sia così. E poi anche un pranzo pieno di cose, che contrasta con una situazione di devastazione in cui si vive, e che è stato possibile approntare solo grazie ai tunnel clandestini che mettono in comunicazione la striscia di Gaza con l’esterno e permettono qualche piccolo approvvigionamento in più.
Il Natale della comunità cristiana di Gaza solleva un problema molto serio: come sono i rapporti fra palestinesi cristiani e musulmani, che condividono di fatto la stessa situazione di difficoltà e di sofferenza?
          Ciò che caratterizza quelle relazioni è la capacità di convivere. Più che un modello questa convivenza è la dimostrazione che dove i popoli sono abituati a convivere e hanno vissuto assieme non ci sono i problemi che spesso noi immaginiamo. Ciò non significa che tutto sia privo di tensioni: c’è il problema di essere minoranza, l’integralismo è presente e non è una questione che possiamo sottovalutare. Ma la capacità di convivenza rimane molto forte. Questo, però, non deriva tanto dalla condivisione della propria condizione di oppressi, quanto dalla consapevolezza che nella fede l’avvicinarsi a Dio non può che portare al riconoscimento della fraternità con l’altro.
Giorgio Beretta
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