«Con i discorsi ci si può anche prendere in giro, con il cuore sei a nudo». Così raccontava il suo cammino la vedova Calabresi durante l'intervista nel 50° anniversario della morte del marito
Il 28 aprile 2021 viene arrestato in Francia, insieme ad altri ex terroristi di estrema sinistra, Giorgio Pietrostefani, accusato dell’omicidio del commissario Luigi Calabresi, ucciso la mattina del 17 maggio 1972 in via Cherubini a Milano, dove abitava. «Appena ho saputo la notizia, ho pregato per Pietrostefani e per la sua famiglia», mi dice Gemma Capra Calabresi quando ci incontriamo a casa sua. «Le mie nipoti adolescenti mi hanno detto: “Nonna, è troppo, non è possibile!”. No, non è troppo, è uno dei regali di Dio di questi 49 anni di cammino di fede». Ha 74 anni e io rivedo nei suoi occhi e nella voce la stessa forza che mi aveva colpito quando ci eravamo conosciute nel 2010. Forse oggi c’è un tratto di consapevolezza nuovo.
Recentemente in un podcast, che ha registrato oltre 60mila ascolti, la signora Calabresi ha ripercorso con suo figlio Mario, ex direttore de La Stampa e di Repubblica, il lasso di tempo dall’omicidio a oggi. «Tante persone mi hanno scritto, ringraziandomi. Qualcuno ha usato la parola testimonianza. Anche giovani, che non conoscevano le vicende di quegli anni. Sono contenta, perché vuol dire che c’è bisogno di vedere, dentro una tragedia, qualcosa di “buono”, di “vero”», continua. «Che per me è accaduto inaspettatamente proprio quel 17 maggio».
All’epoca, lei aveva 25 anni, due bambini piccoli e un terzo in arrivo.
Quella mattina, quando mi hanno detto che Gigi era stato ucciso, dopo lo smarrimento totale, mi sono sdraiata sul divano, con accanto il mio parroco don Sandro, e piano piano ho sentito una pace interiore incredibile. Come se Dio mi avesse preso tra le braccia. Non sentivo gli altri piangere, quello che dicevano, la loro rabbia. È stato il dono della fede, a me che fino a quel giorno ero cattolica più per tradizione famigliare. Andavo a Messa, facevo volontariato, ma in quell’ora mi sono sentita amata più di quanto mi potessi immaginare. Poi non è sempre stato così, il dolore era terribile, ma inevitabilmente tornava in mente quel momento e mi dicevo: «Tu lo sai Gemma che Dio c’è, ti è venuto vicino». Ho capito che Dio va da tutti. Ma questa è una scoperta che ho fatto anni dopo.
Quando?
Nel 2011, nel carcere di Padova ho parlato con alcuni ergastolani che mi hanno raccontato il loro incontro con Dio, la loro conversione e il loro cambiamento. Quel giorno è stato decisivo. Ho rivisto tante cose della mia vita. A differenza di quanto mi avevano insegnato – che dobbiamo cercare Dio –, è Lui che viene a noi. Questo mi dà una gioia immensa e mi rasserena. È solo una questione di libertà: accettare di essere amati. Come il figliol prodigo. È successo a me su quel divano, come a quei detenuti dentro una cella. Dopo arriva la pace. Quella vera.
Questo permette di perdonare?
Sì, sentirsi amati permette il perdono. Il dono della fede significa che comprendi che Dio è con te sempre: mentre cucino, mentre leggo, mentre discuto. È compagno, amico. È la vita. In questi giorni, ho pregato per le persone che a Kabul hanno messo una bomba all’uscita di una scuola. Cosa avevano al posto del cuore? Una voragine. C’è bisogno che Dio li ami. Chiedo al Signore e allo Spirito Santo che li vada a cercare. Ma questo lo si capisce dentro un cammino che non finisce mai. Almeno per me è così.
Come si fa questo cammino?
Lo devi volere. Meglio: lo cerchi, cerchi i segni della Sua presenza. In una predica, nel rapporto con gli altri. Io l’ho cercato quando insegnavo religione ai bambini. A un certo punto, mi sono accorta che davo loro un “pacchetto” di amore, di perdono, ma io avevo perdonato davvero? Mi è sembrato di tradirli. La frase del Vangelo: «Padre, perdona loro perché non sanno quello che fanno», che mia mamma mi aveva suggerito per il necrologio e che io avevo accettato soprattutto per spezzare la catena d’odio, ha preso più carne, più vita.
In che senso?
Gesù quando compie un miracolo dice: «La tua fede ti ha salvato. Va’ in pace, ti sono perdonati i tuoi peccati». Lui chiede un atto di fede, cioè un atto d’amore, andare incontro all’altro in modo gratuito. Il perdono non chiede una restituzione, nemmeno l’accettazione da parte dell’altro. L’amore è gratuito. Leonardo Marino (reo confesso e pentito dell’omicidio Calabresi, ndr) durante uno dei tanti processi ha chiesto il nostro perdono. I miei figli non hanno ancora perdonato. Ultimamente ho detto a loro: «Già il fatto di non odiare, di non cercare vendetta, è un passo». Io non forzo, non fornisco un “pacchetto” di regole. Prego per loro. Ho riletto questa frase di Shakespeare: «Date parole al dolore: il dolore che non parla bisbiglia al cuore sovraccarico e gli ordina di spezzarsi». Ecco, il dolore va anche urlato, dopo si può iniziare un cammino. Si può vivere.
A proposito, nel podcast, a un certo punto suo figlio le chiede quasi con invidia: «Non hai rancore, ma sempre gioia di vivere. Come hai fatto?».
Innanzitutto cercando di non piangermi addosso. Sono convinta di aver dato ai miei figli una vita, vita. Piena di amore, mio, di Tonino (l’artista Tonino Milite, che Gemma ha sposato nel 1982 e che è morto nel 2015, ndr) e di tutta la mia famiglia. Mario crede nella forza dell’uomo, lo si vede nelle storie che racconta, cerca sempre situazioni drammatiche, umanamente impossibili, che poi però si evolvono positivamente. E io gli chiedo: «Secondo te, quella forza da dove viene?». Ma questa è la sua ricerca.
Sempre in quel dialogo lei dice che il perdono si dà con il cuore.
Vuol dire con amore. Con i ragionamenti, i discorsi ci si può anche prendere in giro, con il cuore sei a nudo, non si bara. Perché è come barare con Dio. Gesù con quelle parole, «perdona loro perché non sanno quello che fanno», lo ha già fatto per me. Io devo solo restituire questa cosa meravigliosa, con i miei tempi. Questo è il bello di Dio: non mi ha mai dato scadenze e mi ha fatto sentire che in questo cammino non ero sola.
Come?
Con la preghiera. Mia, ma soprattutto degli altri. Persino degli sconosciuti. Qualche anno fa, passeggiavo sul lungolago di Como, quando mi viene incontro un uomo, più o meno della mia età, e mi dice: «Che bello incontrare una cara amica, quasi una parente, che non si è mai vista prima». Ero esterrefatta. E lui ha continuato: «Il giorno che hanno ucciso suo marito io sposavo mia moglie. Siamo rimasti così colpiti dal fatto che per noi era l’inizio e per lei la fine, che abbiamo deciso di portarla nel nostro matrimonio. Ogni giorno recitiamo una preghiera per voi». Ci siamo abbracciati. Dio vuole che chiediamo per noi e per gli altri: «Bussate e vi sarà aperto, chiedete e vi sarà dato». È la comunione attraverso la preghiera. Questo mi ha dato forza. Per questo posso dire: non cambierei mai la mia vita! Ho avuto davvero tanto. È stata ed è intensa, ricca, piena di un amore che mi viene solo da restituire. Anche nei momenti più bui.
Ad esempio?
Ho sofferto molto per la morte di Tonino. Ancora una volta vedova. Ero arrabbiata e l’ho detto al mio parroco. E lui: «Non aver paura di questo sentimento. Nella Bibbia ci sono tanti esempi di persone che hanno gridato la loro rabbia a Dio. Lui ti aiuterà». È stata una liberazione. Mi capita di andare davanti al Crocefisso e dire: «Dove sei?». E Lui risponde, sempre. Questo è sentirsi perdonati, amati. È una certezza, però, a cui sono arrivata solo in questi ultimi anni. Dio ci vuole per come siamo. Basta pensare agli apostoli, a Pietro che lo ha rinnegato tre volte e Gesù gli dice solo: «Mi ami tu?». Chissà come si è sentito. Io ci penso spesso. Come penso alla Madonna, lì, davanti alla croce. Le ha riempito il cuore di un amore più grande di quello che lei aveva verso il figlio. Da mamma, mi verrebbe da dire: impossibile.
Per questo ha pregato alla notizia dell’arresto di Pietrostefani?
Questa è la pace del perdono: essere capaci di pensare che quella persona, anziana, malata, soffre. Non mi interessa più cosa ha fatto, non sta a me giudicarlo. Io prego perché sta soffrendo. Per la stessa ragione, quando al processo è stata dichiarata la sua colpevolezza, ho pianto guardando la figlia che era presente in aula.
Di Paola Bergamini
Tratto da it.clonline.org
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