Giovani senza speranza? Forse è colpa dei padri

Nel nostro Paese si faccia più intenso, vibrante e realistico il dialogo sociale, come processo di rilettura del Paese e come anticamera di un'assunzione di responsabilità da parte di chi ha più talenti da spendere, non solo per sé, ma per l'intera comunità

Giovani senza speranza? Forse è colpa dei padri

da Quaderni Cannibali

del 28 settembre 2010

          

 

           La domanda è questa: da chi saremo governati, diciamo fra venti trent’anni? E questa generazione, questa nuova classe dirigente, che ha oggi tra i 27 e i 35 anni e già occupa un posto in società, cosa pensa, cosa si aspetta, come vede il mondo, quali sono i suoi valori guida?

 

           Alcuni indicatori utili a definire la fisionomia di questa classe dirigente in formazione, li ha forniti di recente il presidente della Swg, Roberto Weber, intervenendo ai lavori del seminario nazionale di Retinopera (la rete sociale dei cattolici italiani), dedicato al tema della moralità pubblica e alla decadenza delle élites. Innanzitutto è emersa, con nettezza, una forte propensione tecnocratica.

           Oltre a una spinta meritocratica e a una domanda di premialità che, a tratti, assumono persino una dimensione ideologica. In questo contesto è forte il bisogno di tranquillità personale, familiare e comunitaria. Così come si manifestano una più marcata distanza dai genitori e un pragmatismo spinto che fanno di questi giovani–adulti già in carriera, una generazione propriamente di stampo europeo. Una descrizione che ci restituisce, complessivamente, l’immagine di una generazione per così dire “fredda”, senza passioni, chiusa e ripiegata su se stessa.

           Una conferma è venuta direttamente dallo stesso Weber che, nel concludere la sua comunicazione, ha tenuto a precisare come la colpa sia da attribuire ai padri: “Non sono riusciti a trasferire ai figli quella componente immateriale, fatta persino di ideologia, valori e spinta al bene comune che è essenziale per produrre creatività sociale e leadership”.

           I padri, fatti due conti, sono quelli delle “passioni calde”: ex sessantottini che hanno vissuto il “riflusso” in un tempo (gli anni Ottanta/Novanta) in cui erano chiamati a educare i loro figli adolescenti e rispetto ai quali hanno spesso preferito porsi come amici e non come genitori. Loro stessi, i padri, già abbastanza delusi e disillusi. Nei migliori dei casi, in carriera, per riguadagnare il tempo perduto.

           Ma non è di loro (cioè di noi) che vogliamo parlare, ma dei nostri figli. Di quelli che comunque ce l’hanno fatta a trovare un buon lavoro e già occupano posizioni di responsabilità. E sono quelli che, realisticamente, domani guideranno la Nazione da postazioni diverse, facendo parte di quel gruppo dirigente chiamato ad aver voce in capitolo nella politica, nell’economia, nella cultura e nella società. Non possiamo ipotecare il futuro, ma forse dobbiamo prepararci a un mondo governato dai tecnocrati. Dai nostri stessi figli, più disposti a cercare le ragioni del merito (dei singoli) rispetto ai bisogni (di tutti).

           L’impressione è che il mondo, visto con i loro occhi, abbia il colore e il calore delle “passioni fredde”, in cui c’è poco spazio per la compassione e la partecipazione. In fondo, la stessa spinta tecnocratica è una bolla esistenziale che può spingerli a tenersi fuori dalla fornace sociale, nella quale si decidono davvero i destini dei popoli. Ecco perché non è indifferente tornare a parlare con i nostri figli non solo del loro di futuro, ma anche del futuro delle generazioni che il tempo affiderà alle loro cure.

           E’ difficile, oltre che presuntuoso, fare previsioni, ma si può almeno azzardare una speranza. Ovvero, che nel nostro Paese si faccia più intenso, vibrante e realistico il dialogo sociale, come processo di rilettura del Paese e come anticamera di un’assunzione di responsabilità da parte di chi ha più talenti da spendere, non solo per sé, ma per l’intera comunità nazionale. Per non arrenderci tutti, indistintamente, a quel cinismo sociale che mette in un angolo ogni spinta alla solidarietà. Tra generazioni, tra territori, tra classi sociali, tra uomini e donne.

Domenico Delle Foglie

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