Don Cafasso: la guida spirituale di don Bosco. Ha detto Benedetto XVI: «Dalla sua cattedra di teologia morale educava ad essere buoni confessori e direttori spirituali, preoccupati del vero bene spirituale della persona, animati da grande equilibrio nel far sentire la misericordia di Dio e, allo stesso tempo, un acuto e vivo senso del peccato».
del 23 giugno 2011
 
          «Quando varcai per la prima volta la soglia del carcere, mi sentivo disorientato. Vagavo nei corridoi senza sole, incerto sul da farsi; attraverso gli spioncini delle pesanti porte mi affacciavo alle celle scrutando chi vi abitava: visi spettrali, con i segni profondi della sofferenza, della fame, della paura. Poi, dopo pochi giorni dal mio primo ingresso nel carcere, mi si disse che avrei dovuto, l’indomani, assistere un condannato a morte. Il “mio” primo condannato a morte!».
          Inizia così il racconto della prima volta che padre Ruggero Cipolla (1911-2006), francescano e per cinquant’anni cappellano delle carceri giudiziarie di Torino, scriveva nel 1960. La toccante testimonianza prosegue: «Sentii nell’anima uno schianto, crebbe la mia incertezza. E mi aggrappai disperatamente al confortatore per eccellenza dei condannati a morte: san Giuseppe Cafasso, il prete della forca».
          Oggi Benedetto XVI del santo dei carcerati afferma: «Conosceva la teologia morale, ma conosceva altrettanto le situazioni e il cuore della gente, del cui bene si faceva carico, come il buon pastore. Quanti avevano la grazia di stargli vicino ne erano trasformati in altrettanti buoni pastori e in validi confessori. Indicava con chiarezza a tutti i sacerdoti la santità da raggiungere proprio nel ministero pastorale». Sono parole che il Santo Padre ha pronunciato durante la Catechesi dell' Udienza generale del 30 giugno 2010, a pochi giorni dalla chiusura dell’Anno sacerdotale (11 giugno 2010), un tempo di grazia, che ha portato e porterà frutti preziosi alla Chiesa, e che ha visto, per volontà di Benedetto XVI, il Santo Curato d’Ars proposto come principale modello dei ministri di Dio.
          Proprio quest’anno ricorrono duecento anni dalla nascita di questo Homo Dei e da poco si è chiuso il 150° del suo dies natalis. Della sua morte egli, con profonda umiltà, affermava: «Disceso che sarò nel sepolcro, desidero e prego il Signore a fare perire sulla terra, la mia memoria, sicché mai più alcuno abbia a pensare di me, fuori di quelle preghiere che attendo dalla carità dei fedeli. E accetto in penitenza dei miei peccati tutto quello che dopo la mia morte si dirà nel mondo contro di me». Era nel mondo, ma non fu del mondo. La sua memoria, nonostante la sua aspirazione fosse quella di sparire dai ricordi, rimane viva non per volontà di qualcuno, visto che non ha fondato alcuna congregazione o istituto religioso, ma per la forza di ciò che è stato ed ha rappresentato.Nacque a Castelnuovo d’Asti, oggi Castelnuovo Don Bosco, il 15 gennaio 1811 e morì a Torino il 23 giugno 1860. Era il terzo di tre figli: la sorella Marianna divenne la madre del beato Giuseppe Allamano (1851-1926), rettore del Convitto e del Santuario della Consolata, nonché fondatore dell’Istituto Missioni della Consolata.
          Giovanni Bosco (1815–1888), di soli quattro anni più giovane e suo compaesano, una volta invitò il giovane don Cafasso a vedere i giochi della fiera di Castelnuovo ed ebbe di tutta risposta: «Colui che abbraccia lo stato ecclesiastico si vende al Signore: e di quanto c’è nel mondo, nulla deve più stargli a cuore». Fu sempre gracile e minuto, «era quasi tutto nella voce», diceva don Bosco, eppure fu un gigante nello spirito. Riceve l’ordinazione sacerdotale il 21 settembre 1833 nella chiesa dell’Arcivescovado di Torino e l’anno dopo avviene l’incontro con don Luigi Guala (1775–1848), dalla spiritualità ignaziana, insigne moralista e teologo, il quale ricevette una salda preparazione all’apostolato dal venerabile Pio Brunone Lanteri (1759-1830) di cui fu collaboratore e con il quale fondò il Convitto Ecclesiastio di San Franceso d’Assisi, volto alla formazione del clero torinese, dove don Cafasso entrò nel 1834.Nella terra subalpina prendono vita i moti risorgimentali e la Chiesa, duramente perseguitata sotto Napoleone, ora si appresta, dopo il Regno del cattolico Re Carlo Alberto (1798–1849), salito al trono nel 1831 (molto attento alla riforma del clero, avendo stabilito un fecondo accordo con Papa Gregorio XVI) a ricevere feroci attacchi dal governo liberale e massonico.
          Dal punto di vista spirituale nel Regno di Sardegna è influente l’ École française, quella del teologo e Cardinale Pierre de Bérulle (1575-1629), uno dei protagonisti dell’età della controriforma che, ispirandosi a san Filippo Neri (1515-1595), fondò a Parigi l'Oratorio di Gesù e Maria Immacolata. Bérulle, come Jean-Jacques Olier (1608–1657), Charles de Condren (1588-1641), Giovanni Eudes (1601– 1680), Francesco di Sales (1567- 1622) e Vincenzo de’ Paoli (1581–1660), ha vissuto e lottato per restituire splendore e grandezza allo stato sacerdotale, il «primo ordine del regno», che prima del Concilio di Trento era in larghi strati caduto nella rilassatezza. La formazione sacerdotale avvenne così, per don Cafasso, con gli insegnamenti dei maestri del Grand Siècle, e alle figure ricordate si affiancarono sant’Alfonso Maria de’ Liguori, maestro di morale, e san Carlo Borromeo, maestro di zelo. Cafasso fu anche erede di Nicola Diessbach (1732 – 1798), nativo di Berna, convertito dal calvinismo e fondatore dell’«Amicizia cristiana», opera che ebbe una felice continuazione proprio nel venerabile Pio Brunone Lanteri.
          Padre spirituale, direttore di anime, consigliere di vita ascetica ed ecclesiastica, formatore di sacerdoti, a loro volta formatori di altri preti, religiosi e laici, in una sorprendente ed efficace catena, Cafasso fu rettore per 24 anni del Convitto ecclesiastico, che nel 1870 mutò sede e da via San Francesco si trasferì al santuario della Consolata, dove oggi riposano le sue spoglie. Le sue lezioni erano attraenti perché costruite sulle verità di Fede e sul sapiente bagaglio di conoscenze, ma anche palpitanti di documentazione raccolta dal vivo nel confessionale, al capezzale dei morenti, nelle missioni predicate al clero e al popolo, e nelle carceri, luogo a lui molto caro. Uomo di sintesi e non di pedanti trattazioni, combatté il rigorismo di matrice giansenista. Voleva fare di ogni sacerdote un uomo di Dio splendente di castità, di scienza, di pietà, di prudenza, di carità; assiduo alla preghiera, alle funzioni religiose, al confessionale, devoto di Maria Santissima e attingente forza dal Santo Sacrificio. Primo dovere del prete, diceva, era quello di essere santo per santificare e che «grande vergogna che un sacerdote si lasci anche solo eguagliare in virtù da un laico! Che onta per noi!».
          Fu confessore della serva di Dio Giulia Falletti di Barolo (1786-1864) e fra i sacerdoti da lui formati ricordiamo: san Giovanni Bosco, fondatore dei Salesiani e delle Figlie di Maria Ausiliatrice; Giovanni Cocchi (1813–1895), fondatore di uno dei primi oratori di Torino e del Collegio degli Artigianelli; beato Francesco Faà di Bruno (1825-1888), fondatore dell'Opera di Santa Zita e della congregazione delle Suore Minime di Nostra Signora del Suffragio; Gaspare Saccarelli (1817- 1864), fondatore dell’Istituto della Sacra Famiglia; Pietro Merla (1815 -1855), fondatore del Ritiro di San Pietro in Vincoli; Francesco Bono (1834–1914), fondatore dell’Istituto del Santo Natale; beato Clemente Marchisio (1833-1903), fondatore dell’Istituto delle Figlie di San Giuseppe; Lorenzo Prinotti (1834-1899), fondatore dell’Istituto dei sordomuti poveri; Adolfo Barberis (1884–1967), fondatore delle Suore del Famulato Cristiano.Operò soprattutto per la conversione dei peccatori, dei grandi peccatori. Aveva l’ambizione di portare i condannati a morte subito in Paradiso, senza passare per il Purgatorio e per il recupero dei carcerati, è proprio il caso di dirlo, fece più lui di mille legislazioni.
          Era assiduo delle prigioni Senatorie, tanto da rimanervi fino a tarda notte, a volte tutta la notte. Portava sigari e tabacco da fiutare, al posto della calce che i carcerati raschiavano dai muri; ma soprattutto portava alla conversione ladri e assassini efferati. Erano lenti e tormentati pentimenti, altre volte, invece, si trattava di conversioni immediate, che avvenivano anche a pochi istanti prima dell’impiccagione. Il «prete della forca» usava immensa misericordia, possedendo un’intuizione prodigiosa dei cuori, e trattava i suoi «santi impiccati» come «galantuomini», tanto che il colpevole sentiva così forte l’amore paterno da piegarsi e desiderare di morire per arrivare presto in Paradiso con Gesù, come il buon Ladrone, crocefisso sul Calvario. Intanto le aspirazioni patriottiche si ponevano in contrasto con le intenzioni giacobine e anticristiane. Clero e fedeli venivano spinti a prendere posizioni estreme e Cafasso adottò una linea precisa: intransigente sulla dottrina e sui principi, schierato con la Chiesa e con il Papa, ma ugualmente comprensivo con le anime e saggio moderatore nell’ordine pratico. Al clero piemontese raccomandò di non invischiarsi nelle questioni politiche, perciò non si trovarono più sacerdoti  in Parlamento, approvanti le leggi regaliste o pronti a professare l’errore dai pulpiti.
          Dotato nella docenza di calma, accortezza e prudenza, fu, soprattutto, il grande nemico del peccato, come ha ancora ricordato Benedetto XVI: «Dalla sua cattedra di teologia morale educava ad essere buoni confessori e direttori spirituali, preoccupati del vero bene spirituale della persona, animati da grande equilibrio nel far sentire la misericordia di Dio e, allo stesso tempo, un acuto e vivo senso del peccato».
Cristina Siccardi
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