GLI ANNI FAVOLOSI (1825 - 1835)

 


GLI ANNI FAVOLOSI

(1825 - 1835) 

 


GLI ANNI FAVOLOSI

(1825 - 1835) 

 

1. GIOVANISSIMO SALTIMBANCO

 

Di statura ero piccolo piccolo 

A quale età cominciai a occuparmi dei fanciulli? Me l'hanno domandato tante volte. Posso rispondere che a dieci anni facevo già ciò che mi era possibile, cioè una specie di oratorio festivo. 

Ero piccolo piccolo, ma cercavo di capire le inclinazioni dei miei compagni. Fissavo qualcuno in faccia e riuscivo a leggere i progetti che aveva nella mente. Per questa caratteristica, i ragazzi della mia età mi volevano molto bene, e nello stesso tempo mi temevano. 

Ognuno mi voleva come suo amico o come giudice nelle contese. Facevo del bene a chi potevo, del male a nessuno. Cercavano di avermi amico perché, nel caso di bisticci nel gioco, li difendessi. Infatti di statura ero piccolo, ma avevo una forza e un coraggio che mettevano timore anche ai più grandi. Cosi, quando nascevano risse, liti, discussioni, io ero scelto come arbitro, e tutti accettavano le mie decisioni. 

 

Racconti nei prati e nelle stalle 

Quello che specialmente li attirava intorno a me e li divertiva moltissimo erano i miei racconti. Raccontavo i fatti che avevo ascoltato nelle prediche e al catechismo, le avventure che avevo letto nei Reali di Francia, il Guerin Meschino, Bertoldo e Bertoldino. 

Appena gli amici mi vedevano, mi correvano vicino. Volevano che raccontassi qualcosa, anche se ero così piccolo che a stento capivo ciò che leggevo. 

Ai ragazzi si aggiungevano sovente parecchi adulti. E così, mentre andavo e tornavo da Castelnuovo, attraverso campi e prati, qualche volta ero circondato da centinaia di persone. Volevano ascoltare un povero ragazzo che aveva solo un po' di memoria. Non avevo nessuna cultura, ma tra loro apparivo come un grande sapiente. Dice un vecchio proverbio: « Nel regno dei ciechi, chi ci vede anche solo da un occhio è proclamatore ». 

Nell'inverno, molte famiglie contadine passavano le serate nella stalla (l'ambiente più caldo della casa). Mi invitavano tutti, perché raccontassi le mie storie. Erano tutti contenti di passare una serata di cinque e anche di sei ore ascoltando immobili la lettura dei Reali di Francia. Il piccolo e povero lettore stava ritto sopra una panca, perché tutti potessero vederlo. Curioso il fatto che in giro si diceva: « Andiamo ad ascoltare la predica », perché prima e dopo i miei racconti facevamo tutti il segno della Croce e recitavamo un'Ave Maria.

 

« Saltavo e danzavo sulla corda » 

Nella bella stagione le cose cambiavano, diventavano più impegnative. Nei giorni di festa i ragazzi delle case vicine e anche di borgate lontane venivano a cercarmi. Davo spettacolo eseguendo alcuni giochi che avevo imparato. 

Nei giorni di mercato e di fiera andavo a vedere i ciarlatani e i saltimbanchi. Osservavo attentamente i giochi di prestigio, gli esercizi di destrezza. Tornato a casa, provavo e riprovavo finché riuscivo a realizzarli anch'io. Sono immaginabili le cadute, i ruzzoloni, i capitomboli che dovetti rischiare. Eppure, anche se è difficile credermi, a undici anni io facevo i giochi di prestigio, il salto mortale, camminavo sulle mani, saltavo e danzavo sulla corda come un saltimbanco professionista. 

Ogni pomeriggio festivo, spettacolo. 

Ai Becchi c'è un prato in cui crescevano diverse piante. Una di esse era un pero autunnale molto robusto. A quell'albero legavo una fune, che tiravo fino ad annodarla a un'altra pianta. Accanto collocavo un tavolino con la borsa del prestigiatore. In terra stendevo un tappeto per gli esercizi a corpo libero. 

Quando tutto era pronto e molti spettatori attendevano ansiosi l'inizio, invitavo tutti a recitare il Rosario e a cantare un canto sacro. Poi salivo sopra una sedia e facevo la predica. Ripetevo, cioè, l'omelia ascoltata al mattino durante la Messa, o raccontavo qualche fatto interessante che avevo ascoltato o letto in un libro. Finita la predica, ancora una breve preghiera e poi davo inizio allo spettacolo. Il predicatore si trasformava in saltimbanco professionista. 

Eseguivo salti mortali, camminavo sulle mani, facevo evoluzioni ardite. Poi attaccavo i giochi di prestigio. Mangiavo monete e andavo a ripescarle sulla punta del naso degli spettatori. Moltiplicavo le pallottole colorate, le uova, cambiavo l'acqua in vino, uccidevo e facevo a pezzi un galletto per farlo subito dopo risuscitare e cantare con allegria. 

Finalmente balzavo sulla corda e vi camminavo sicuro come sopra un sentiero: saltavo, danzavo, mi appoggiavo con le mani gettando i piedi in aria, o volavo a testa in giù tenendomi appeso per i piedi. 

Dopo alcune ore ero stanchissimo. Chiudevo lo spettacolo, recitavamo una breve preghiera e ognuno se ne tornava a casa. Dai miei spettacoli escludevo quelli che avevano bestemmiato, fatto cattivi discorsi, e chi si rifiutava di pregare con noi. «Ma per andare alla fiera e ai mercati - mi domanderete -, per assistere agli spettacoli dei prestigiatori, si paga il biglietto. Da dove saltavano fuori i soldi? ». 

Me li procuravo in mille maniere. Mettevo da parte le mance, i regali, le piccole somme che mia mamma e altri mi davano nelle feste per comprare le caramelle. Inoltre ero molto abile a catturare uccelli, che vendevo. Andavo a raccogliere funghi, erbe coloranti, erbe medicinali, che poi vendevo. 

Mi domanderete ancora: « Ma tua mamma era contenta di saperti ai mercati e alle fiere, di vederti fare il saltimbanco? ». Vi dirò che mia mamma mi voleva molto bene. Io le raccontavo tutto: i miei progetti, le mie piccole imprese. Senza la sua approvazione non facevo niente. Lei sapeva tutto, osservava tutto e mi lasciava fare. Anzi, se mi occorreva qualcosa cercava di procurarmelo. Anche i miei amici, quando mi mancava qualcosa per lo spettacolo, me lo imprestavano con piacere.

 

2. INCONTRI

 

La prima Comunione 

Avevo undici anni quando fui ammesso alla prima Comunione. Conoscevo ormai tutto il catechismo, ma nessuno veniva ammesso alla Comunione prima dei dodici anni. Poiché la chiesa era lontana, non ero conosciuto dal parroco. L'istruzione religiosa me la procurava quasi soltanto mia mamma. Essa desiderava farmi compiere al più presto quel grande atto della nostra santa religione, e mi preparò con impegno, facendo tutto quello che poteva. 

Durante la quaresima mi mandò ogni giorno al catechismo. Al termine diedi l'esame, fui promosso, e venne fissato il giorno in cui insieme agli altri fanciulli avrei potuto fare la Comunione di Pasqua. 

Durante la quaresima, mia mamma mi aveva condotto tre volte alla confessione. Mi ripeteva: 

- Giovanni, Dio ti fa un grande dono. Cerca di comportarti bene, di confessarti con sincerità. Domanda perdono al Signore, e promettigli di diventare più buono. 

Ho promesso. Se poi abbia mantenuto, Dio lo sa. Alla vigilia mi aiutò a pregare, mi fece leggere un buon libro, mi diede quei consigli che una madre veramente cristiana sa pensare per i suoi figli. 

Nel giorno della prima Comunione, in mezzo a quella folla di ragazzi e di genitori, era quasi impossibile conservare il raccoglimento. Mia madre, al mattino, non mi lasciò parlare con nessuno. Mi accompagnò alla sacra mensa. Fece con me la preparazione e il ringraziamento, seguendo le preghiere che il parroco, don Sismondo, faceva ripetere a tutti a voce alta. 

Quel giorno non volle che mi occupassi di lavori materiali. Occupai il tempo nel leggere e nel pregare. 

Mi ripeté più volte queste parole: 

- Figlio mio, per te questo è stato un grande giorno. Sono sicura che Dio è diventato il padrone del tuo cuore. Promettigli che ti impegnerai per conservarti buono tutta la vita. D'ora innanzi vai sovente alla comunione, ma non andarci con dei peccati sulla coscienza. Confessati sempre con sincerità. Cerca di essere sempre obbediente. Recati volentieri al catechismo e a sentire la parola del Signore. Ma, per amor di Dio, stai lontano da coloro che fanno discorsi cattivi: considerali come la peste. 

Ho sempre ricordato e cercato di praticare i consigli di mia madre. Da quel giorno mi pare di essere diventato migliore, almeno un poco. Prima provavo una grande ripugnanza a obbedire, ad accettare le decisioni degli altri. Rispondevo sempre a chi mi dava un comando o un consiglio. 

C'era un fatto che mi preoccupava: non c'era nessuna chiesa dove potessi andare a pregare o a cantare con i miei amici. Per ascoltare una lezione di catechismo o una predica, dovevo andare a Castelnuovo o a Buttigliera, cioè camminare per dieci chilometri tra andata e ritorno. Questo era anche il motivo per cui molti venivano volentieri ad ascoltare le mie «prediche di saltimbanco ». 

 

Missione a Buttigliera 

Ci fu una « missione predicata » nel paese di Buttigliera. Vi andai e potei ascoltare molte conversazioni religiose. Veniva gente da ogni parte, attirata dalla celebrità dei missionari. Ogni sera potevamo ascoltare una lezione sulla religione cristiana e fare una meditazione sulle verità eterne. Poi ognuno tornava a casa sua. 

Una di quelle sere tornavo a casa mescolato a molta gente. Tra gli altri, c'era un certo don Calosso, di Chieri, che da poco era venuto come cappellano a Morialdo. Era un prete molto buono, anziano. Camminava tutto curvo, eppure faceva tutta quella strada per ascoltare con noi la « missione ». 

 

Quattro soldi per quattro parole 

Vedendomi così giovane (ricordo che ero piccolo di statura, avevo la testa scoperta, i capelli ricciuti, e stavo in silenzio in mezzo agli altri) mi guardò per qualche istante, poi cominciò a parlarmi: 

- Di dove sei, figlio mio? Sei venuto anche tu alla missione? - Sì, sono stato alla predica dei missionari. 

- Chissà cos'hai capito! Forse tua mamma ti avrebbe potuto fare una predica più opportuna, non è vero? 

- E’ vero, mia mamma mi fa sovente delle buone prediche. Ma mi pare di avere capito anche i missionari. 

- Su, se mi dici quattro parole della predica di oggi, ti do quattro soldi. 

- Vuole che le dica qualcosa sulla prima o sulla seconda predica? 

- Ciò che vuoi. Mi bastano quattro parole. Ti ricordi l'argomento della prima predica? 

- Sì: la necessità di essere amici di Dio, di non ritardare la propria conversione. 

- E che cosa disse il predicatore? - aggiunse il vecchio prete che cominciava a meravigliarsi. 

- Ricordo perfettamente. Le recito tutta la predica. Senza difficoltà esposi l'introduzione, poi i tre punti dello svolgimento: colui che ritarda la propria conversione corre il rischio che gli manchi il tempo, la grazia di Dio o la volontà. Don Calosso mi lasciò esporre per oltre mezz'ora mentre camminavamo tra la gente. Poi mi domandò: 

- Come ti chiami? Chi sono i tuoi genitori? Hai frequentato molte scuole? 

- Mi chiamo Giovanni Bosco. Mio padre è morto quando ero ancora un bambino. Mia madre è vedova con tre figli da mantenere. Ho imparato a leggere e a scrivere. 

- Non hai studiato la grammatica latina? - Non so che cosa sia. 

- Ti piacerebbe studiare? - Moltissimo. 

- Che cosa te lo impedisce? - Mio fratello Antonio. 

- Perché tuo fratello Antonio non vuole che studi? 

- Dice che andare a scuola vuol dire perdere tempo. Ma se potessi andare a scuola, io il tempo non lo perderei. Studierei molto. 

- E perché vorresti studiare? - Per diventare prete. 

- E perché vuoi diventare prete? 

- Per istruire nella religione tanti miei compagni. Non sono cattivi, ma lo diventeranno se nessuno li aiuta. Io voglio stare vicino a loro, parlare, aiutarli. 

Queste mie parole schiette e franche fecero molta impressione su don Calosso, che continuava a guardarmi. Giungemmo così a un incrocio dove le nostre strade si separavano. Mi disse queste ultime parole: 

- Non scoraggiarti. Penserò io a te e ai tuoi studi. Domenica vieni a trovarmi con tua madre, e vedrai che aggiusteremo tutto. 

La domenica seguente entrai nella sua casa insieme a mia mamma. Si misero d'accordo che mi avrebbe fatto un po' di scuola ogni giorno. Il resto della giornata l'avrei passato lavorando nei campi, per accontentare Antonio. Mio fratello fu d'accordo, perché avrei cominciato le lezioni dopo l'estate, quando il lavoro nei campi non è più urgente.

 

La sicurezza di avere una guida 

Da quando cominciai a recarmi da don Calosso, ebbi piena confidenza in lui. Gli raccontai ciò che facevo, ciò che dicevo, gli confidai persino i miei pensieri. Così egli poté darmi i consigli giusti. 

Provai per la prima volta la sicurezza di avere una guida, un amico dell'anima. Per prima cosa mi proibì una penitenza che facevo, non adatta alla mia età. Mi incoraggiò invece ad andare con frequenza alla confessione e alla Comunione. Mi insegnò pure a fare ogni giorno una piccola meditazione, o meglio una lettura spirituale. 

Tutto il mio tempo libero, nei giorni di festa, lo passavo con lui. Nei giorni feriali andavo a servirgli la santa Messa ogni volta che potevo. In quel tempo ho cominciato a provare la gioia di avere una vita spirituale. Fino allora avevo vissuto molto materialmente, quasi come una macchina che fa una cosa ma non sa perché. 

A metà settembre cominciarono le lezioni di italiano. Studiai tutta la grammatica e mi esercitai nei componimenti. A Natale presi in mano la grammatica latina. A  Pasqua cominciai gli esercizi di traduzione dal latino in italiano e dall'italiano in latino. 

In tutto questo tempo non ho mai smesso di dare spettacolo sul prato nella bella stagione, e nelle stalle d'inverno. I fatti che mi raccontava don Calosso, e anche le sue parole, servivano ad irrobustire le mie «prediche». 

Ero felice. Mi sembrava che ogni mio desiderio fosse appagato. Invece una nuova disgrazia, una grave sofferenza, venne a troncare tutte le mie speranze. 

 

3. QUANDO MORI' LA SPERANZA

 

Lo studio e la zappa 

Durante l'inverno, il lavoro in campagna era ridotto quasi a zero. Antonio permise che studiassi quanto volevo. Venuta però la primavera, cominciò a lamentarsi. Diceva che lui doveva logorarsi la vita in lavori pesanti, mentre io facevo il signorino. Ebbe vivaci discussioni con me e con mia madre. Alla fine, per non rompere la pace in famiglia, decidemmo che sarei andato a scuola il mattino presto. Il resto della giornata l'avrei impiegato nei campi. 

Ma come avrei potuto studiare le lezioni e fare le traduzioni? Mi arrangiai così. Andando e tornando da scuola cercavo di studiare. Arrivato a casa, con una mano prendevo la zappa, con l'altra la grammatica. Lungo la strada ripetevo pronomi e verbi. Giunto sul luogo del lavoro, davo un malinconico sguardo alla grammatica, la mettevo in un angolo al sicuro, e insieme agli altri mi mettevo a zappare, a sarchiare, a raccogliere l'erba. 

Quando arrivava l'ora della merenda, mi tiravo in disparte. Con una mano tenevo la pagnotta, con l'altra riprendevo la grammatica e studiavo. Stessa cosa tornando a casa. Il tempo del pranzo, della cena, qualche mezz'ora strappata al sonno erano gli unici tempi in cui potevo fare i compiti scritti. Nonostante tanto lavoro e tanta buona volontà, Antonio non era soddisfatto. Un giorno, con tono deciso, disse a mia madre e a mio fratello Giuseppe: 

- E’ ora di farla finita con quella grammatica. Io sono diventato grande e grosso e non ho mai avuto bisogno di libri. In uno scatto di dolore e di rabbia risposi: 

- Anche il nostro asino non è mai andato a scuola, ed è più grosso di te. 

A quelle parole andò sulle furie, e a stento potei evitare scappando una pioggia di pugni e di schiaffi.

 

Una manciata di giorni felici 

Mia mamma era costernata, io piangevo. Don Calosso, informato dei guai che mi stavano capitando in famiglia, mi chiamò e mi disse: 

- Giovanni, tu hai avuto molta confidenza in me, e non voglio che rimanga deluso. Lascia quel tuo fratello violento, e vieni a stare con me. 

Riferii subito quell'offerta a mia mamma, ed essa ne fu contenta. In aprile cominciai a passare tutta la giornata con il cappellano, tornando a casa solo per dormire. 

Avevo una gioia che nessuno può immaginare. Don Calosso era diventato il mio idolo. Gli volevo bene come a un papà, pregavo per lui, lo servivo volentieri in tutto quello che potevo. Avrei voluto fare cose fantastiche per lui, dare anche la mia vita. Negli studi, facevo più progressi con lui in un giorno che a casa in una settimana. Quell'uomo di Dio mi voleva veramente bene. Più volte mi disse: 

- Non preoccuparti per l'avvenire. Finché vivrò non ti lascerò mancare niente. E se morirò, penserò lo stesso al tuo futuro. 

 

Don Calosso se ne va 

Tutto andava molto bene. Ero pienamente felice, quando un disastro troncò le mie speranze. Una mattina di aprile don Calosso mi aveva mandato dai miei parenti per una commissione. Ero appena arrivato a casa, quando arriva una persona di corsa, e mi avverte di tornare subito da lui. Era stato colpito da apoplessia, chiedeva di vedermi. 

Non corsi, volai. Il mio carissimo don Calosso era a letto, non poteva più parlare. Ma mi riconobbe, mi diede la chiave del cassetto dov'era il denaro, e mi fece cenno di non darla a nessuno. 

Dopo due ore di agonia, se ne andò con Dio. Con lui moriva ogni mia speranza. Ho sempre pregato, e finché vivrò pregherò ogni mattina per quel mio grandissimo benefattore. Quando arrivarono i suoi eredi, consegnai loro la chiave e ogni altra cosa. 

 

4. TANTA STRADA PER ANDARE A SCUOLA 

 

Un chierico dal volto buono 

In quegli anni la divina Provvidenza mi fece incontrare un altro benefattore, don Giuseppe Cafasso di Castelnuovo d'Asti. Era la seconda domenica di ottobre, e gli abitanti di Morialdo festeggiavano la Maternità di Maria SS. Era la festa patronale di quella frazione, e ognuno era allegro e affaccendato. Nei prati si svolgevano giochi e spettacoli, si esibivano ciarlatani e prestigiatori. 

Appoggiato alla porta della chiesa, lontano da ogni gioco e spettacolo, vidi un chierico. Era piccolo nella persona, aveva gli occhi scintillanti e il volto buono. Incuriosito e ammirato dal suo aspetto, mi avvicinai e gli dissi: 

- Reverendo, vuole assistere a qualche spettacolo della nostra festa? Mi dica dove vuole andare, l'accompagnerò. Egli mi chiamò vicino a sé, e con molta gentilezza si informò della mia età, dei miei studi, mi domandò se avevo fatto la prima Comunione, se andavo alla confessione e al catechismo. Gli risposi volentieri. Poi gli ripetei la mia offerta: 

-Vuol vedere qualche spettacolo? 

- Mio caro amico - rispose -, gli spettacoli dei preti sono le funzioni di chiesa. Quanto più la gente vi partecipa con amore, tanto più sono spettacoli che fanno bene al cuore dei sacerdoti. I nostri divertimenti sono la santa Messa, la Comunione, la confessione, da cui nasce la gioia più profonda. Io aspetto che aprano la chiesa per entrare. 

Vincendo un po' di timore gli risposi: 

- Ciò che lei dice è vero. Ma c'è tempo per tutto: tempo per andare in chiesa e tempo per divertirsi. 

Egli si mise a ridere, e mi disse queste parole che erano il programma della sua vita: 

- Chi si fa sacerdote si dona al Signore, e di tutte le cose che capitano nel mondo gli interessa solo ciò che può dare gloria a Dio e far del bene alle anime. 

Pieno di rispetto volli conoscere il nome di quel chierico, che nelle parole e nell'atteggiamento manifestava così profondamente lo spirito del Signore. Venni a sapere che era il chierico Giuseppe Cafasso, studente del primo anno di teologia. Avevo già sentito parlare più volte di lui, come di un giovane santo. 

 

Avvenire incerto 

La morte di don Calosso, come ho detto, era stata per me un vero disastro. Piangevo, e nessuno riusciva a consolarmi. Se ero sveglio, pensavo a lui. Se dormivo, lo sognavo. Le cose andarono tanto in là che mia madre temette seriamente che diventassi malato, e mi mandò per un certo periodo nella casa dei nonni a Capriglio. 

In quel tempo feci un altro sogno. Vidi una persona che mi sgridò severamente, perché avevo messo la mia speranza più negli uomini che nella bontà di Dio, nostro Padre. 

Mi preoccupava, intanto, il pensiero degli studi. Cosa fare per continuarli? C'erano molti bravi preti che lavoravano per il bene della gente, ma non riuscivo a diventare amico di nessuno. Mi capitava sovente di incontrare per strada il parroco e il viceparroco. Li salutavo da lontano, mi avvicinavo con gentilezza, ma loro ricambiavano soltanto il mio saluto, e continuavano la loro strada. 

Più volte, amareggiato fino alle lacrime, dicevo: 

- Se io fossi prete, non mi comporterei così. Cercherei di avvicinarmi ai ragazzi, darei loro buoni consigli, direi buone parole. Chissà perché non posso parlare un poco con il mio parroco? Don Calosso parlava con me. Perché gli altri preti no? Mamma vedeva la mia sofferenza. Per i miei studi tuttavia non aveva speranza di ottenere il consenso di Antonio, che superava ormai i vent'anni. Allora decise di dividere con lui i beni lasciati da mio padre. C'era una grossa difficoltà: io e Giuseppe eravamo minorenni, e questo comportava lunghe pratiche e spese notevoli. Nonostante tutto, la mamma prese questa decisione. 

Così in famiglia rimanemmo in tre: mamma, Giuseppe e io. La nonna era morta alcuni anni prima. 

Quella divisione mi tolse un macigno dallo stomaco e mi diede finalmente piena libertà di studiare. Ma ci vollero molti mesi per completare tutte le pratiche richieste dalla legge. Potei entrare nella scuola pubblica di Castelnuovo soltanto verso il Natale del 1830. Avevo 15 anni. 

 

Giovanni Roberto, sarto e cantore 

La scuola pubblica e il maestro diverso misero a dura prova quel poco che avevo imparato fino a quel giorno. Dovetti quasi ricominciare la grammatica italiana e procedere faticosamente verso quella latina. 

Nei primi tempi andavo da casa a scuola ogni mattina e ogni pomeriggio, percorrendo tra andate e ritorni qualcosa come venti chilometri al giorno. 

Ma appena cominciò sul serio l'inverno, questo ritmo si dimostrò impossibile. Fui messo quindi a pensione da Giovanni Roberto, un brav'uomo che faceva il sarto. 

Era anche un buon cantore dilettante di musica profana e sacra. Poiché anch'io avevo una buona voce, mi insegnò la musica. In pochi mesi potei salire sulla cantoria della chiesa ed eseguire con lui brani di musica sacra. 

Nel tempo libero cominciai anche a divertirmi con ago e forbici. In poco tempo divenni esperto nell'attaccare bottoni, fare orli, eseguire cuciture semplici e doppie. Riuscii anche a perfezionarmi in operazioni più delicate: tagliare la stoffa per confezionare giubbotti, pantaloni, panciotti. 

Il signor Roberto, vedendo i miei progressi nel mestiere, mi fece una proposta seria: diventare sarto a tempo pieno nella sua bottega. Ma il mio programma era diverso: volevo andare avanti negli studi. Mi piaceva imparare molte cose nel tempo libero, ma tutti i miei sforzi erano concentrati sull'obiettivo principale. 

 

Amici e non amici 

In quel primo anno dovetti anche fare i conti con alcuni compagni cattivi. Tentarono di portarmi a giocare in tempo di scuola. Trovai la scusa che non avevo soldi. Mi suggerirono come procurarmeli: rubare al mio padrone e a mia madre. Uno, per convincermi, mi disse sfacciato: 

- È’ tempo che ti svegli. Impara a vivere in questo mondo. Se continui a tenere gli occhi bendati, rimarrai sempre un bambino. Se vuoi una vita spensierata devi procurarti denaro, in una maniera o nell'altra. 

Ricordo che gli diedi questa risposta: 

- Non capisco le vostre parole. Sembra che mi vogliate convincere a diventare un ladro. Ma il settimo comandamento di Dio dice: « non rubare ». Chi diventa ladro fa cattiva fine. D'altra parte, mia madre mi vuol bene. Se le chiedo denaro per cose buone, me lo dà. Le ho sempre obbedito, e non comincerò certo adesso a disobbedirle. Se i vostri amici rubano, sono delinquenti. Se non rubano ma consigliano gli altri a rubare, sono dei mascalzoni. 

Questa mia risposta decisa passò di bocca in bocca, e nessuno ebbe più il coraggio di farmi proposte simili. Anche il professore venne a conoscerla, e da quel momento mi dimostrò più affetto. Persino i genitori di molti miei compagni di scuola furono informati della faccenda, e si dimostrarono contenti che i loro figli diventassero miei amici. 

In breve tempo tornò a formarsi intorno a me un bel gruppo di amici, che mi volevano bene e mi obbedivano come i ragazzi di Morialdo. 

Tutto cominciava ad andare bene per me, quando si verificò un nuovo inconveniente. Il mio insegnante, don Virano, fu nominato parroco di Mondonio, nella diocesi di Asti. Nell'aprile lasciò la scuola. Lo sostituì un altro professore meno abile di lui. Non riusciva assolutamente a ottenere attenzione e silenzio nella classe. In quel disordine, finii per perdere anche ciò che nei mesi precedenti avevo imparato.

 

5. A CHIERI TRE CLASSI IN UN ANNO

 

Ricominciare da capo 

Avevo perso tanto tempo. Per non perderne dell'altro, decidemmo il mio trasferimento a Chieri. Là mi sarei applicato seriamente allo studio. Era il 1831. 

Chi è cresciuto tra i boschi, e ha visto soltanto qualche piccolo paese di provincia, prova grande impressione al vedere una città. 

Fui preso a pensione nella casa di Lucia Matta, nostra compaesana. Era vedova e aveva un figlio solo. Si era trasferita a Chieri per assisterlo e aiutarlo durante gli studi. 

La prima persona che conobbi fu don Eustachio Valimberti, un prete che ricordo con riconoscenza. Mi invitava a servirgli la Messa, e approfittava di quei momenti per darmi ottimi consigli sul modo di comportarmi e di tenermi lontano dai pericoli della città. Mi condusse egli stesso dal Delegato governativo agli studi. Mi presentò pure ai vari professori. 

Siccome gli studi fatti fin allora erano un po' di tutto, cioè un po' di niente, fui consigliato a iscrivermi alla sesta classe (una specie di prima media). 

Dell'insegnante, il teologo Pugnetti, ho un ottimo ricordo. Mi trattò con molta gentilezza. Vedendo la mia età e la mia buona volontà, mi aiutava a scuola, mi invitava a casa sua, non risparmiava fatica per farmi riguadagnare il tempo perduto. Per la mia età (16 anni compiuti) e la mia statura, tra gli alunni piccolini sembravo un pilastro. Era una situazione che mi avviliva. Dopo appena due mesi, avendo ottenuto una splendida pagella, fui ammesso all'esame per passare in quinta. (L'ordine delle classi era decrescente. dalla quinta si passava alla quarta, alla terza, ecc.). 

Entrai volentieri nella nuova classe, perché gli alunni erano un po' più grandi, e il professore era il mio caro amico don Valimberti. 

Passati altri due mesi, ottenni nuovamente splendidi voti. In via eccezionale fui ammesso a un altro esame e promosso alla quarta. 

In questa classe era professore Vincenzo Cima, uomo severo, che teneva in classe la massima disciplina: Al vedersi comparire in scuola, a metà anno, un alunno grande e grosso come lui, disse scherzando: 

- Costui o è una grossa talpa o un grande ingegno. Un po' spaventato da quell'uomo severo dissi: 

- Qualcosa di mezzo. Sono un povero giovane che ha buona volontà di fare il suo dovere e di progredire negli studi. Quelle parole gli piacquero, e con insolita amabilità soggiunse: 

- Se hai buona volontà, sei in buone mani. Non ti lascerò a perdere il tempo. Fatti coraggio. Quando incontri qualche difficoltà, dimmelo immediatamente, e ti aiuterò. 

Lo ringraziai di cuore. 

 

Quando si dimentica un libro 

Ero da circa due mesi nella quarta classe, quando un piccolo incidente fece parlare di me. Il professore di latino spiegava la vita di Agesilao scritta da Cornelio Nepote. Quel giorno avevo dimenticato a casa il libro. Perché il professore non se ne accorgesse, tenevo spalancato davanti un altro libro, la grammatica. 

I compagni se ne accorsero. Uno diede di gomito al vicino, un altro si mise a ridere, la classe cominciò ad agitarsi. 

- Che cosa c'è? - domandò il professore - Che cosa capita? Voglio saperlo immediatamente! 

Vedendo che molti guardavano nella mia direzione, mi comandò di rileggere il testo e di ripetere la sua spiegazione. Mi alzai in piedi tenendo in mano la grammatica, e ripetei a memoria il testo e la spiegazione. I compagni, quasi istintivamente, fecero un « oh » di meraviglia e batterono le mani. 

Il professore andò su tutte le furie: era la prima volta - gridava - che non riusciva a ottenere ordine e silenzio. Mi diede uno scappellotto, che riuscii a scansare piegando la testa. Poi, mettendo una mano sulla mia grammatica, si fece spiegare dai vicini la causa di « quel disordine ». 

- Bosco non ha il Cornelio Nepote. Tiene in mano la grammatica. Eppure ha letto e spiegato come se avesse sotto gli occhi il libro di Cornelio. 

Il professore guardò allora il libro su cui aveva appoggiato la mano, e volle che continuassi la « lettura » del Cornelio ancora per due periodi. Poi mi disse: 

- Ti perdono per la tua felice memoria. Sei fortunato. Procura di servirtene sempre bene. 

Alla fine dell'anno scolastico fui promosso alla terza classe. 

 

6. LA SOCIETA' DELL'ALLEGRIA

 

Imparare a proprie spese 

Nelle prime quattro classi dovetti imparare a mie spese a trattare con i compagni. 

Li avevo divisi mentalmente in tre categorie: buoni, indifferenti, cattivi. I cattivi, appena conosciuti, li evitavo assolutamente e sempre. Gli indifferenti li avvicinavo se ce n'era bisogno e li trattavo con cortesia. I buoni cercavo di farmeli amici, li trattavo con familiarità. 

All'inizio, in città non conoscevo nessuno. Tenevo quindi una certa distanza con tutti. Dovetti tuttavia lottare per non diventare lo schiavetto di nessuno. Qualcuno voleva portarmi in un teatro, un altro a giocare a soldi, un terzo a nuotare nei torrenti. Un tizio voleva arruolarmi in una banda che faceva man bassa di frutta negli orti e nella campagna. Un tale fu così sfacciato da invitarmi a rubare un oggetto prezioso alla mia padrona. 

Mi sono liberato da tutti questi squallidi compagni evitando rigorosamente la loro compagnia man mano che scoprivo di che pasta erano fatti. A tutti dicevo che mia madre mi aveva affidato alla padrona di casa, e che per amore di mia madre non potevo andare da nessuna parte senza il permesso della signora Lucia. 

Questa mia volontaria dipendenza dalla signora Lucia mi procurò anche un utile finanziario. Vedendo che poteva fidarsi di me, mi affidò suo figlio. Era di carattere irrequieto, gli piaceva moltissimo il gioco, pochissimo lo studio. Anche se frequentava una classe superiore alla mia, sua madre mi pregò di dargli ripetizioni. 

Lo trattai come un fratello. Con gentilezza, giocando con lui, riuscii a portarlo in chiesa a pregare. Nello spazio di sei mesi cambiò. A scuola riuscì ad accontentare i professori e a prendere buoni voti. La madre fu così contenta che mi condonò la pensione mensile. 

Ero stimato e obbedito come il capitano di un piccolo esercito. Mi cercavano da ogni parte per organizzare trattenimenti, aiutare alunni nelle case private, dare ripetizioni. 

La divina Provvidenza mi aiutava così a procurarmi il denaro per i libri di scuola, i vestiti e le altre necessità, senza pesare sulla mia famiglia. 

 

Capitano di un piccolo esercito 

Quelli che avevano cercato di farmi partecipare alle loro squallide imprese, a scuola erano un disastro. Così cominciarono a rivolgersi a me in maniera diversa: mi chiedevano la carità di prestare loro il tema svolto, la traduzione fatta. 

Il professore, venuto a conoscere la faccenda, mi rimproverò severamente. « La tua è una carità falsa - mi disse - perché incoraggi la loro pigrizia. Te lo proibisco assolutamente».

Cercai una maniera più corretta per aiutarli. Spiegavo ciò che non avevano capito, li mettevo in grado di superare le difficoltà più grosse. Mi procurai in questa maniera la riconoscenza e l'affetto dei miei compagni. Cominciarono a venire a cercarmi durante il tempo libero per il compito, poi per ascoltare i miei racconti, e poi anche senza nessun motivo, come i ragazzi di Morialdo e di Castelnuovo. 

Formammo una specie di gruppo, e lo battezzammo Società dell'Allegria. Il nome fu indovinato, perché ognuno aveva l'impegno di organizzare giochi, tenere conversazioni, leggere libri che contribuissero all'allegria di tutti. Era vietato tutto ciò che produceva malinconia, specialmente la disobbedienza alla legge del Signore. Chi bestemmiava, pronunciava il nome di Dio senza rispetto, faceva discorsi cattivi, doveva andarsene dalla Società. 

Mi trovai così alla testa di un gran numero di giovani. Di comune accordo fissammo un regolamento semplicissimo: 

1. Nessuna azione, nessun discorso che non sia degno di un cristiano. 

2. Esattezza nei doveri scolastici e religiosi. 

Questo avvenimento mi diede una certa celebrità. Nel 1832 ero stimato e obbedito come il capitano di un piccolo esercito. Mi cercavano da ogni parte per organizzare trattenimenti, aiutare alunni nelle case private, dare ripetizioni. 

La divina Provvidenza mi aiutava così a procurarmi il denaro per i libri di scuola, i vestiti e le altre necessità, senza pesare sulla mia famiglia. 

 

7. I GIORNI DELL'ALLEGRIA E DELLA DISCIPLINA

 

« Se non hai un amico che ti corregga, paga un nemico » 

Nella Società dell'Allegria c'erano giovani splendidi. Ricordo Guglielmo Garigliano di Poirino e Paolo Braje di Chieri. Essi partecipavano volentieri ai nostri giochi, ma prima di tutto eseguivano con impegno i doveri di scuola. Entrambi amavano i giochi rumorosi, ma amavano pure raccogliersi nel silenzio a parlare con Dio. 

Nei giorni di festa, dopo le adunanze che si tenevano nella scuola, ci recavamo nella chiesa di sant'Antonio. I Gesuiti, che gestivano questa chiesa, ci facevano stupende lezioni di catechismo. Raccontavano fatti ed esempi che ricordo ancora oggi. Lungo la settimana, la Società dell'Allegria si radunava nella casa di uno dei soci per parlare di religione. Vi interveniva liberamente chi voleva. Garigliano e Braje erano tra i più assidui. Durante quelle riunioni alternavamo giochi allegri, conversazioni su argomenti cristiani, lettura di buoni libri, preghiere. Ci davamo a vicenda buoni consigli, ci aiutavamo a correggere i difetti personali. Senza saperlo, mettevamo in pratica quelle grandi parole di Pitagora: « Se non hai un amico che ti corregga, paga un nemico che ti renda questo servizio ». 

 

Un professore che anche solo scherzando... 

Non facevamo soltanto riunioni. Andavamo anche insieme ad ascoltare la parola di Dio, alla confessione e alla santa Comunione. 

A quei tempi (è bene che lo ricordi) la religione era uno dei fondamenti dell'educazione. Un professore che anche solo scherzando avesse pronunciato una parolaccia o una mezza bestemmia, veniva immediatamente licenziato. Se questo capitava ai professori, è immaginabile la severità che si usava verso quegli alunni che si ribellavano alla disciplina o davano scandalo. 

Al mattino dei giorni feriali, tutti ascoltavano la santa Messa. All'inizio e al termine della scuola, recitavamo una breve preghiera e l'Ave Maria. 

Nei giorni di festa gli alunni si riunivano in una chiesa fissata dall'autorità scolastica. Ascoltavamo alcuni minuti di lettura spirituale e cantavamo l'ufficio della Madonna. Seguiva la Messa con l'omelia. Alla sera, altra riunione con studio del catechismo, recita del vespro e insegnamento religioso. Ognuno doveva accostarsi ai santi Sacramenti della confessione e della Comunione. Perché nessuno li trascurasse, ricevevamo una volta al mese un biglietto che documentava la nostra confessione. Chi non aveva compiuto questo dovere, non era ammesso agli esami finali, anche se era un ragazzo di buona intelligenza. 

Questa disciplina severa produceva buoni effetti. Un ragazzo trascorreva anni interi senza udire una bestemmia o un discorso cattivo. Gli alunni erano docili e rispettosi, a scuola e in famiglia. Sovente, alla fine dell'anno, classi molto numerose non avevano nemmeno un alunno bocciato. Ricordo che quando frequentai la terza, la seconda e la prima, fummo tutti promossi. 

 

Un canonico simpatico 

In quegli anni scelsi come mio confessore il canonico Meloria della Collegiata di Chieri. Fu l'avvenimento che più mi fece del bene. Ogni volta che mi recavo da lui, mi accoglieva con grande bontà. 

In quel tempo, chi andava alla confessione e alla Comunione più di una volta al mese, era guardato come un mezzo santo. Molti confessori non permettevano di ricevere i Sacramenti così frequentemente. Don Meloria, invece, mi incoraggiò sempre a moltiplicare i miei incontri con il Signore. Se ebbi la forza di non lasciarmi trascinare al male dai compagni peggiori, lo devo a questo suo costante incoraggiamento. 

Negli anni di Chieri non dimenticai gli amici di Morialdo. Di quando in quando, al giovedì, andavo a trovarli. Nelle vacanze autunnali, appena sapevano che stavo arrivando, mi correvano intorno. Organizzavamo sempre una grande festa in quella occasione. 

Anche a Morialdo fondai la Società dell'Allegria. Diventavano soci ogni anno coloro che avevano brillato per la loro bontà. E di anno in anno si allontanavano quelli che non si erano comportati bene, che avevano preso le tristi abitudini della bestemmia e dei discorsi cattivi. 

 

8. INCONTRO CON LUIGI COMOLLO

 

Il rischio di una bocciatura 

Al termine dell'anno di umanità (seconda classe), gli esami furono presieduti dal commissario straordinario professor don Giuseppe Grazzani, illustre per meriti scolastici, inviato dal Consiglio Superiore dell'Istruzione. 

Fu molto cortese con me. Da quell'incontro, che ricordo con gratitudine, nacque un'amicizia che dura ancora. Vive attualmente (1873) a Moltedo Superiore, vicino a Oneglia dov'è nato. Fra le opere di carità che compie, nel nostro collegio di Alassio paga ogni anno la retta per un ragazzo che desideri studiare per diventare sacerdote. 

Gli esami si svolsero molto seriamente. Eravamo 45 esaminandi e fummo tutti promossi alla classe superiore. Solo io corsi il rischio di essere respinto: passai sotto banco la traduzione ad un amico. Solo grazie alla stima del mio carissimo professor Giusiana, domenicano, potei cavarmela. Mi fece assegnare un'altra traduzione, e la eseguii bene. Fui promosso a pieni voti. 

Per disposizione del municipio, in ogni classe almeno un alunno era dispensato dalle tasse scolastiche (lire 12). Per ottenere questo premio occorreva aver riportato i massimi voti di studio e di condotta. Mi andò sempre bene: ogni anno fui dispensato da quel pagamento. 

In quell'anno ho perduto uno degli amici più cari, Paolo Braje. Dopo una malattia lunga, morì il 10 luglio. Avevo cercato di imitare la sua bontà, la rassegnazione alla sofferenza, la sua fede viva. Andò a raggiungere san Luigi, che aveva tanto ammirato nella sua breve vita. Tutta la scuola fu addolorata da quella morte. Partecipammo in massa al suo funerale. Durante le vacanze, in molti andammo più volte a fare la Comunione e a recitare il Rosario per la sua anima. 

Dio volle riempire il vuoto lasciato da Paolo mandandoci un altro amico, buono come lui, che sarebbe addirittura diventato più celebre di lui: Luigi Comollo. 

 

« A forza di schiaffi» 

Il dottor Pietro Banaudi e altri professori, al termine dell'anno di umanità, mi consigliarono di saltare l'anno di retorica (prima classe, corrispondente alla quinta ginnasiale), e di tentare l'esame per essere subito ammesso alla filosofia (liceo classico). 

Diedi quell'esame, fui promosso. Eppure in quel 1834-35 frequentai retorica, perché amavo molto la letteratura. Fu cosi che incontrai Luigi Comollo. 

Di questo splendido giovane ho scritto la vita, perché ognuno possa leggerla per disteso. Qui ricorderò soltanto i giorni del nostro incontro. 

Tra gli alunni del nostro anno correva la voce che sarebbe arrivato un « ragazzo santo ». Si trattava del nipote del parroco di Cinzano, prete anziano e venerato per la sua santità. Avrei voluto conoscere quel ragazzo, ma non ne sapevo nemmeno il nome. Ecco come lo conobbi un giorno. 

Mentre entravamo in classe, molti giocavano a cavallina. Gli scolari più squinternati e meno diligenti erano i campioni di quel gioco pericoloso. 

Un ragazzo arrivato da poco, sui quindici anni, tra tutto quel trambusto prendeva posto tranquillamente nel banco, apriva i libri e studiava. Sembrava non sentire quegli schiamazzi. 

Qualcuno cominciò a guardarlo storto. Uno più insolente degli altri gli andò vicino, lo prese per un braccio e gli gridò: - Vieni a giocare a cavallina anche tu. 

- Non sono capace. Non ho mai giocato a quella roba li - mormorò. 

- Imparerai adesso. O vieni o ti faccio venire a forza di schiaffi. 

- Puoi picchiarmi, se vuoi. Ma io non vengo. 

Quel maleducato prima lo tirò per un braccio, poi gli mollò due schiaffi che risuonarono in tutta la scuola. Mi sentii ribollire il sangue nelle vene. Aspettavo che l'offeso si vendicasse giustamente, tanto più che era più alto e più forte. Invece niente. Con la faccia rossa, quasi livida, diede uno sguardo di compassione a quel farabutto e gli disse: 

- Sei contento? Allora lasciami in pace. Ti perdono. 

Rimasi impressionato: quello era eroismo puro. Cercai subito di sapere il nome di quel giovane: era Luigi Comollo, il « ragazzo santo », il nipote del parroco di Cinzano. 

 

Fecero muro davanti a me 

Da quel momento l'ho sempre avuto come intimo amico. Posso dire che da lui ho imparato a vivere da vero cristiano. Ci siamo capiti e stimati immediatamente. Avevamo bisogno l'uno dell'altro: io di aiuto spirituale, lui di aiuto materiale. Il fatto è che Luigi, timidissimo, non osava nemmeno tentare di difendersi contro gli insulti e le malvagità. Io invece, per il coraggio e la forza gagliarda, ero rispettato da tutti, anche da chi aveva più anni e più forza di me. 

Un giorno alcuni volevano umiliare e picchiare Luigi e Antonio Candelo, un altro bravo ragazzo. Gridai di lasciarli in pace, ma non mi diedero retta. Cominciarono a volare insulti, e io: 

- Chi dice ancora una parolaccia, dovrà fare i conti con me. I più alti e sfacciati fecero muro davanti a me, mentre due ceffoni volavano sulla faccia di Luigi. Persi il lume degli occhi, mi lasciai trasportare dalla rabbia. Non potendo avere tra mano un bastone o una sedia, con le mani strinsi uno di quei giovanotti per le spalle, e servendomene come di una clava cominciai a menare botte agli altri. 

Quattro caddero a terra, gli altri se la diedero a gambe urlando. 

In quel momento entrò il professore, e vedendo braccia e gambe sventolare in mezzo a uno schiamazzo dell'altro mondo, si mise a urlare e a menare schiaffi a destra e a sinistra. 

Calmato un poco il temporale, si fece raccontare la causa di quel disordine, e quasi non credendoci volle che ripetessi la scena. Allora scoppiò a ridere, risero anche gli altri, e il professore dimenticò di castigarmi. 

 

« Sei così occupato a parlare con gli uomini... » 

Ma una lezione me la diede Luigi, appena poté parlarmi a tu per tu. 

- Giovanni - mi disse - la tua forza mi spaventa. Dio non te l'ha data per far del male ai tuoi compagni. Egli vuole che perdoniamo, che ci vogliamo bene, che facciamo del bene a quelli che ci fanno del male. 

Aveva una bontà veramente incredibile. Finii per arrendermi alle sue parole e per lasciarmi guidare da lui. 

Luigi Comollo, Guglielmo Garigliano ed io andavamo sovente insieme alla confessione e alla Comunione, a far meditazione e lettura spirituale, a servire la santa Messa e a far visita a Gesù Sacramentato. Luigi sapeva invitarci con tale bontà e cortesia, che non era possibile dirgli di no. 

Un giorno, mentre parlavo con un amico passai davanti a una chiesa senza togliermi il berretto. In modo molto cortese, Luigi mi disse: 

- Sei così occupato a discorrere con gli uomini, Giovanni, che non ti accorgi nemmeno di passare davanti alla casa del Signore. 

 

9. AVVENIMENTI PICCOLI E GRANDI

 

Tra torte e gelati 

Ho narrato alcune vicende scolastiche. 

Ora racconterò alcuni fatti che possono essere anche divertenti. 

Mentre frequentavo la classe seconda cambiai pensione. Un amico di famiglia, Giovanni Pianta, aveva appena aperto un caffè, e mi invitò a prendere alloggio da lui. Accettai, anche perché la casa era vicina a quella del mio professore don Pietro Banaudi. 

Avere la propria residenza in un pubblico ristorante può essere pericoloso per un giovanotto. Riuscii ad evitare ogni occasione di male perché i padroni erano bravi cristiani, e perché avevo ottimi amici. 

Fatti i compiti e studiate le lezioni, mi rimaneva molto tempo libero. 

Cominciai a dividerlo in due parti. Nella prima leggevo gli autori classici italiani e latini, nella seconda imparavo a confezionare dolci e liquori. 

A metà anno non solo preparavo caffè e cioccolato, ma conoscevo le regole e i segreti per fabbricare gelati, rinfreschi, liquori, torte. 

Il padrone, poiché il suo locale ne ricavava notevoli vantaggi, mi concesse quasi subito la pensione gratuita. Poi mi fece un'offerta concreta perché lasciassi gli studi e mi dedicassi completamente al suo caffè. Ma io volevo continuare a studiare, ad ogni costo. Tutto il resto lo facevo solo per divertimento. 

 

Morte in acqua 

Il professor Banaudi era un insegnante modello. Senza mai castigare nessuno, era riuscito a farsi amare e temere da tutti. Voleva bene ai suoi alunni come fossero suoi figli, ed essi lo ricambiavano. 

Per dargli un segno di riconoscenza, decidemmo di fargli una bella festa nel suo giorno onomastico. Componemmo poesie e brani di prosa, e preparammo alcuni regali che sapevamo gli sarebbero stati molto graditi. 

La festa riuscì splendida. Don Banaudi fu molto contento, e per manifestarci la sua soddisfazione ci condusse a fare un pranzo in campagna. La giornata fu bellissima. Tra il professore e gli allievi c'era una vera corrente di simpatia, e la dimostrammo in mille modi diversi. 

Prima di rientrare in città, don Banaudi incontrò un amico, con cui dovette assentarsi. Nell'ultimo tratto di strada rimanemmo soli. 

Pochi minuti dopo incontrammo alcuni allievi delle classi superiori, che ci invitarono a fare un bagno nel corso d'acqua chiamato Fontana Rossa. Era distante un paio di chilometri. 

Con alcuni amici mi dichiarai contrario. Ma non tutti mi ascoltarono. Mentre molti tornavano a casa con me, alcuni andarono a nuotare. Fu una decisione disgraziata. 

Poche ore dopo il nostro rientro, arriva di corsa uno, poi un altro dei nostri compagni. Spaventati e ansanti dicono: - Filippo è morto. Si, proprio Filippo, quello che ha insistito perché andassimo a nuotare. 

- Ma come? - domandammo increduli -. Filippo a nuoto è il migliore di tutti! 

- Eppure è così. Per farsi vedere coraggioso si è buttato per primo nella corrente, ma non conosceva i gorghi per cui la Fontana Rossa è tristemente famosa. Abbiamo aspettato che tornasse a galla, ma non l'abbiamo più visto. Ci siamo messi a gridare, è accorsa gente. Solo dopo un'ora e mezza alcuni uomini, correndo seri pericoli, sono riusciti a tirare a riva il cadavere. 

Quella disgrazia ci procurò molta tristezza. Nessuno, nè in quell'anno nè in quello seguente, osò più andare a nuotare nei corsi d'acqua. 

Qualche tempo fa mi ritrovai con alcuni vecchi amici, e ricordammo ancora con rincrescimento la triste fine di Filippo nei gorghi della Fontana Rossa. 

 

10. UN AMICO EBREO, GIONA

 

Crisi a 18 anni 

Mentre abitavo presso l'amico Giovanni Pianta, divenni amico di un ragazzo ebreo di nome Giona. Aveva diciott'anni, un volto bellissimo, cantava con una voce vellutata e dolce. Giocava molto bene a bigliardo. 

Ci eravamo conosciuti nel negozio del libraio Elia. Ogni volta che passava di là, per prima cosa domandava notizie di me. Ci volevamo molto bene. La sua amicizia per me aveva manifestazioni quasi incredibili. Ogni momento libero veniva a trascorrerlo nella mia stanza. Passavamo il tempo a suonare il piano, a cantare, a leggere, a raccontare. Gli piaceva specialmente ascoltare i miei mille racconti.

Un giorno entrò in crisi. Si era lasciato andare a una cattiva azione. Era seguita una rissa che gli poteva procurare guai seri. Corse da me per avere un consiglio. Gli dissi: 

- Se fossi cristiano, ti porterei subito a confessarti. Ma per te non è possibile. 

- Ma anche noi, se vogliamo, possiamo confessarci: 

- Il vostro però non è un confessore. È’ un amico che vi ascolta e basta. Non celebra un sacramento, non può darvi il perdono a nome di Dio. Non è nemmeno tenuto al segreto. - Allora, se mi accompagni, vado a confessarmi da un prete. - Ci vuole una lunga preparazione. 

- Quale? . 

- La confessione cristiana perdona i peccati commessi dopo il Battesimo. Quindi, se vuoi ricevere un sacramento, prima di tutto devi venire battezzato. 

- Cosa dovrei fare per ricevere il Battesimo? 

- Studiare la religione cristiana, credere in Gesù Cristo vero Dio e vero uomo. Solo allora potrai essere battezzato. - E che vantaggio mi darà il Battesimo? 

- Ti farà figlio di Dio, ti aprirà il Paradiso. Mediante l'acqua del Battesimo, Dio cancellerà il peccato originale, perdonerà le colpe commesse finora, e ti farà entrare nella sua Chiesa dove potrai ricevere tutti i Sacramenti della salvezza. 

- Ma noi ebrei non possiamo salvarci? 

-Dopo la venuta del Figlio di Dio sulla terra, Gesù Cristo, la strada ordinaria della salvezza per tutti è credere in lui. 

- Se mia madre venisse a sapere che penso a diventare cristiano, per me sarebbero guai. 

- Non avere paura. Dio è padrone dei cuori. Se egli ti chiama a essere cristiano, farà in maniera che tua madre sia contenta, o comunque aggiusterà le cose. 

- Tu sei mio amico. Cosa faresti al mio posto? 

- Comincerei a informarmi seriamente sulla religione cristiana. Intanto Dio farà capire ciò che vuole da noi. Prendi un catechismo e leggilo con attenzione. E prega Dio che ti aiuti a conoscere la verità. 

 

Il dramma familiare 

Da quel giorno cominciò ad affezionarsi alla religione cattolica. Quando veniva al caffè, dopo una partita a bigliardo mi cercava per discutere. Approfondivamo insieme le risposte del catechismo e i problemi della religione. 

In pochi mesi imparò il segno della Croce, il Padre nostro, l'Ave Maria, il Credo e le verità fondamentali della fede. Era molto contento. Si notava di giorno in giorno che diventava migliore nella conversazione e nel comportamento. 

Aveva perso il padre quando ancora era un ragazzino. La madre, di nome Rebecca, all'inizio sentì soltanto qualche voce sul cambiamento di idee di suo figlio, ma non ci badò. 

Il dramma familiare scoppiò quando un giorno, nel rifargli il letto, la madre trovò il catechismo su cui Giona studiava. Si mise a gridare per la casa. Poi andò dal Rabbino, portandogli il catechismo. Sospettò che la causa di tutto fossi io, perché aveva sentito parlare molte volte di me da suo figlio. E venne ad affrontarmi. 

Come Giona era uno splendido ragazzo, sua madre era purtroppo una donna molto brutta. Aveva un grosso naso, aveva perso la vista di un occhio ed era piuttosto sorda. Anche la bocca era brutta: labbra gonfie, un po' storte, pochi denti. Il mento era lungo e appuntito. Pure la voce era sgradevole. Gli ebrei, che chiamano Lilith il mago che deve spaventare i bambini cattivi, chiamavano questa donna Maga Lilith. 

Mi affrontò con ira e amarezza, tanto che ne ebbi paura. Mi disse: 

- Sei tu la causa di questa disgrazia. Il mio Giona me l'hai rovinato tu. L'hai disonorato davanti alla gente. Finirà per diventare cristiano, e non so cosa gli capiterà. 

Usai le parole migliori che possedevo. Con calma le dissi che doveva esser contenta, perché io facevo del bene a suo figlio. - Del bene? E’ un bene rinnegare la propria religione? - Buona signora, cerchi di calmarsi e di ragionare. Io non sono andato in cerca di suo figlio. Ci siamo incontrati nella bottega del libraio Elia e siamo diventati amici. Egli mi è molto affezionato, e anch'io gli voglio bene. Da vero amico voglio che salvi la sua anima, che conosca la religione cristiana, unica via di salvezza. Noti bene, signora, che io a suo figlio ho dato soltanto un libro, e l'ho solo invitato a informarsi seriamente sulla religione cristiana. Se egli diventerà cristiano, non abbandonerà la religione ebraica, ma la vivrà con maggiore perfezione. - Se per disgrazia si farà cristiano, dovrà abbandonare i nostri profeti. I cristiani non credono in Abramo, Isacco, Giacobbe, in Mosè e negli altri profeti. 

- Non è vero. Noi veneriamo i santi patriarchi della Bibbia, crediamo nei profeti del popolo ebreo. I loro scritti, le loro parole, le loro profezie, sono il fondamento della fede cristiana. 

- Se ci fosse qui il nostro Rabbino, ti saprebbe rispondere. Io non conosco nè la Mishnù nè la Ghemarà (le due parti del Talmud). So soltanto che il mio povero Giona è rovinato. Dopo queste parole se ne andò. Dovrei riempire parecchie pagine per raccontare gli incontri minacciosi che ebbi col Rabbino, i parenti di Giona, e ancora con la madre. Ma specialmente Giona subì minacce e violenze. Sopportò tutto con coraggio, e continuò a istruirsi nella fede. 

In famiglia non era più al sicuro. Dovette allontanarsi da casa e vivere in condizioni precarie. Molte persone però lo aiutarono. Un sacerdote molto istruito, a cui raccontai tutto, lo prese sotto la sua protezione, e lo aiutò ad approfondire la preparazione al Battesimo. 

Ora Giona era impaziente di diventare cristiano. 

(Il 10 agosto, nel duomo di Chieri) ci fu la festa del Battesimo. L'avvenimento fu un buon richiamo alla fede per tutti i chieresi, e fece riflettere alcuni ebrei, che più tardi abbracciarono il Cristianesimo. 

Il padrino e la madrina furono Carlo e Ottavia Bertinetti, che pensarono al nuovo cristiano come a un loro figlio. Mediante il loro aiuto, Giona poté trovare un buon posto di lavoro per guadagnarsi onestamente la vita. Il nome cristiano di Giona fu Luigi. 

« Giona » è il nome fittizio con cui don Bosco vuol coprire quello vero, oppure è il soprannome con cui i compagni chiamavano Giacomo Levi. Nei registri ufficiali di Chieri si può leggere l'atto ufficiale del battesimo, redatto in lingua latina: « Il 10 agosto, io Sebastiano Schioppo, teologo e canonico... ho battezzato solennemente il giovane Giacomo Levi, di 18 anni, e gli ho posto il nome di Luigi... ». 

 

11. MAGIA BIANCA

 

«Bruciavo i miei 'capolavori'» 

I miei giorni si srotolavano tra studi e vita con gli amici. Ci divertivamo con il teatro, il canto, la musica strumentale. Avevo una memoria felice. Sapevo a memoria vasti brani di prosatori e poeti classici. Dante, Petrarca, Tasso, Parini, Monti e altri poeti li conoscevo così bene che li maneggiavo e adattavo come roba mia. Era così molto facile per me improvvisare versi su qualunque argomento. 

Negli spettacoli che allestivamo, ero sempre pronto a cantare, suonare, improvvisare poesie. Queste mie composizioni erano giudicate capolavori. Erano invece soltanto brani di poeti celebri, adattati alle varie circostanze. 

Per questo non ho mai prestato le « mie poesie » ad altri. Se per caso le scrivevo, bruciavo subito tutto. 

 

Tornano i giochi di prestigio 

In quel tempo ho imparato giochi nuovi: carte, tarocchi, bocce, piastrelle, salti e corse anche sui trampoli. Non in tutto ero giocatore celebre, ma sapevo cavarmela bene. 

Alcuni giochi, come ho già raccontato, li avevo imparati sui prati di Morialdo. Ma se là ero un principiante, qui divenni un maestro. Erano giochi poco conosciuti, e perciò sembravano cose dell'altro mondo. 

Con i giochi di prestigio davo spettacolo in pubblico e in privato. E qui la meraviglia si sprecava. Veder uscire da una scatola minuscola decine e decine di pallottole più grosse della scatola, veder spuntare da un sacchetto microscopico decine e decine di uova, faceva trattenere il fiato per lo stupore. 

Altri giochi impressionavano ancora di più. Raccoglievo palloni sulla punta del naso degli spettatori, indovinavo il denaro che qualcuno aveva nel portafoglio. Col semplice contatto delle dita riducevo in polvere monete di metallo. Invitavo alcuni a guardare gli spettatori, e invece di persone vedevano orribili animali, o vedevano persone senza testa. 

Questi ultimi giochi scossero i nervi a qualcuno, che cominciò a sospettare che fossi un mago, che agissi con la forza del diavolo. 

 

Il galletto vivo di Tommaso Cumino 

Una di queste persone impressionabili era il mio nuovo padrone di casa, Tommaso Cumino. Cristiano fervoroso, ma anche molto ingenuo, amava scherzare. E io ne approfittavo per fargliene di tutti i colori. 

Nel giorno del suo onomastico, aveva preparato un pollo in gelatina per i suoi pensionati. Lo portò in tavola in un tegame. Scoperchiato il tegame, saltò fuori un galletto vivo, che tutto spaventato si mise a cantare e a svolazzare. 

Un'altra volta preparò una pentola di spaghetti, e quando fu il momento di scolarli, nel colabrodo si rovesciò una massa di crusca asciuttissima. 

Molte volte riempiva la bottiglia di vino, e mescendo nei bicchieri trovava acqua schietta. Quando poi voleva acqua, si trovava il bicchiere pieno di vino. Altri scherzi abbastanza frequenti erano la frutta cambiata in fette di pane, le monete del borsellino trasformate in pezzi di latta arrugginita, il cappello trasformato in cuffia da notte, noci e nocciole sostituite da ghiaia di strada. 

Ad un certo punto, il povero signor Tommaso si spaventò. Pensava: 

- Gli uomini non possono far queste cose. Dio non perde tempo in simili sciocchezze. Quindi a fare tutto questo è il diavolo. 

Non osando parlare con nessuno della cosa, si confidò con un prete che abitava vicino, don Bertinetti. Questo sacerdote credette di vedere in quei fatti la « magia bianca ». Riferì ogni cosa al delegato delle scuole, canonico Burzio, arciprete del Duomo. 

Don Burzio era una persona molto istruita e prudente. Senza dir niente a nessuno, mi invitò per un colloquio. 

 

« O tu servi il diavolo, o il diavolo serve te » 

Giunsi nel suo ufficio mentre recitava il Breviario. Mi guardò con un sorriso e mi fece cenno di attendere un minuto. Alla fine mi invitò a seguirlo in un secondo ufficio. Con parole cortesi ma con volto severo cominciò l'interrogatorio. 

- Mio caro, sono molto contento dei tuoi studi e della tua condotta. Ma ora mi hanno raccontato certe cose di te... Mi dicono che conosci i pensieri degli altri, conti il denaro che ognuno tiene in tasca, fai vedere bianco ciò che è nero, conosci le cose lontane... Ci sono molti che parlano di te. Qualcuno sospetta che tu conosca la magia, che sia in contatto con il diavolo. Devi rispondermi sinceramente: chi ti ha insegnato queste cose? dove le hai imparate? Ciò che mi dirai, rimarrà un segreto tra me e te. Ti do la mia parola che me ne servirò soltanto per farti del bene. 

Senza scompormi, chiesi cinque minuti per rispondere, e lo pregai di dirmi l'ora esatta. Mise la mano nel taschino, e non trovò più l'orologio. 

- Se non ha l'orologio - gli dissi - mi dia almeno una moneta da cinque soldi. 

Si frugò in tasca, e non trovò più il borsellino. Allora perse la calma e alzò la voce: 

- Mascalzone! O tu servi il diavolo, o il diavolo serve te. Mi hai già rubato l'orologio e il borsellino. Sono obbligato a denunciarti, e potrei anche prenderti a bastonate. 

Vedendomi però calmo e sorridente, cercò di ricomporsi, e continuò con voce più controllata. 

- Prendiamo le cose con calma. Spiegami questo mistero. Com'è possibile che l'orologio e il borsellino siano usciti dalle mie tasche senza che io me ne sia accorto? E dove sono andati? 

Risposi rispettosamente: 

- Signor arciprete, le spiego tutto in due parole. È tutta questione di velocità di mani, di trucchi preparati con abilità. - Cosa c'entrano i trucchi col mio orologio e la mia borsa? - Le spiego. Quando sono giunto nella sua casa, lei stava dando l'elemosina a un povero. Subito dopo mise il borsellino sopra l'inginocchiatoio. Quando poi ci siamo spostati dal primo al secondo ufficio, ha lasciato l'orologio sul tavolino. Con alcuni gesti ben calcolati ho nascosto l'uno e l'altro sotto questo paralume. 

Così dicendo, alzai il paralume, e apparvero i due oggetti che il canonico aveva creduto rubati dal diavolo. Il brav'uomo scoppiò a ridere, e rise per un bel pezzo. Volle che gli facessi vedere qualche altro trucco, con cui facevo sparire e riapparire le cose. Alla fine era tutto allegro, mi fece un piccolo regalo, e concluse: 

- Di' ai tuoi amici che la meraviglia è figlia dell'ignoranza. 

 

12. LE OLIMPIADI DI GIOVANNI BOSCO

 

« Andava con la velocità di un treno » 

Le accuse di « magia bianca » non turbarono il ritmo della nostra vita. Tornammo a riunirci, a dare spettacoli e a divertirci. In quel tempo arrivò a Chieri un saltimbanco che iniziò i suoi spettacoli con una poderosa corsa a piedi: percorse la città da un'estremità all'altra in due minuti e mezzo, cioè alla velocità di un treno. Alcuni miei amici me ne parlarono con occhi dilatati, come di un fenomeno. 

Senza badare alla conseguenza delle mie parole, dissi che avrei dato chissà che cosa per provare a batterlo. Un compagno imprudente riferì la cosa al saltimbanco, che accettò immediatamente la sfida. Per Chieri si sparse in un lampo la notizia: uno studente sfida un campione professionista. 

Il luogo scelto per la prova fu il viale di Porta Torinese. La scommessa era di venti lire. Io non avevo una somma simile, ma molti amici della Società dell'Allegria la misero insieme. 

Una moltitudine di gente venne ad assistere alla sfida. Al via, il saltimbanco mi prese alcuni metri di vantaggio ma presto riguadagnai il terreno perduto, e lo staccai in modo clamoroso. A metà corsa si fermò e mi diede partita vinta. - Chiedo la rivincita al salto. Ma voglio scommettere 40 lire, e anche più se vuoi. 

 

80 lire sulla punta di una bacchetta magica 

Accettammo. Scelse lui il luogo. Bisognava balzare al di là di un fosso, contro un parapetto che si ergeva vicino a un piccolo ponte. Saltò per primo, e mise il piede cosi vicino al parapetto, che più in là non si poteva saltare. Potevo perdere, non certo vincere. Tuttavia studiai un espediente. Feci un salto identico al suo, ma appoggiando le mani sul parapetto, prolungai il salto al di là del muro (un rudimentale «salto con l'asta»). Fui sommerso dagli applausi. 

- Voglio ancora lanciarti una sfida. Scegli qualunque gioco di destrezza. 

Accettai. Scelsi il gioco della bacchetta magica, con la scommessa che saliva a lire 80. Presi una bacchetta, a una estremità misi un cappello, poi appoggiai l'altra estremità sulla palma della mano. Senza toccarla con l'altra, la feci saltare sulla punta del dito mignolo, dell'anulare, del pollice. Quindi la feci saltare sul dorso della mano, sul gomito, sulla spalla, sul mento, sulle labbra, sul naso, sulla fronte. Rifacendo lo stesso cammino, la bacchetta tornò sulla palma della mia mano. 

- Stavolta non perderò - disse con sicurezza. – È’ il mio gioco preferito. 

Prese la medesima bacchetta, e con meravigliosa destrezza la fece camminare fin sulle labbra. Ma aveva il naso troppo lungo, la bacchetta vacillò, perse l'equilibrio, e dovette prenderla con la mano per non lasciarla cadere. 

 

«Eravamo contenti di perdere» 

Quel poveretto vedeva andare in fumo tutti i suoi risparmi, e quasi furioso esclamò: 

- Accetto qualunque umiliazione, ma non quella di essere battuto da uno studente. Ho ancora cento lire e le scommetto tutte su un'arrampicata. Vincerà chi riesce a mettere i piedi più vicini alla punta di quell'albero. 

Così dicendo indicò un olmo vicino al viale. Accettammo anche questa volta, e in un certo modo eravamo contenti di perdere, perché avevamo compassione di lui. Non volevamo rovinarlo. 

Salì per primo, e portò i piedi tanto in alto che, se fosse salito una spanna di più, l'albero si sarebbe piegato e lui sarebbe precipitato. Tutti dicevano che più in su era impossibile. 

Toccò a me. Salii fin dov'era possibile senza far piegare la pianta. Allora, tenendomi con le mani all'albero, alzai il corpo in verticale, e posi i piedi circa un metro oltre l'altezza raggiunta dal mio rivale. Giù in basso scoppiarono applausi. 

 

Una tavolata di 22 studenti 

I miei amici si abbracciavano di gioia, il saltimbanco era nero di rabbia, e io ero orgoglioso di aver vinto non contro ragazzi come me, ma contro un campione professionista. Quell'atleta però era triste fino a piangere. Abbiamo avuto compassione di lui, e gli abbiamo restituito il denaro a una condizione: che venisse a pagarci un pranzo all'albergo del Muletto. Si sentì rivivere e accettò immediatamente. Andammo al pranzo in ventidue: tutti i componenti della Società dell'Allegria. Il pranzo gli costò 25 lire. Le lire che invece poté rimettersi in tasca furono 215. 

Quello fu veramente un giovedì di grande allegria. Io mi ero coperto di gloria battendo quattro volte un saltimbanco. I miei compagni avevano condiviso il mio trionfo con vivissima gioia, e avevano avuto un ottimo pranzo. Anche il saltimbanco era contento, perché aveva riavuto quasi tutto il suo denaro. Allontanandosi da noi ci ringraziò dicendo: 

- Ridandomi questo denaro, avete impedito la mia rovina. Vi ringrazio di cuore. Vi ricorderò con piacere, ma non farò mai più scommesse con gli studenti 

 

13. FAME DI LIBRI

Due terzi della notte a leggere 

Mi direte: « Se passavi tanto tempo a divertirti, quando studiavi? ». 

Non vi nascondo che avrei potuto studiare di più. Ma per imparare tutto il necessario mi bastava l'attenzione a scuola. In quel tempo avevo una memoria così felice che per me non c'era differenza tra leggere e studiare. Potevo con facilità esporre il contenuto di qualunque libro che avessi letto o sentito raccontare. Mia madre, inoltre, mi aveva abituato a dormire molto poco. Potevo quindi passare due terzi della notte a leggere libri, e spendere poi quasi tutta la giornata in attività libere. Davo ripetizioni e facevo lezioni private. Facevo tutto per amicizia e per carità, non per guadagno. Molti però mi pagavano ugualmente. 

C'era in Chieri un libraio ebreo, Elia. Feci con lui un patto per leggere tutti gli scrittori classici italiani. Gli davo un soldo per ogni libro che mi prestava, e che gli restituivo a lettura terminata. I volumetti della biblioteca popolare li lessi al ritmo di uno al giorno. 

 

L'alba illuminava le pagine di Tito Livio 

Nell'anno della quarta ginnasiale lessi gli autori italiani. Nell'anno di retorica attaccai gli autori classici latini: Cornelio Nepote, Cicerone, Sallustio, Quinzio Curzio, Tito Livio, Cornelio Tacito, Ovidio, Virgilio, Orazio ed altri. 

Quei libri li leggevo per divertimento. Mi piacevano, mi sembrava di capirli perfettamente. Solo più tardi mi accorsi che non era cosi. Quando divenni sacerdote, e facendo scuola cercai di spiegare ad altri quei capolavori, capii che solo con uno studio approfondito e una grande preparazione si riesce a capirne perfettamente il senso e la bellezza. 

Gli impegni di scuola, le ripetizioni, la lettura prolungata, occupavano la mia giornata e buona parte della mia notte. L'ora della levata arrivò più volte mentre tenevo ancora in mano la storia di Tito Livio, che avevo cominciato a leggere la sera precedente. 

Questo ritmo frenetico rovinò seriamente la mia salute. Per alcuni anni dovetti sopportare uno sfinimento mortale. Quindi io consiglierò sempre di fare quello che si può e non di più. La notte è fatta per riposare. Dopo cena nessuno deve impegnare la mente in studi difficili, eccetto che sia proprio una necessità. Un uomo robusto 

può reggere per un po' di tempo, ma finirà sempre per danneggiare la sua salute. 

 

14. CHE COSA FARO' DELLA MIA VITA

Non volevo credere ai sogni 

Mi avviavo al termine dell'anno di umanità. Anche per me era giunto il tempo di pensare seriamente a cosa avrei fatto nella vita. 

Il sogno che avevo fatto ai Becchi mi era sempre fisso in mente. Devo anzi dire che quel sogno si era rinnovato più volte, in maniera sempre più chiara. Se volevo credere a quel sogno, dovevo pensare a diventare sacerdote. Avevo anche una certa inclinazione a diventarlo. 

Ma non volevo credere ai sogni. E poi la mia maniera di vivere, certe abitudini che avevo preso, la mancanza totale delle virtù che sono necessarie ai sacerdoti, mi rendevano molto incerto. La mia era una scelta molto difficile. Quante volte avrei voluto avere una guida spirituale che mi aiutasse in quei momenti. Per me sarebbe stato un vero tesoro, ma questo tesoro mi mancava. Avevo un buon confessore che mi aiutava ad essere un cristiano onesto, ma non volle mai parlare di vocazione. 

Riflettei a lungo. Lessi alcuni libri sulla vocazione alla vita religiosa e sacerdotale. Alla fine decisi di entrare tra i Francescani. 

Ragionavo così: - Se divento prete in mezzo al mondo, corro il rischio di fallire. Diventerò prete, ma non vivrò in mezzo alla gente. 

Mi ritirerò in un convento, mi dedicherò allo studio e alla meditazione. Nella solitudine mi sarà più facile combattere le passioni, specialmente l'orgoglio, che ha già messo profonde radici nel mio cuore. 

 

«Dio ti prepara un altro campo» 

E così feci domanda di entrare tra i Francescani conventuali riformati. Diedi l'esame per l'ammissione, fui accettato. Ormai tutto era pronto per la mia entrata nel Convento della Pace, in Chieri. 

Mancavano pochi giorni all'entrata quando feci uno dei sogni più strani. Vidi una grande quantità di quei religiosi che portavano vesti strappate e correvano in direzioni diverse. Uno di loro venne verso di me e mi disse: 

- Tu cerchi la pace, ma qui pace non troverai. Non vedi come si comportano i tuoi fratelli? Dio ti prepara un altro luogo, un campo di lavoro diverso. 

In sogno volevo rivolgere qualche domanda a quel frate, ma un rumore mi svegliò e ogni. cosa scomparve. 

Andai dal mio confessore e gli esposi tutto. Non volle sentire parlare né di sogni né di frati. Mi disse: 

- In queste cose ognuno deve seguire le sue inclinazioni, non i consigli degli altri. 

 

Una lettera che rischiara l'orizzonte 

Proprio in questo tempo capitò un fatto che mi mise nell'impossibilità di entrare subito tra i Francescani. Credevo fosse una difficoltà passeggera, invece arrivarono altri ostacoli ancora più grandi. 

Decisi allora di confidarmi con il mio amico Luigi Comollo. Ecco il suo consiglio: fare una novena e scrivere una lettera a suo zio parroco. 

L'ultimo giorno della novena, in sua compagnia ho fatto la confessione e la Comunione. Poi, nel duomo, ascoltammo una Messa e ne servimmo un'altra all'altare della Madonna delle Grazie. Tornati a casa, trovammo una lettera con la risposta di don Comollo, lo zio di Luigi. Diceva: 

- Tutto considerato, io consiglierei il tuo compagno di non entrare in convento. Vesta l'abito dei chierici, e mentre proseguirà gli studi verrà a conoscere sempre meglio ciò che Dio vuole da lui. Non abbia paura di perdere la vocazione. Con la ritiratezza e le pratiche di pietà supererà ogni ostacolo. 

Ho seguito quel consiglio sapiente, e cominciai a fare letture e riflessioni che mi aiutassero nella preparazione a indossare l'abito dei chierici. 

 

Il colèra incombe su Torino 

Superai l'esame di retorica. Subito dopo sostenni quello necessario per entrare in seminario. Avrei dovuto dare questo secondo esame a Torino, ma la città era minacciata dal colèra, che serpeggiava nei paesi circostanti. Lo sostenni quindi nella casa Bertinetti, che in quel momento era affittata dal canonico Burzio, e che il signor Carlo Bertinetti avrebbe poi lasciato in eredità ai miei Salesiani. 

Di passaggio, voglio sottolineare un dato, per far capire qual era l'atmosfera religiosa delle scuole di Chieri. In quattro anni non ricordo di aver ascoltato nemmeno un discorso cattivo o una parola contro la religione. 

Finimmo il corso di retorica in venticinque. Tre proseguirono il corso di studi per diventare medici. Uno divenne commerciante. Gli altri ventuno cominciarono gli studi seminaristici per diventare sacerdoti. 

In quelle vacanze scolastiche smisi di fare il saltimbanco, e mi diedi alla lettura di libri religiosi. Devo confessare con vergogna che fino a quel tempo li avevo trascurati. 

Ho però continuato a occuparmi dei ragazzi. Li attiravano i miei racconti, i giochi vivaci, i canti. Molti, anche tra i più grandi, non conoscevano le verità della fede. Tra giochi e racconti insegnavo loro il catechismo e le preghiere cristiane. Era una specie di oratorio: una cinquantina di ragazzi che mi amavano e mi obbedivano come se fossi stato loro padre. 

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