Tra un evento e i suoi partecipanti c'è ancora un rapporto diretto? O sono le fotocamere a guardare al posto nostro? E siamo ancora capaci di raccontare un evento?
del 30 maggio 2012 (function(d, s, id) { var js, fjs = d.getElementsByTagName(s)[0]; if (d.getElementById(id)) return; js = d.createElement(s); js.id = id; js.src = '//connect.facebook.net/it_IT/all.js#xfbml=1'; fjs.parentNode.insertBefore(js, fjs);}(document, 'script', 'facebook-jssdk')); 
          Succede a ogni passaggio del Papa. Ma anche ai concerti, alle prime Comunioni, ai saggi scolastici di fine anno: a guardare (e ad ascoltare) sono rimasti quattro gatti, mentre gli altri sono impegnati a riprendere. Compulsivamente, come i giapponesi. Chi ha in mano una fotocamera, una cinepresa o un cellulare, non ce la fa a non usarlo. E rimanda il guardare a dopo, quando le immagini finiranno su Facebook o su YouTube.
          S'è capito ormai che non esiste evento senza documento... al punto che è il documento a rendere vero l'evento. È questa, probabilmente, la causa del nostro smettere di guardare, per curare solo il documentare. E forse per lo stesso motivo mio figlio e la sua ragazza si fotografano baciandosi: così un grande amore diventa più credibile per tutti, in primis per loro due (se non lo documentassero, avrebbero e darebbero la sensazione di aver scalato l'Everest senza fornirne le prove).
Questa smania di riprendere fa nascere anche altre domande.
          1. Le immagini restano l'unico linguaggio affidabile per dare testimonianza? Soltanto loro garantiscono se una cosa è successa o no, soltanto loro sono credibili e inconfutabili? Bei tempi quando un avvenimento si viveva in diretta, senza mediazioni, con tutti i sensi coinvolti... e si raccontava a parenti e amici il prodigio a cui s'aveva avuto il privilegio di assistere.
          2. Se si è così preoccupati di documentare, quand'è che si guarda e si ascolta? Per immortalare l'evento, non si dà la morte alla partecipazione?
          3. Ci si rende conto della bassa qualità delle immagini? Per quanto colorate e festose, pare servano solo a dire «C'ero anch'io», senza essere attraenti per chi non c'era. E poi si assomigliano tutte. Un esempio: quella che riprende i giovani in cerchio, visti dal basso, non è una 'nuova idea' ormai vecchia? Un luogo comune che vale quanto la foto della mano che sorregge la torre di Pisa?
          Sarebbe grave se l'estinzione degli spettatori si estendesse, per contagio, a un'altra categoria: quella dei fotografi professionisti, che almeno sanno che cosa e come inquadrare. In altre parole, se gli spettatori vengono uccisi dai nuovi strumenti di ripresa, i professionisti lo sono dai fotografi dilettanti, convinti che «su 50 scatti, 2 o 3 verranno bene per forza».
          Bisogna invece essere grati ai fotografi veri, quando sono capaci di farci notare una realtà che ci è sfuggita. Oppure ci offrono qualcosa di già visto in una luce nuova, o in un accostamento nuovo. Con un gesto d'amore analogo a quello di chi ci prepara da mangiare. E non è un caso che in alcune lingue e dialetti il verbo insegnare sia sostituito da mostrare.
          In più i fotografi testimoniano. Assicurando, con le loro immagini, che certi mondi esistono, aumentano il tasso di verità nel dire che cosa c'è nel pianeta. Soprattutto se non confermano la verità proclamata dai media e da Internet, nei quali siamo convinti ci sia tutto. Se ci sono dei mondi mancanti, mai apparsi, non è perché non esistano o siano spariti: è che non vengono ripresi né mostrati. Certo, a questi mondi mancanti i fotografi vanno pure indirizzati e accompagnati. Uno è l'oratorio. Se non fosse per alcuni campioni che hanno ammesso d'aver dato lì i primi calci al pallone, o per alcuni attori che hanno calcato lì il primo palcoscenico, se non fosse per Celentano, che cantava «quelle domeniche da solo, in un cortile a passeggiar... neanche un prete per chiaccherar», tantissimi ignorerebbero quanto la parrocchia è stata importante nella giovinezza degli italiani. E potrebbero essere indotti a pensare che le strutture gestite da sacerdoti e religiosi non abbiano prodotto altro che situazioni morbose.
          Un ulteriore mondo mancante è il seminario. Ogniqualvolta nei giornali si parla di preti e occorre un'immagine, si va a spulciare tra le foto di Mario Giacomelli: i suoi seminaristi che fanno il girotondo, tanto festosi e grafici, sono diventati una foto simbolica, un logo culturale. Ma sono veri? O piacciono per la loro ambiguità? Per il loro essere fuori dal mondo? Così come i film che, per mostrare le suore, utilizzano ancora le 'cappellone': le Figlie della Carità di San Vincenzo de' Paoli hanno tolto la 'cornetta', il famoso copricapo inamidato... nel 1964.
          E vogliamo parlare di quel mondo mancante che è la famiglia? Che nei media (anche cattolici), passa a condizione d'essere fotogenica, come le famiglie della pubblicità, dove tutti sono belli e giovanili anche a 80 anni. Speriamo che il prossimo Incontro mondiale di Milano ci stimoli a ricominciare a guardare la nostra famiglia come un evento. Per raccontarla nella sua verità e, in questo modo, per celebrarla. Solo a questa condizione qualcuno si fermerà a contemplarla e vedrà che non è assolutamente brutta: anzi, che è bella. Poi, se, per risparmiare, vogliamo fare a meno dei fotografi professionisti, almeno risparmiamoci le rappresentazioni fasulle. 
Gian Carlo Olcuire
Versione app: 3.25.0 (fe9cd7d)