Il «grazie» è espressione di un dono ricevuto, rappresentato dall'incontro con una persona che ha attivato una relazione positiva recando un beneficio all'altro. L'esperienza della gratitudine incomincia dalla scoperta di se stessi e di ciò che si è per rendere felici gli altri.
del 06 giugno 2012(function(d, s, id) { var js, fjs = d.getElementsByTagName(s)[0]; if (d.getElementById(id)) return; js = d.createElement(s); js.id = id; js.src = '//connect.facebook.net/it_IT/all.js#xfbml=1'; fjs.parentNode.insertBefore(js, fjs);}(document, 'script', 'facebook-jssdk'));
          La parola «grazie» indica fondamentalmente un «dono» (in greco: charis =grazia) ed esprime la gratitudine e la riconoscenza verso un «tu» con cui si è instaurata una comunicazione di vita. Si tratta di uno dei termini più impiegati nella vita quotidiana, che si apprende fin dai primi passi dello sviluppo educativo. Pur appartenendo al formulario comune delle relazioni interpersonali che usiamo con disinvoltura, talora meccanicamente, l’espressione «grazie» racchiude in sé diversi significati antropologici e religiosi che meritano approfondimento.
          In primo luogo il «grazie» è espressione di un dono ricevuto, rappresentato dall’incontro con una persona che ha attivato una relazione positiva recando un beneficio all’altro. Il nesso tra gratitudine e dono manifesta l’autentica identità dell’uomo che si apre al progetto di Dio. Egli scopre la ricchezza dell’altro e sperimenta la positività dell’incontro con il prossimo. Quanto più il dono ricevuto è grande, tanto più il «grazie» diventa comunicazione e testimonianza di gioia e di vita.
          L’esperienza della gratitudine incomincia dalla scoperta di se stessi e di ciò che si è per rendere felici gli altri. Questo processo di autocoscienza inizia nell’ambito della famiglia e si sviluppa nei percorsi educativi dell’infanzia e dell’adolescenza. La profonda unità che l’essere umano stabilisce con i suoi genitori genera il ringraziamento verso di loro, tradotto nelle forme affettive dell’appartenenza e della comunione di vita. Soprattutto nella fase infantile il «grazie» si declina nell’esperienza di essere amati e nell’atto di ricambiare l’amore verso i nostri cari.
          Proprio perché ci si scopre «dono», il processo di maturazione che avviene nel mondo giovanile spinge ad esprimere la propria gratitudine attraverso la disponibilità di sé e il servizio verso gli altri. È fondamentale in questo tratto esistenziale dello sviluppo umano attivare un cammino educativo in cui il giovane possa scoprirsi autenticamente «dono» per gli altri e vivere il «ringraziamento» come chiave ermeneutica del suo essere nel mondo. Quando questo processo oblativo non si realizza o viene limitato nel suo sviluppo, anche la gratitudine è soffocata dall’interesse egoistico e dal facile ripiegamento su se stessi. In tal modo il «grazie» diventa sempre più raro e «formale».
          L’esperienza educativa insegna che il «grazie» vero nasce dallo stupore della gratuità. Rendere felici gli altri, mettersi a servizio del bene comune, sperimentare l’amicizia come itinerario di libertà e di condivisione, imparare a «progettare insieme» il futuro, vivere lo slancio della solidarietà verso chi soffre: sono tappe di un cammino di gratitudine e di apertura alla vita che ciascun giovane porta nel suo cuore ed esprime con il ringraziamento. Il «grazie» è segno di dono ricevuto e donato. In questo dinamismo del dare e dell’accogliere si manifesta l’«etica della gratitudine».
          Il «grazie» è segno di libertà. In una cultura sempre più condizionata da meccanismi di produzione e logiche di profitto, l’uomo avverte la necessità di riscoprire un cammino di liberazione da tutto ciò che rende schiave le relazioni interpersonali. Il «grazie» si coniuga con la responsabilità del donarsi e dell’impegnarsi per costruire il bene comune. Uno stile di vita ispirato ad un progetto edonistico e fondato su profitto esclude il modello sociale della gratuità. Al contrario, il «grazie» declinato nella dinamica della condivisione apre ad una cultura della prossimità e della fraternità. È questo lo stile evangelico sperimentato nella sequela di Gesù e nell’etica della primitiva comunità cristiana.
          Sul versante della proposta spirituale il «grazie» si incarna soprattutto nella preghiera personale e comunitaria. Tra i generi della preghiera che siamo soliti rivolgere al Signore, insieme alla lode e alla supplica vi è il ringraziamento. Sia nella tradizione biblica che nello sviluppo della spiritualità ebraico-cristiana troviamo una vasta gamma di ringraziamenti per diversi motivi. Si rende grazie a Dio per la sua provvidenza che si manifesta nella creazione e nella «storia della salvezza». Il credente si apre al mistero dell’amore divino rispondendo con il «grazie» per tutti i benefici e gli interventi di Dio.
          Oltre ai testi salmici e alle preghiere contenute nella Sacra Scrittura, la gratitudine è testimoniata nei racconti biblici che presentano diverse situazioni dell’esistenza umana. Si ringrazia Dio per il matrimonio e il dono dei figli, per la guarigione da una malattia, per uno scampato pericolo, per la vittoria in guerra contro i nemici, per la soluzione di problemi familiari e sociali, per il trionfo della giustizia e l’abbondanza dei frutti della terra. Il «grazie» è comunicato nella ferialità e celebrato nelle feste, trasformandosi in una «liturgia della gratitudine».
          Il «grazie» viene innalzato dal credente che ha sperimentato il perdono dei peccati. L’amore e la benevolenza divina spingono la comunità ad elevare inni di ringraziamento al Signore nelle celebrazioni e nelle festività del calendario liturgico. In tal modo il ringraziamento diventa confessione pubblica della fede in Dio. Nel «grazie» che sgorga dalla fede è raccolta in sintesi la storia della salvezza e la dinamica dell’appartenenza dell’uomo al progetto di Dio. Per focalizzare la valenza teologica ed esistenziale di questa «parola di fede» è importante ripercorrere le narrazioni della Sacra Scrittura, rileggendole nella prospettiva del «ringraziare».
 
NARRAZIONE
          Il «ringraziare», che è nello stesso tempo presa di coscienza dei doni di Dio, slancio purissimo dell’animo, riconoscenza gioiosa dinanzi alla grandezza divina, è ritenuto un atto essenziale nella Bibbia, in quanto costituisce una reazione religiosa fondamentale della creatura che scopre la grandezza e la gloria di Dio. Esso viene espresso in ebraico mediante il verbo todah che dice la confessione stupita e riconoscente del «ringraziare». Oltre al «ringraziare» troviamo il verbo «benedire» (ebr. barak) che indica l’atteggiamento religioso della gratitudine verso Dio. Il «benedire» intende «lo scambio essenziale» tra Dio e l’uomo: alla benedizione di Dio, che dà la vita e la salvezza alla sua creatura (cf Dt 30,19; Sal28, 9) risponde la benedizione con cui l’uomo rende grazie al creatore (cf Dn 3, 90; Sal 68,20.27; Ne 9,5; 1Cr 29,10).
          Il vocabolario neotestamentario del ringraziamento eredita la tradizione ebraica e collega i1 ringraziamento alla confes­sione di fede (in greco homologheo-: cf Mt11,25; Lc 2,38; Eb 13, 15), alla lode (in greco aineo-: Lc 2,13.20; Rm 15, 11), alla glorificazione (in greco doxazo-: Mt 5, 16; 9, 8) e sempre, in modo privilegiato alla benedizione (in greco eulogheo-: Lc 1, 64. 68; 2, 28; 1Cor 14, 16; Gc 3, 9). Tra tutte le espressioni spicca il verbo eucharisteo- (= rendimento di grazie, da cui «Eucaristia») quasi sconosciuto nell’Antico Testamento, ma usato in modo del tutto singolare nel Nuovo Testamento. La singolarità sta dell’interpretazione cristologica del ringraziamento come «risposta» alla «grazia» (charis) data da Dio in Gesù Cristo (cf Gv 1,17). Pertanto il ringraziamento cristiano è una «eucaristia» e la sua espres­sione perfetta è l’Eucaristia sacramentale, il ringraziamento del Signore dato da questi alla sua Chiesa.
«Tornò indietro per ringraziarlo» (Lc 17,16). Il racconto lucano della guarigione dei dieci lebbrosi è significativo per il motivo del ringraziamento.
          Il testo recita: Lungo il cammino verso Gerusalemme, Gesù attraversava la Samaria e la Galilea. Entrando in un villaggio, gli vennero incontro dieci lebbrosi, che si fermarono a distanza e dissero ad alta voce: «Gesù, maestro, abbi pietà di noi!». Appena li vide, Gesù disse loro: «Andate a presentarvi ai sacerdoti». E mentre essi andavano, furono purificati. Uno di loro, vedendosi guarito, tornò indietro lodando Dio a gran voce, e si prostrò davanti a Gesù, ai suoi piedi, per ringraziarlo. Era un Samaritano. Ma Gesù osservò: «Non ne sono stati purificati dieci? E gli altri nove dove sono? Non si è trovato nessuno che tornasse indietro a rendere gloria a Dio, all’infuori di questo straniero?». E gli disse: «Alzati e va’; la tua fede ti ha salvato!» (Lc 17,11-19).
          La scena lucana presenta Gesù «in cammino» verso la città santa. Mentre il Signore sta entrando in un villaggio, un gruppo di dieci lebbrosi lo ferma a distanza implorando pietà.
          Sappiamo quanto la legge prescrive per coloro che erano malati di lebbra: si tratta di persone escluse dalle relazioni sociali, perché segnate da una malattia contagiosa e ritenuta conseguenza di peccato (cf Lv 14,1-32).
Il grido dei lebbrosi tocca il cuore di Cristo, venuto a salvare chi è perduto.
          È la misericordia di Dio che passa attraverso la missione del Figlio e raggiunge ciascun uomo, liberandolo dalle proprie schiavitù. La scena non presenta gesti taumaturgici plateali, né si attarda a descrivere i particolari del prodigio. Al contrario: Gesù invita i lebbrosi a «mettersi in camino» e presentarsi alle autorità sacerdotali del luogo così come prevedeva la legge ebraica (cf Lv 14,1-5).
          I dieci lebbrosi obbediscono alla Parola. Nella loro «obbedienza» essi scoprono di venire guariti dalla potenza della sua Parola. Dei dieci, solo un samaritano «torna indietro» per incontrare Gesù e ringraziarlo. L’evangelista sottolinea il processo di «riconoscimento» come esperienza di fede. Mentre gli altri nove uomini guariti accolgono il miracolo e restano nel loro mondo, lo straniero sente il bisogno di «ringraziare» per il dono ricevuto e questo ringraziare implica una scoperta nella fede. Gesù è per lui non solo il guaritore della malattia, ma il «Signore» della sua vita.
          Il ritorno da Gesù non si traduce in un semplice ringraziamento, ma in una rivelazione. Dopo aver constatato la fede del samaritano guarito, Gesù lo invita a vivere nella nuova condizione di salvezza. I verbi sono eloquenti: «alzati» cioè risorgi dalla tua condizione di incredulità; «la tua fede ti ha salvato», cioè sperimenta la novità dell’incontro salvifico con Cristo in Dio.
          La vicenda dei dieci lebbrosi e la scelta del samaritano che ringrazia Dio ci aiuta a rileggere il nostro cammino di ricerca di Dio. Quanto più la ricerca nascerà dalla sorpresa dell’amore che libera, tanto più il nostro cammino sarà segnato dal ringraziamento e dell’affidamento a Cristo.
          Nel nostro racconto il ringraziare implica un «tornare» a Cristo rivenendo tutta la vita. È questa l’esigenza profonda che alberga nel cuore di tanti giovani: tornare al Signore dopo aver sperimentato la sua benevolenza.
 
INVOCAZIONE
          La nostra riflessione sul «grazie» si traduce nell’invocazione. Dalla parole del Sal138 possiamo trarre alcuni messaggi per ridire il nostro «grazie» a Dio nella quotidianità. Il salmista schiude il suo cuore in un commosso canto di gratitudine rivolto a Dio:
          Ti rendo grazie, Signore, con tutto il cuore: hai ascoltato le parole della mia bocca. Non agli dèi, ma a te voglio cantare, mi prostro verso il tuo tempio santo. Rendo grazie al tuo nome per il tuo amore e la tua fedeltà: hai reso la tua promessa più grande del tuo nome. Nel giorno in cui ti ho invocato, mi hai risposto, hai accresciuto in me la forza. Ti renderanno grazie, Signore, tutti i re della terra, quando ascolteranno le parole della tua bocca. Canteranno le vie del Signore: grande è la gloria del Signore! Perché eccelso è il Signore, ma guarda verso l’umile; il superbo invece lo riconosce da lontano. Se cammino in mezzo al pericolo, tu mi ridoni vita; contro la collera dei miei avversari stendi la tua mano e la tua destra mi salva. Il Signore farà tutto per me. Signore, il tuo amore è per sempre: non abbandonare l’opera delle tue mani (Sal 138,1-8).
          Colpisce la relazione profonda tra il salmista e il Signore. Nel testo riecheggia il «tu» di Dio che conosce il cuore e ascolta le parole dell’uomo in preghiera. La conseguenza di questo ascolto è il ringraziamento che dà speranza e infonde forza. Ringraziare è «affidarsi» a Colui che ti dà forza.
          Non solo l’orante rende grazie per la Parola del Signore, ma egli immagina che un giorno tutti i re della terra eleveranno il loro «grazie» a Dio per la sua misericordia in favore dei piccoli e dei poveri. La preghiera conferma la logica dell’amore che il Signore esprime verso gli umili. Nella fede si ha la certezza che il Signore non abbandona colui che si affida nelle sue mani.
Giuseppe De Virgilio
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