Intervista a Marco Revelli, storico, sociologo, docente all'Università Orientale del Piemonte. «Quello a cui abbiamo assistito la scorsa settimana, è un vero e proprio caso di precipitazione ed imbarbarimento del nostro comune senso collettivo...».
del 12 novembre 2007
Sembra che per una barriera caduta, quella che ha visto Romania e Bulgaria fare ingresso nell’ Unione Europea, se ne debbano per forza alzare di nuove.
La politica, i mezzi di informazione, la normativa comunitaria, sembrano andate in corto circuito. Tu hai definito questa situazione “una crisi di nervi dello scenario italiano”. Cosa sta accadendo?
 
Effettivamente, quello a cui abbiamo assistito la scorsa settimana, è un vero e proprio caso di precipitazione ed imbarbarimento del nostro comune senso collettivo e della sfera politica che non ha probabilmente precedenti, quantomeno nella nostra storia recente, dell’ultimo mezzo secolo.
Di colpo ci siamo scoperti in un paese in preda ad una crisi di nervi, in tutti i suoi livelli. Quello delll’opinione pubblica, dei media che hanno svolto un ruolo devastante nell’area della comunicazione, e della politica, che ha prodotto un corto circuito devastante.
Da un evento, un crimine terribile come l’assassinio di Giovanna Reggiani, imputabile ad un individuo, ad una persona, che peraltro è stata immediatamente arrestata su denuncia di una Rom che abitava nel medesimo insediamento, si è passati alla colpevolizzazione collettiva di un intero gruppo etnico, di una intera popolazione, migrante, povera, già oggetto di stigma e persecuzione sociale in Italia ed in Romania.
Questa è una prova di irresponsabilità assoluta innescata sicuramente dalla destra, che ha il fascismo nel proprio dna, da Gianfranco Fini, che grattando sulla vernice di incivilimento che si è dato, resta il fascista di sempre, ma fatta propria e rincorsa dalla sinistra, dal Sindaco di Roma in particolare, che ha una responsabilità a mio avviso gravissima, e che ha fatto seguire a quell’episodio una vera e propria rappresaglia.
La distruzione dell’insediamento ad opera delle ruspe del comune è un atto di guerra, di rappresaglia, contro una collettività che non aveva alcuna responsabilità se non quella di abitare nello stesso luogo del colpevole.
 
 
Alla colpevolizzazione, alla spettacolarizzazione di quell’evento, è seguito un Decreto Legge che andrà a modificare strutturalmente e permanentemente, nell’ordinamento italiano, la regolamentazione della libera circolazione e del diritto di soggiorno di una generalità di soggetti, i cittadini comunitari.
Mentre da tempo si annuncia il superamento della legge Bossi Fini e dei Centri di Permanenza Temporanea, il loro regime oggi viene esteso anche ai cittadini comunitari, e questo in probabile contrasto con le norme dell’ UE.
Che scenario si va delineando nello spazio europeo con la possibilità di detenere per esempio i cittadini comunitari all’interno dei Cpt a tuo avviso?
 
Diciamo subito che, già di per se stessa, la riunione d’urgenza del Governo, per emanare un Decreto Legge di questo tipo, nell’ emergenza, a ridosso dell’ episodio dell’uccisione, è già la prova di una uscita di controllo, di una crisi mentale della nostra politica.
Connettere l’attività legislativa, l’emanazione di un atto normativo che riguarda, appunto, una generalità di persone, ad un fatto di cronaca che riguarda un singolo individuo, è una violazione della nostra civiltà giuridica .
I contenuti di questo atto riflettono il clima emotivo nel quale è stato emanato: è un atto anticostituzionale, nella sua formulazione originaria in particolare, che pur tuttavia ha già prodotto degli effetti, perchè ha lavorato sui corpi delle persone.
Esso sottrae al controllo giurisdizionale una serie di atti che hanno a che fare con la disposizione della libertà personale, sospende l’habeas corpus, che è una acquisizione consolidata di ogni civiltà giuridica, permette a delle autorità amministrative, senza alcun controllo, di decidere della vita delle persone, e sospende o stravolge, per certi versi, il principio della libertà di circolazione dei cittadini comunitari.
I cittadini rumeni che sono in Italia sono cittadini comunitari a tutti gli effetti, ma utilizzando per certi versi alcune caratteristiche delle direttive europee, se ne fa una applicazione particolare.
Si vincola la pienezza del diritto di cittadinanza al reddito.
Questa è una concezione “censitaria” della cittadinanza che ci fa fare un salto indietro di un paio di secolo e stabilisce che chi non ha un reddito non è pienamente cittadino europeo.
Potremmo anche dire che ce lo potevamo aspettare, perché l’Europa è nata su basi “censitarie”, è l’Europa in primo luogo della finanza e del capitale, è un Europa molto poco attenta ai diritti civili.
Quella che ha fatto il governo italiano è una ulteriore forzatura, che fa si che l’Europa dia il peggio di tutto questo.
 
 
Sembra uno spazio europeo che si presenta come spazio gerarchico.
Prima dell’ingresso di rumeni e bulgari c’è stato, ricordiamolo, l’ingresso della nostra economia in quei paesi, molti imprenditori hanno infatti esternalizzato lì quasi la totalità dei loro comparti di produzione. Può la libera circolazione valere solo in una direzione?
E ancora; il modello produttivo che si è affermato, quello postfordista, si nutre della mobilità e del prezioso “lavoro migrante”. Migliaia di cittadini rumeni sono centrali oggi nell’economia italiana, nel settore dell’edilizia, in quello della cura della persona per esempio.
A fronte di questa centralità, su di loro, si costruiscono però tutte le politiche securitarie attuali.
Come spiegheresti questa situazione?
 
In due modi direi:
Primo, le norme che regolano la libera circolazione in Europa non sono quelle dei diritti dell’uomo, sono le regole della lex mercatoria.
Circolano in maniera assolutamente libera i capitali, circolano le merci, gli uomini circolano solo nella misura in cui sono classificabili come merci, o sono portatori di capitale.
Questo tipo di interpretazione della libera circolazione, in Europa, fa della carta di credito l’equivalente del passaporto o del lasciapassare, abbiamo quindi una deformazione della costituzione materiale dell’Europa in senso esplicitamente mercantile.
Dall’altra parte abbiamo la trasformazione delle nostre città da contenitori delle macchine produttive in macchine produttive esse stesse.
E’ l’emergere di quello che va sotto l’etichetta dicittà biopolitica, la città che subentra alla vecchia città fordista.
La città fordista riproponeva in termini spaziali la divisione del lavoro e la razionalizzazione dello spazio di tipo taylorista, la città postfordista è quella che invece mette al lavoro la totalità della vita, la totalità della nostra dimensione, del bios, l’insieme delle nostre relazioni, la totalità del nostro tempo, e così via.
Le strade della nostra città diventano l’equivalente dei comparti di produzione della fabbrica.
La pulizia etnica che si realizza nelle nostre strade, il tipo di controllo poliziesco che si esercita su queste, il disciplinamento, significano anche espellibilità di coloro che non sono direttamente produttivi in questo quadro, di coloro che non possono essere pienamente messi al lavoro perché non disponibili a ciò: costoro vengono considerati degli intralci, vengono considerati disturbo.
Lo spazio pubblico è diventato totalmente uno spazio produttivo, nello spazio produttivo funziona il disciplinamento della produzione e quindi la rimozione dell’altro.
I nuovi capireparto sono i sindaci, il partito dei sindaci è oggi l’equivalente del comando d’impresa.
A Roma una “task force di Rangers” è stata istituita proprio dal sindaco per operare negli accampamenti: i buldozzer che schiacciano sotto i cingoli i quaderni scolastici dei bimbi accampati negli insediamenti sono la fotografia di un presente che ha travolto accoglienza ed integrazione nella “guerra intrapresa contro gli ultimi”.
Marco Revelli
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