È un pomeriggio qualunque, spicca bene in vista il libro appoggiato sul comodino, unico elemento fuoriposto nella stanza accuratamente ordinata. Un fino strato di polvere ne ricopre la copertina, altrimenti immacolata.
del 22 luglio 2010
 
 
 
                È un pomeriggio qualunque, spicca bene in vista il libro appoggiato sul comodino, unico elemento fuoriposto nella stanza accuratamente ordinata. Un fino strato di polvere ne ricopre la copertina, altrimenti immacolata. La ragazza dall’altro lato della camera lo guarda, come studiandolo, infine con un sospiro si siede, lo prende in mano e comincia a leggere…
Incontri non scontati                Tra i compiti mai assegnati da un insegnante a scuola, pochi hanno risvegliato in me sentimenti tanto diversi e contrastanti quanto le schede libro: l’amore per la lettura, l’irritazione per il suo carattere di imposizione, la curiosità di scoprire che libro verrà dopo e il tedio di dover finire quello prima, la pigrizia nello scrivere recensioni, riassunti, analisi e commenti, la tentazione di ricorrere ad internet, la sfida di farcela da sola.
                Potrà sembrare strano, forse anche un po’ bizzarro, ma percepisco come tutto ciò, amato ed odiato allo stesso tempo, abbia lasciato un segno indelebile nella mia formazione. Un libro imposto, per sua natura, è restio a farsi amare: dal titolo, alla copertina, alle dimensioni, tutto sembra realizzato per scoraggiare l’incauto lettore. Ma, dall’obbligo, dalla volontà di mettersi in gioco, dalla curiosità di scoprire qualcosa di nuovo, con un piccolo sforzo da parte nostra, può derivare un inimmaginabile tesoro. Ecco, basta poco, una frase, un pensiero, e il senso di ciò che stiamo facendo, può cambiare e ribaltarsi: quel qualcosa sembra essere stato scritto apposta per noi, e se quel libro, quell’autore è stato in grado di rivelarci una parte di noi stessi, beh, allora forse la nostra fatica è stata ricompensata.
                Ogni forma di conoscenza, che non si fermi ai livelli più superficiali, implica un coinvolgimento personale nell’atto del conoscere, un lasciarsi prendere per mano e trasportare in mondi che non sono altro che il nostro, un andare oltre alle apparenze.
                Non accade forse lo stesso anche nelle nostre relazioni? E in un’amicizia? A scuola è arrivata una nuova compagna di classe, è ghanese, si è trasferita da poco, ha l’aria smarrita. È facile lasciarla in disparte, scambiare due parole che non vanno oltre al “come ti chiami”. Approfondire la conoscenza richiederebbe un notevole impegno: il dedicare una parte del proprio tempo all’altro, l’essere disposti ad ascoltare, il parlare magari un’altra lingua, la difficoltà e l’interesse nel capire culture diverse dalla propria, il distruggere mattone per mattone il muro dei pregiudizi. Eppure spesso sono amicizie come queste che, nonostante le iniziali difficoltà, danno un senso e segnano la nostra vita. Solo, bisogna avere il coraggio di “rischiare l’incontro” sperimentando così l’unica via per scoprire tesori altrimenti inaccessibili.
Solo lo stupore conosce                «Solo lo stupore conosce» diceva Gregorio di Nissa, un grande Padre della Chiesa ed effettivamente che la conoscenza nasca dal lasciarsi interpellare e muovere dalla realtà, dagli incontri e dalle occasioni che la vita ci presenta, è la constatazione anche di tanti uomini di scienza: «l’uomo per il quale non è più familiare il sentimento del mistero, che ha perso la facoltà di meravigliarsi e di umiliarsi davanti alla creazione è come un uomo morto o almeno cieco» (A.Einstein).
                L’uomo conosce, quindi, quando non rimane «lontano», estraneo a ciò che indaga, a ciò da cui si trova circondato, ma quando si lascia toccare e mette in gioco qualcosa di sé (quando non sfoglia il libro polveroso svogliatamente ma con curiosità). La «logica astratta» che talvolta acconsentiamo ad usare in nome di una certa oggettività (le generalizzazioni; il «ma tutti sanno che…») rischia al contrario di allontanarci dalla realtà, dalla concretezza fatta di legami e di non permetterci di entrare negli eventi della vita. Conosciamo davvero quando «non ce ne stiamo fuori», ma quando entriamo in relazione con ciò che c’è. Il che non vuole dire buttarsi in ogni esperienza, acriticamente, ma accostarsi a ogni evento con l’atteggiamento umile dell’ascolto.
                È interessante notare, inoltre, che ogni volta che conosciamo qualcosa… in fondo, stiamo anche facendo la conoscenza di qualcosa di noi (un po’ come nel caso del libro di prima): in questo senso la conoscenza è «personale».
La conoscenza personale                Ho trovato a questo proposito interessanti alcuni passi di Roberta De Monticelli, nel testo La conoscenza personale (ed. Guerini, Milano 1998).
                «La conoscenza personale è […] la conoscenza che facciamo delle persone. […] Ma l’aggettivo “personale” ha diritto di restare attaccato a questo tipo di conoscenza, anche quando il suo oggetto non sono le persone. In effetti questo aggettivo è volutamente ambiguo. Preserva in ogni caso, che l’oggetto sia o no una persona, il senso di un genitivo soggettivo: qualifica la natura di questa conoscenza e la relazione al soggetto conoscente.
                Sullo sfondo delle concezioni epistemologiche dominanti, e che nella nostra tradizione rimontano ai greci, l’espressione “conoscenza personale” è quasi un ossimoro. La conoscenza, nel senso vero del termine, è per eccellenza impersonale.
                Non è in blocco che rigettiamo questa tesi. C’è conoscenza personale, e c’è conoscenza impersonale. Dipende veramente dall’oggetto, dal modo in cui “chiede” di essere conosciuto. Naturalmente, bisogna allora dire in che senso è personale la conoscenza, là dove lo è. […] Di qualunque oggetto sia conoscenza, la conoscenza personale è sempre in qualche misura anche conoscenza di sé. Questo non vale, o non vale nello stesso senso essenziale, intrinseco, per tutti i tipi di conoscenza. Non vale ad esempio per quella che acquisiamo studiando la fisica teorica.» (p.16)
                «Certo non ha moltissimo senso supporre che siano i libri a leggere noi. A meno che la battuta non sia intesa nel senso che in ultima analisi la conoscenza che viene fatta è anche conoscenza di noi stessi, di chi la fa; e allora la battuta è verissima e coglie il senso essenziale in cui il soggetto “conoscente” si fa (meglio) “conosciuto”. […] Questo è in fondo il tratto definitorio della conoscenza personale (che spiega infine l’ambiguità referenziale dell’aggettivo). La conoscenza personale è sempre anche conoscenza di sé, attraverso quella di un altro individuo. Ogni incontro, in questo senso, è letteralmente un essere chiamato per nome, un richiamo a se stessi che sembra provenire dall’individuo incontrato. Che sia il richiamo, il più delle volte illusorio, del Principe Azzurro, o che sia il richiamo in genere più affidabile di quello che diverrà il poeta preferito. Se lo diviene, è perché il percorso che ha seguito l’incontro vi ha rivelato parte di ciò che vi sta a cuore – dunque, per dirla in breve, del vostro “cuore”. Di voi stessi.» (p.144)
                «Sono i nostri amori che ci rivelano a noi stessi e agli altri – o meglio, sono le nostre prese di posizione affettive che ci rivelano l’ordine di ciò che ci sta a cuore. E non c’è altro accesso al “cuore” di una persona che l’ordine dei suoi amori: il suo ethos, come lo chiamava Scheler.» (p.184)
                Questi spunti ci lasciano il grande impegno di non cercare mai «fuori di noi» la causa della noia. Al contrario ci invitano a vincerla con il coraggio di provare a dare fiducia alla realtà, rischiando l’incontro, lasciandoci appassionare.
Anna Baratto, sr Francesca Venturelli
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