Sono nati a metà degli anni novanta o giù di lì, in piena era digitale. Fanno un uso protesico della tecnologia tutta, “muo¬≠vono storie, suoni e immagini da un territorio all'altro” e da uno schermo all'altro: insomma una nuova versione 2.0 dell'Homo sapiens. Usano Smartphone, iPod, Pc, iPad, esserini necessariamente multitasking.
del 17 aprile 2012
Una specie in via di apparizione, ovvero i “nativi digitali”
          Sono nati a metà degli anni novanta o giù di lì, in piena era digitale. Fanno un uso protesico della tecnologia tutta, “muo­vono storie, suoni e immagini da un territorio all’altro” e da uno schermo all’altro: insomma una nuova versione 2.0 dell’Homo sapiens. Usano Smartphone, iPod, Pc, iPad, esserini necessariamente multitasking, che mantengono un’attenzio­ne diffusa su una molteplicità di stimoli, pronti a focalizzarla su quelli significativi.
Nativi vs immigrati
          Li chiamano “nativi digitali” per contrapporli a quelli che sul Web e alle nuove tecnologie hanno dovuto adattarsi, gli “immi­grati digitali”, ovvero noi poveri figli di Gutenberg.
          La coppia nativi/immigranti digitali è efficace ed esplicativa, tuttavia i “nativi” non sono categoria unitaria, ma piuttosto una specie in via di apparizione, all’interno della quale possono essere individuate differenti popolazioni e stili di fruizione delle tecnologie, diversi a seconda dell’età e quindi dell’esposizione più o meno precoce alle tecnologie della comunicazione digi­tale.
A new way of life
          Per noi nativi Gutenberg, il blog o la posta elettronica sono stru­menti, per loro sono una parte integrante della loro immagine del sé e delle loro relazioni sociali. Fra i 14 e i 19 anni l’88% degli adolescenti partecipa a forum o scrive sui blog. Si “espongono” sui blog o su You Tube, vivono sullo schermo, per esprimersi, per apparire, per comunicare e per stabilire relazioni sociali e affettive. Il modo in cui vedono e costruiscono il mondo è differente. I “nativi” digitali hanno, infatti, a disposizione una grande quantità di strumenti digitali di apprendimento e comu­nicazione formativa e sociale: il web, i blog, l’iPod, MSN Mes­sanger, il telefono cellulare, le chat, l’aula virtuale, Wikipedia, Myspace...
Zapping cognitivo
          Il comportamento di apprendimento più originale dei “nativi” è il multitasking: studiano mentre ascoltano musica, e nello stesso tempo si mantengono in contatto con gli amici attra­verso MSN, mentre il televisore è acceso con il suo sottofondo di immagini e parole. Il problema del sovraccarico cognitivo è risolto attraverso il continuo passaggio da un media a un al­tro, tramite uno “zapping” consapevole tra le differenti fonti di apprendimento e di comunicazione. I digital native, infatti, stanno imparando a “navigare” tra i media in maniera non li­neare e creativa.
Una logica della fantasia
          Noi adulti cerchiamo sempre un “manuale” o abbiamo bisogno di strumenti per inquadrare concettualmente un oggetto di stu­dio prima di dedicarci a esso. I nativi no! Apprendono per espe­rienza e per approssimazioni successive. Non è detto che sia un dato positivo, ma è un fatto. Utilizzano una logica che è più vicina a quella “abduttiva” di Peirce, che non a quella induttiva/deduttiva di Galileo. Procedono attraverso una scoperta multi prospettica e multicodicale del senso dell’oggetto culturale o di apprendimenti che esplorano costruendosi man mano gli stru­menti e le strategie adatte. Imparano dagli errori e attraverso l’esplorazione, piuttosto che mediante un approccio storico o logico sistematico.
          Inoltre la condivisione con i pari, la cooperazione, l’utilizzo di differenti approcci al problema dato e di molteplici codici e piani di interpretazione per risolverlo li differenziano radical­mente rispetto a noi. Un approccio “open source” e cooperativo alle fonti del sapere che è ben rappresentato dal modo in cui i giovani condividono la musica, il sapere e le esperienze online attraverso i più diversi strumenti di comunicazione digitale sul web.
Una cultura open source
          Nonostante il divario inevitabile nativi ed immigrati del Mondo 2.0 sono accumunati da quella che Henry Jenkins, già direttore del Comparative Media Studies Program presso il Mit di Boston e oggi Provost alla Annenberg School of Communication della University of Southern California, definisce la nuova “cultura partecipativa”. La cultura partecipativa secondo Jenkins dà un forte sostegno alle attività di produzione e condivisione delle creazioni digitali e prevede una qualche forma di accompagna­mento informale, cosicché i partecipanti più esperti condivi­dono conoscenza con i principianti. All’interno di una cultura partecipativa, i soggetti sono convinti dell’importanza del loro contributo e si sentono in qualche modo connessi gli uni con gli altri.
          I bambini tra gli 0 e 12 anni, sono, infatti, il primo gruppo vera­mente digitale. È ai loro comportamenti che dobbiamo guarda­re per capire il nostro futuro e per costruire un mondo che sia più accogliente per i nostri figli.
Sfide
          I “nativi digitali” pongono anche un problema ai figli del libro e immigranti digitali: come stabilire un linguaggio comune, come entrare in contatto nella scuola ma anche nella vita con loro. Non è un piccolo problema, la cultura scritta sta cambiando forma e non traghettare in digitale la memoria analogica della cultura dell’Homo sapiens 1.0 è la sfida e la responsabilità che portiamo noi Gutenberg native.
 
Le nuove tecnologie cambiano o no il modo di fare scuola? 
A SCUOLA DI FUTURO
          Il dato è certo: dal prossimo anno scolastico 2012-2013 tutti i libri scolastici in adozione dovranno avere anche una versio­ne digitale scaricabile da internet. Un diktat ministeriale che spinge fortemente il mondo dell’educazione verso l’uso delle tecnologie dell’informazione e della comunicazione (TIC).
          Dubbi e perplessità da parte di molti eppure l’entrata massic­cia delle nuove tecnologie nella nostra società contagia anche il mondo scolastico. Si passa così da una fase d’avanguardia, accompagnata da teorizzazioni, esercizi di immaginazione, uto­pie (positive e negative), a una fase di più silenziosa pratica effettiva.
          In qualche modo le TIC sono oramai nelle mani degli studenti e dei docenti. Per la verità molto di più nel lavoro e nella vita di ciascuno di loro che nel loro comune lavoro a scuola. Le nuove tecnologie cambiano o no il modo di fare scuola?
          Molti anni fa una corrente di pensiero aveva concepito l’idea che l’uso delle tecnologie, di per sé, dovesse per forza provocare l’innovazione didattica.
          Se le tecnologie hanno cambiato il modo di lavorare, viaggiare, produrre cultura e leggere, perché non dovrebbero cambiare il modo di fare scuola? Quindi l’idea delle tecnologie come “leva”: visto che l’innovazione non viene dalle riforme istituzionali e dal dibattito su metodi didattici, saranno i nuovi mezzi che la promuoveranno.
          Sarà che la scuola è il più coriaceo sistema sociale, capace di resistere a qualsiasi provocazione (a volte, intendiamoci, a fin di bene). Fatto sta che all’automatismo tecnologie-innovazione di­dattica non ci credono più in molti. Si può ragionare su qualsia­si medium, ma il caso delle lavagne interattive multimediali è particolarmente chiaro: è ovvio che questi congegni si possono usare in tanti modi diversi al servizio di altrettanti modelli della lezione in classe e, fra questi, dei modelli più antichi.
          Il problema è che una lavagna interattiva non garantisce una lezione interattiva. L’interattività didattica consiste nel far in­teragire continuamente quello che l’insegnate dice, mostra e, soprattutto, chiede, con quello che gli studenti pensano, capi­scono, hanno la possibilità di rispondere e di domandare. È im­barazzante costatare che è possibile fare lezioni interattive con la lavagna tradizionale e lezioni non interattive con la lavagna interattiva.
          E allora cosa se ne deve concludere: che le nuove tecnologie non servono a niente? Certamente no. Esse sono potenzialmente ri­voluzionarie perché possono rafforzare enormemente i modelli più avanzati di didattica. Ma non lo fanno gratis. Non c’è biso­gno di meno, ma di molto più studio e di ricerca sui metodi, sui linguaggi, sui saperi.
don Lorenzo Teston
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