Di fronte al fatto crescente dell'invecchiamento della vita consacrata soprattutto in Europa, il ruolo della leadership «non consiste tanto nello sfornare statistiche che portano inevitabilmente al pessimismo, quanto quello di favorire un apprendistato dell'arte di invecchiare e di rendere degna questa fase della vita».
del 15 marzo 2012 (function(d, s, id) { var js, fjs = d.getElementsByTagName(s)[0]; if (d.getElementById(id)) return; js = d.createElement(s); js.id = id; js.src = '//connect.facebook.net/it_IT/all.js#xfbml=1'; fjs.parentNode.insertBefore(js, fjs);}(document, 'script', 'facebook-jssdk')); 
          In un periodo di spaesamento come quello che sta attraversando oggi la vita consacrata, la ricerca di ancoraggi in porti fin troppo sicuri e l’esaltazione di artificiose “differenze” (tra un carisma e l’altro), non lasciano ben sperare. Solo una convinta intercongregazionalità potrà essere fonte di vita e di futuro. Oltre a sapersi “mettere in relazione”, bisogna saper mettere insieme anche i propri carismi”. Purtroppo si è giunti a un punto tale che «ogni carisma, chiuso nei propri pensieri, ha perso l’idea stessa che la vita religiosa oggi possa realizzare nuovi modelli di vita, ricchi di dignità anche se diversi da un tempo». L’unica possibilità per far uscire la vita religiosa dal “postomarginale” che occupa nella coscienza collettiva della Chiesa, è quella di “ripulirne l’identità”. Più che dai documenti o dai capitoli, una spinta del genere potrà venire soprattutto “dal basso”, attraverso persone, cioè, «capaci di nuove figurazioni dell’identità religiosa a misura del bisogno della nuova società».
          Servono persone “appassionate” e “pensanti”, che sappiano interpretare la nuova stagione ecclesiale e sociale. È tempo perso il voler «riaggiustare ciò che non può più essere riaggiustato». L’alternativa più feconda è quella di un «convenire intercongregazionale attorno a un tavolo “virtuale” di religiosi/ e capaci di cambiare il punto da cui guardare le cose». Non basta neppure solamente “mettersi insieme”. Bisogna sapersi anche “difendere insieme”. È un dato di fatto che oggi troppe opere «sopravvivono con la presenza residuale di qualche religioso e l’apporto quasi totale di dipendenti» in attività sempre più “aziendalizzate”. Con la presenza, in tante opere, del 90% di professionisti esterni, è sempre più problematica non solo la loro gestione, soprattutto quando ognuno vuol agire per conto proprio, ma anche la salvaguardia di quei valori ideali da cui quasi tutte le opere stesse sono nate. «Nella situazione attuale l’ auto-mutuo- aiuto intercongregazionale allora non proviene soltanto dalla forza dei principi, ma anche dalla debolezza dei numeri. È dunque urgente attivare processi di mutua corresponsabilità sui problemi gestionali delle attività apostoliche, a partire dalla consapevolezza che l’incapacità di associarsi in funzione di un bene comune porta queste ad essere a rischio». Far vivere il Vangelo in termini nuovi
          Per scongiurare rischi del genere servono, inoltre, «forme di spiritualità capaci di far vivere il Vangelo in termini nuovi». Pungolati dai “nuovi carismi”, anche gli ordini e gli istituti più antichi dovrebbero «passare dall’essere gestori in proprio della carità, o essere l’anima sociale dei nostri territori, all’essere esperti di vissuti relazionali intensi, che comunicano la possibilità di una vita diversa, evangelica». Va recuperato, inoltre, il valore della chiesa locale affrontando in essa e con essa le sfide comuni, mettendo a disposizione non solo la complementarietà dei carismi, ma anche gli spazi, le competenze di evangelizzazione, di animazione, di organizzazione, di gestione, «vivificandosi e fermentandosi a vicenda». Ogni “processo rifondativo” è impensabile senza il ripensamento creativo e collaborativo tra i vari soggetti ecclesiali. Oggi la propria identità va rinsaldata condividendo i propri carismi in uno scambio reciproco di un qualcosa che «non si possiede come proprietà privata ma come dono da ricevere e donare». Questa, oggi, è una via obbligata se non ci si vuole consegnare a un “inevitabile destino” di estraneità e di insignificanza del proprio carisma. Cozza ha concluso citando molto opportunamente un intervento ascoltato in aula durante il Congresso internazionale del 2004 (“Passione per Cristo. Passione per l’umanità”): «Non impegnatevi nel continuare a offrire risposte preconfezionate che ormai sono superate… Abbandonate il vostro mondo di realtà virtuali. Non evitate le strade pericolose, perché la novità emerge sempre fuori dai luoghi sicuri protetti e convenzionali». Tra morte e rinascita
          Non è stata sicuramente una risposta preconfezionata quella di García de Paredes con il suo intervento sulla ars moriendi charismatica. Che ci siano istituti più o meno lentamente avviati verso la propria estinzione è un dato storicamente documentato. Ma come lo stanno affrontando i religiosi/ è Paredes ha ricordato come ai tempi del concilio di Costanza (1414- 1417) il «morire diventava un’arte vera e propria da imparare, per superare serenamente la prova ed evitare le insidie del demonio». Perché non la dovrebbero praticare anche gli istituti religiosi? Il carisma, infatti, esiste «non solo quando v’è vitalità, ma anche quando in ragione dell’offerta o del sacrificio e della volontà di Dio, si finisce la propria carriera». Ma quando gli istituti proveranno ad applicare a se stessi le parole di Gesù: «È bene per voi che io me ne vada, perché, se non me ne vado, non verrà a voi il Consolatore?». Non è forse urgente imparare «l’arte di morire a poco a poco per convincersi che arriverà un momento nel quale ci si deve “dimettere”, consentendo così allo Spirito di agire e di esprimersi attraverso altre persone, comunità e istituzioni?». Forse lo si capirà quando, come avviene nel caso dell’autopoiesi, un istituto di vita consacrata riscoprirà «la capacità carismatica di riprodurre se stesso». In stretto rapporto con le persone e con l’ambiente all’interno del quale un istituto compie la sua missione apostolica, un carisma dovrebbe trovare le condizioni indispensabili per riprodursi, per rifondarsi, per riorganizzarsi. In quanto dono dello Spirito a ogni Chiesa, il carisma ha una dimensione “cattolica” e non può sentirsi vincolato solo al continente europeo o latinoamericano. In questo senso un carisma partecipa pienamente della vita della Chiesa che può crescere ovunque mediante una «autentica piantagione della semente della fede, della speranza e della carità». Anche la vita consacrata «partecipa della plantatio Ecclesiae attraverso il suo impegno nella missione e nella plantatio della sua semente carismatica nelle diverse parti del mondo». Non per nulla, le congregazioni più aperte alla “missio ad gentes” sono state normalmente anche le più favorite in fatto di nuove vocazioni. Il Vangelo insegna che non si può vivere senza prima morire. Non basta passare da un luogo a un altro esportando le proprie idee. È necessario invece cambiare interiormente garantendo  in tal modo una reale plantatio del proprio carisma in un nuovo contesto umano e culturale. In tutto questo processo di morte e rinascita è determinante il ruolo di una leadership che prima di confidare in se stessa, confida nello Spirito, aspettandosi tutto da Dio e non dai propri piani, dai propri controlli e dalle proprie decisioni. Una leadership “senza occhi” «può portare un istituto al suicidio. In momenti critici come questo, la vita consacrata ha bisogno di una leadership intelligente, che abbia occhi e che sia sostenuta dal dono della sapienza». Di fronte al fatto crescente dell’invecchiamento della vita consacrata soprattutto in Europa, il ruolo della leadership «non consiste tanto nello sfornare statistiche che portano inevitabilmente al pessimismo, quanto quello di favorire un apprendistato dell’arte di invecchiare e di rendere degna questa fase della vita». Anche e soprattutto la spiritualità ha qualcosa da dire in proposito: aver fiducia nella vita, esperimentare, nonostante tutto, la gioia di vivere, trovare il giusto significato di ogni cosa, evocare il fondamento della propria esistenza, saper accogliere come elemento integrante della propria vita anche il dolore. Non andrà mai sottovalutato il fatto che «una maggioranza di anziani sovraccarica le generazioni più giovani, crea un clima di lentezza, frena l’adattamento ai segni dello Spirito, al luogo in cui si vive, alle nuove sfide ». Proprio per questo si dovrebbe insegnare agli anziani l’ars moriendi charismatica. Nella fase terminale della propria vita «bisogna infondere speranza nei membri dell’istituto che muore, aiutandoli a offrire l’ultimo servizio, l’ultima testimonianza, a giungere al consummatum est evangelico dopo aver superato l’ultima tentazione». V’è un futuro per la vita consacrata? Ha senso nel nostro tempo consacrarsi a Dio? La risposta del relatore è stata inequivocabilmente affermativa: «Il nostro futuro si chiama “speranza”, “avvento”, attesa della grazia infallibile di Dio. Il futuro che speriamo è pasquale: passa attraverso la morte, come il chicco di grano che cade in terra, muore e produce molto frutto. Il nostro futuro lo costruiamo di giorno in giorno, come umili collaboratori e collaboratrici dello Spirito Santo, che è il grande protagonista d’ogni cosa. Qui noi siamo di passaggio, individui, comunità e istituti. Seminiamo i fiori dei nostri carismi ed essi fioriranno dove, come e quando lo Spirito vorrà». Un futuro difficile da decifrare
          Un chiaro invito a guardare al futuro nella ferma convinzione che ha ancora senso consacrarsi a Dio, è venuto anche da Amedeo Cencini. Se è vero che un po’ tutti gli istituti religiosi hanno una “gloriosa storia” da raccontare, è altrettanto certo, però, che non ci si può sedere sugli allori che furono. Il riferimento al passato è prezioso solo se sa cogliere quella sapienza e quella ricchezza che continua a essere presente anche nel nostro tempo. Non avrebbe senso limitarsi, però, a rimpiangere e a contemplare questa ricchezza passata. Sarebbe, anzi, pericoloso, né più né meno quanto lo potrebbe essere il guidatore che s’illude di procedere rimanendo bloccato sullo specchietto retrovisore. Non c’è ombra di dubbio, dice Cencini, «che il futuro verso il quale si è incamminati è di difficile decifrazione». Ma non è proprio in questi casi, si chiede, che è possibile cogliere «la qualità della fede e della speranza?». Il rischio di abituarsi a pensare in stile riduttivo, fissi nella “contemplazione del proprio ombelico”, è dietro l’angolo. Ma così facendo «riduciamo la vocazione ad autorealizzazione, la santità ad accettazione di sé, la forza della profezia al cosiddetto senso della realtà, la passione dell’annuncio a un lavoro qualsiasi». Una certa cautela nella interpretazione dei dati statistici anche nell’ambito della vita consacrata, è d’obbligo. Non più di 40 anni fa era stata annunciata la fine della vita consacrata. «Quante volte, anche nel passato, la storia ha smentito calcoli e previsioni su vita e morte degli istituti religiosi!». Ovviamente «non c’è niente di male nel contarsi per progettare con realismo e non fare il passo più lungo della gamba». Il problema si pone quando i numeri «diventano sinonimo di riuscita, rilievo sociale, importanza politico/ecclesiale, pretesa di esser “servi utili”, narcisismo religioso, competizione intra-ecclesiale, quando la povertà delle forze diventa un alibi per giustificare la mancanza di fantasia, quando l’invecchiamento viene considerato una disgrazia e gli anziani un peso, quando l’attenzione alla quantità fa passare in secondo ordine l’attenzione alla qualità, quando troppo sbrigativamente si fa consistere la fedeltà di un istituto nel numero dei membri, nella quantità delle opere, nella visibilità sociale, nell’efficienza del lavoro, nella sua capacità d’incidere nella vita pubblica o ecclesiale». In tutti questi casi è facile lasciarsi condizionare dalla logica della “selezione avversa”, quando, cioè, invece di puntare sui migliori, si tende a selezionare i peggiori. Se la preoccupazione per la sopravvivenza fa abbassare la qualità di vita e il coraggio di proporre ideali alti, si finirà inevitabilmente per attrarre vocazioni sbagliate. «Se viviamo in modo mediocre, attiriamo soggetti mediocri». In preda all’angoscia vocazionale, è fin troppo facile, lanciando segnali sbagliati, attrarre persone sbagliate. Se, in campo formativo, la preoccupazione prima è quella di “non disturbare troppo il pargolo in formazione”, facilitandogli sempre tutto per non mandarlo in crisi!, se a causa di “allegri discernimenti vocazionali” «devono per forza andare avanti tutti, oves et boves», è fin troppo evidente che il futuro di un istituto religioso è compromesso in partenza.«Il vero problema non è se avremo o no un futuro come singole istituzioni (nel passato molte congregazioni religiose sono scomparse), ma se per colpa nostra moriremo». Non solo guardare, ma pensare il futuro
          Proprio per questo, più che “guardare al futuro”, oggi si dovrebbe “pensare il futuro”, cioè crederci, responsabilizzarsi, anzi sognarlo, dal momento che «senza sogni non si va avanti e non si costruisce nulla». Il futuro «è già iniziato», anche se non tutti «se ne sono accorti». Fra tanta “negazione di Dio” nel mondo di oggi, non si può non percepire un “invincibile desiderio dell’Eterno”. La vita consacrata è nata proprio come “desiderio e ricerca di Dio”. È un suo tratto costitutivo e originario. Con altrettanta onestà, di tanto in tanto ci si dovrebbe chiedere quale «credibilità abbia il cammino di fede di quel consacrato che sa riconoscere Dio solo negli spazi ufficiali e rituali delle sue pratiche oranti o nei suoi soggettivi percorsi spirituali, più o meno suggestivi e compiaciuti». Quale esperienza di Dio si può vantare quando «non ci si pone in ascolto umile di ogni persona né ci si fa compagno di viaggio lungo la via?».
Angelo Arrighini
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