È morta l'astrofisica che ha contribuito alla diffusione della conoscenza scientifica nel nostro Paese. Atea convinta, pensava che l'anima coincidesse col cervello.
Da ragazza sognava di diventare esploratrice, poi giornalista sportiva, forse perché si cimentava con successo nell’atletica leggera e partecipava alle adunate organizzate dal regime divertendosi un mondo (ma nel 1938, alla promulgazione delle leggi razziali, voltò decisamente le spalle al fascismo). Poi s’imbatté nella scienza e nel 1945 si laureò, con 101/110, in fisica all’Università di Firenze, dov’era nata il 12 ottobre 1922, con una tesi sulle cefeidi, stelle variabili, che pulsano regolarmente espandendosi e contraendosi, e sono fondamentali per misurare le distanze delle galassie.
Se qualcuno le avesse detto che il suo destino di astronoma era già scritto nel profetico nome della sua strada, via Centostelle, sarebbe scoppiata a ridere: niente più lontano da lei che l’astrologia, la divinazione e altre fumisterie. Non per nulla nel 1989 divenne garante del Cicap, l’associazione che da anni si batte per smascherare i sostenitori dei cosiddetti fenomeni paranormali. Dopo aver trascorso periodi di studio e di ricerca in vari istituti scientifici a Parigi, Utrecht, Princeton, Berkeley e Ankara, nel 1963 vinse la cattedra di astronomia all’Università di Trieste, dove rimase per il resto della sua lunga vita, dando grande impulso all’Osservatorio Astronomico, da lei diretto per oltre vent’anni (fu la prima donna a ricoprire tale incarico in Italia). Quindi non solo scienziata, ma anche organizzatrice di scienza, una doppia valenza di cui non sono dotati tutti i ricercatori.
Dei suoi contributi scientifici parlava con una certa modestia («Non sono un Einstein - dichiarò - non ho fatto grandi scoperte, ho portato nel mio campo un contributo al progresso della scienza»), ma raccontava con orgoglio di una sua intuizione poi confermata: «Nel 1957, durante un lungo soggiorno a Berkeley, in California, avevo fatto delle ipotesi per spiegare le caratteristiche di una stella unica nel suo genere, Epsilon Aurigae, ma per verificare queste ipotesi avrei dovuto osservarla nell’ultravioletto, inaccessibile da Terra. Quando nel gennaio 1978 fu lanciato Iue, il mio primo programma di osservazione fu Epsilon Aurigae. Ricordo che ero alla stazione dell’Esa a Villafranca del Castillo vicino a Madrid da cui si comandava il satellite e aspettavo con ansia guardando lo schermo del computer. Se la mia ipotesi era giusta sullo schermo doveva apparire lo spettro ultravioletto, altrimenti lo schermo sarebbe rimasto vuoto. Dopo qualche minuto cominciarono ad arrivare i fotoni ultravioletti e la strisciolina luminosa che avevo predetto». I suoi meriti scientifici, documentati da numerose pubblicazioni, furono ampiamente riconosciuti: era stata accolta nell’Accademia dei Lincei, nella Royal Astronomical Society e nell’International Astronomical Union e aveva ottenuto numerosi premi e gratificazione.
Nel 1944 sposò Aldo De Rosa, di due anni più vecchio (con cui giocava da bambina) e agli antipodi per convinzioni, formazione e carattere: dolce e dotato di un sottile senso dell’umorismo, timido e meditativo quanto lei era fiera e a volte aggressiva: ma gli opposti si attraggono. Lui, poi, umanista finissimo e cultore in particolare di Giuseppe Prezzolini, era capace di lunghe conversazioni che seguivano un andamento bizzarro e imprevedibile e approdavano spesso alla questione di Dio. Questione che per Margherita non si poneva, o meglio era risolta a priori, poiché era atea convinta e non coltivava nessun tipo di fede: non credeva alla vita dopo la morte e per lei l’anima coincideva con il cervello. Aldo e Margherita non avevano figli, per scelta deliberata, e supplivano alla mancanza di affetti filiali ospitando nella loro casa inerpicata sul fianco di una collina, nel quartiere di Roiano, parecchi cani e gatti, su cui riversavano grandi dosi di tenerezza. Margherita Hack, benché vissuta a Trieste per cinquant’anni, non aveva perso un etto del suo accento fiorentino né un grammo della sua arguzia toscana puntuta e a volte corrosiva: il sorriso che accompagnava quasi sempre le sue parole poteva essere cordiale, ma anche gelido e tagliente, perché sotto sotto era una persona animata da un’indefettibile ideologia di sinistra e da un profondo scetticismo nei confronti di ciò che la scienza non può affrontare. Naturalmente, vivendo entrambi a Trieste, avevamo modo di vederci e conversare.
La nostra conoscenza si consolidò nel 1978, quando fu fondata la rivista l’Astronomia, diretta appunto dalla Hack, sulla quale pubblicai diversi racconti di fantascienza, che a lei piacevano molto. Nel 1990 presentò il mio primo romanzo, Di alcune orme sopra la neve, dove la scienza è vista in modo piuttosto problematico, e ne diede una lettura di sinistra, che non mi persuase molto ma che s’intonava alla sede della presentazione, il circolo "Che Guevara". Partecipammo a diverse tavole rotonde sulla scienza e sulla tecnologia e non sempre eravamo d’accordo. Poi tutto si ricomponeva, in qualche trattoria del Carso, dove Aldo teneva banco su qualche tema affascinante sul quale ci esercitavamo con gli strumenti della retorica, e Margherita, che oltre che animalista convinta («Credo che uccidere qualsiasi creatura vivente sia un po’ come uccidere noi stessi e non vedo differenze tra il dolore di un animale e il dolo di un essere umano») era anche, di conseguenza, vegetariana integerrima, ci seguiva con curiosità moderata, spilluzzicando qualche sua verdura.
Ma, parlando della Hack, non si può ignorare la sua intensa attività di divulgazione: scriveva libri e articoli, teneva conferenze, partecipava a tavole rotonde, interveniva ai festival della scienza. Era ovunque seguita da un pubblico numeroso, che accoglieva i suoi interventi, chiari e piani anche se pieni di sapienza, con lunghi applausi. Era diventata un’icona. La vidi l’ultima volta nel novembre scorso, in occasione di un incontro su "La scienza da Prometeo al bosone di Higgs": anche se lucidissima come sempre, era molto affaticata e capii che ci avrebbe lasciato presto.
Giuseppe O. Longo
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