Perché la paura di un altro terremoto, che le voci della strada dicono sarà ancora più forte di quello di un mese fa, resta sospesa nell'aria come il temporale che sta arrivando.
del 16 febbraio 2010
 
          «Che ne sarà di noi? Non lo so. Ditemi voi cosa sarà di noi», dice Jeanclaude col suo sorriso triste. La vita è anche una chitarra che suona un ritmo caraibico, sul fare di un tramonto che preannuncia quella che potrebbe essere un’altra notte di piogge scroscianti, come solo da queste parti può capitare. Gli esperti dicono che la stagione delle piogge potrebbe arrivare con un mese di anticipo e portare il suo carico di ulteriori, pesanti complicazioni nel quotidiano dramma dei terremotati haitiani.
           Ma la musica, anche se si è giovani come Jeanclaude, e dunque col cuore che sa ancora resistere ai grandi dolori, non basta ad alleviare la fatica dei giorni che passano, sotto un tetto fatto di plastica o di cartone che marcirà sotto la pioggia. Sono giorni che, per tanti haitiani, trascorrono senza ancora avere capito cosa cambierà e se cambierà qualcosa nella vita dell’isola inchiodata dal sisma, mentre sfrecciano le jeep dei marines americani e quelle della missione Onu di stabilizzazione, seguiti da frotte di auto bianche di tante associazioni internazionali.
          Quel «ditemi voi cosa sarà di noi» pronunciato da Jeanclaude ha dentro tutta la fragilità della condizione umana. Ed è lo stesso che potrebbero pronunciare le migliaia di persone che come lui hanno la loro nuova residenza in una baracca di cartone o sotto una tenda piantata in quella che prima del 12 gennaio era la linda e ordinata piazza d’armi dei Champs de Mars, con l’unico 'privilegio' di potersi affacciare sul Palazzo del presidente andato in pezzi. Per il momento, dopo un mese, la nuova povertà di Haiti scatenata dal sisma ha solo ricongiunto un passato pieno di sofferenze a un presente che gronda disperazione e consolida la precarietà. E che potrebbe alimentare la violenza che già esisteva.
          Dolore e fatica gravano su Port-au-Prince, i suoi quartieri, le sue piazze, i suoi parchi, i monumenti agli eroi dell’Indipendenza di Champs de Mars, la Grande Rue, ogni sfogo di via che si versa sui sobborghi più disperati, nelle viscere dove governavano violenza e malattia, prostituzione e bambini consegnati da genitori nullatenenti alla schiavitù di chi può nutrirli in cambio della loro fatica. In quei meandri dove ogni spazio vuoto, accanto ai ruderi ciondolanti degli edifici rasi al suolo, si presta a ospitare quattro pali che reggano un telo cerato, si dipana la quotidianità di tre milioni di persone.
          Sono ovunque gli immensi accampamenti di fortuna: grandi, piccoli, sterminati e aggrovigliati fra loro. Impossibile quantificarli, ma è possibile accorgersi che mancano di gabinetti e acqua potabile, mentre i rifiuti si accumulano e marciscono. E le macerie restano là, mute testimoni di quanto accaduto, cumuli dove non si vedono più ruspe al lavoro. Tranne qualche caso eccezionale, come nella scuola dei salesiani dove sta operando una squadra del genio militare italiano. Sotto le macerie giacciono ancora migliaia di dispersi che si andranno ad aggiungere ai 270mila morti annunciati dall’ultimo bollettino di guerra emesso dal presidente senzatetto René Préval.
          Le cifre ufficiali si soffermano solo su scarne stime che parlano di duecentomila tende distribuite in un mese alla popolazione, e poi di aiuti che arrivano alla gente sulla strada, ma ancora insufficienti, e non a tutti. E sono, comunque, una piccolissima goccia nell’immenso mare del bisogno. Nessuno ha dati precisi sulla situazione. Solo gli occhi riescono a parlare, e solo per quello che riescono a contenere nel limite di uno guardo.
          Questi luoghi dentro a territori dove è impossibile tentare di velare la propria intimità familiare, sono costellati di sguardi, voci, situazioni, sentimenti, stanchezza, dolore, eppure anche sorrisi. Un itinerario attraverso le molte facce della disperazione, come noi la intenderemmo, mentre qui è solo e sempre stata abitudine alle privazioni e alla sofferenza.
          La musica suonata dalla chitarra di Jeanclaude accompagna i nostri passi appena oltre la fila dei panni stesi tra un cartello stradale che indica un senso unico e un altro che vieta il parcheggio. C’è una madre che si è levata la maglietta per restare a petto nudo e, con la stessa bacinella di alluminio che tra poco userà per cucinare, improvvisa una doccia sulla strada. Invece il vecchio André non ha più recuperato gli occhiali rimasti schiacciati nel crollo della casa. Non è cieco, ma è come se lo fosse diventato di colpo, e nessuno può aiutarlo. A lui, che ama leggere libri di poesie, servono solo i suoi occhiali, ma per il momento se ne sta lì sotto un telo che si deve ancora asciugare dalla pioggia della notte. Giriamo attorno alla coperta che fa da divisorio, su una branda senza materasso è disteso un bambino, avrà 10 anni, completamente nudo. È un piccolo down. L’anziana donna che gli sta accanto non è la madre, ma lo accudisce come se lo fosse. Facce e storie che si confondono tra loro, in questa piazza nel cuore ferito della capitale. È un affollarsi che raggiunge il limite e così le abitudini umane che non parlano più di intimità e timidezza, ma di inevitabile promiscuità.
          Appartato rispetto agli altri c’è un uomo che pare in uno stato di dissociazione mentale da tutto quanto gli accade attorno. Si è cosparso il corpo con qualcosa che sembra calce o talco misto ad acqua. Se ne sta piantato in mezzo alla strada, poco lontano dal Palazzo presidenziale. Quella strana ma inquietante figura è in realtà un praticante del voodoo, che con la pittura bianca è convinto che riuscirà a trasformare la sua pelle da nera in bianca per potersi confondere con gli stranieri venuti per il terremoto, e così fuggire dalla città. Qualcuno, vedendolo, commenta: «È la morte che ci guarda». Perché la paura di un altro terremoto, che le voci della strada dicono sarà ancora più forte di quello di un mese fa, resta sospesa nell’aria come il temporale che sta arrivando. Sarebbe la fine non solo per Port-au-Prince, ma per tutta Haiti.
Claudio Monici
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