L'abbandono filiale di Gesù al Padre (Mc 14, 32 ‚Äì 50). Siamo sempre stati curiosi, abbiamo sempre voluto osare e ci siamo riusciti. Così forse è di quel ragazzetto che la notte del Getsemani si è trovato...
del 09 aprile 2008
Fissiamo la nostra attenzione all’orto del Getsemani. Vogliamo farci avvolgere dalla tensione di Gesù di quella tragica notte, la notte più buia della sua e della nostra vita.
L’orto degli ulivi è un giardino che sta a ridosso della città di Gerusalemme. Dal luogo dell’ultima cena una strada tra gli alberi degrada verso il torrente Cedron e risale lievemente il pendio. Di fronte si erge la colossale costruzione del tempio di Erode. A lato della strada c’è ancora oggi un monumento sepolcrale, la tomba di Assalonne che Gesù deve aver visto tante volte.
Nel cielo la luna piena di marzo fissa i volti e le ombre con la sua luce biancastra, talora spettrale. La primavera è iniziata, la temperatura è mite.
Un gruppo di amici, che hanno cenato assieme con una tensione spirituale inusitata, si preparano a dormire sotto gli ulivi, avvolti nei mantelli, per ritornare il giorno dopo nel tempio a continuare le dispute, a godere della forza di Ges√π e della sua saggezza nel provocare alla conversione per il Regno di Dio. Ogni giorno una disputa, ogni giorno una chiarezza, ogni giorno un cerchio di opposizione dura e violenta si stringe attorno a Ges√π.
Noi russiamo troppo e stasera ancora di più. Non molestiamo il maestro, mettiamoci a distanza ragionevole. Certo che ci ha detto cose non troppo leggere stassera a cena. Se non ci avessimo questa nebbia in testa potremmo stargli più vicino. Potremmo continuare quel discorso interrotto sul monte Tabor. Là stavamo proprio bene assieme, ma non ci ha lasciato fare le tre tende per tenerci a portata la gloria infinita che percepivamo con il cuore e con gli occhi.
 
“Sedetevi qui,  mentre io prego”. Prese con sé Pietro, Giacomo e Giovanni e cominciò a sentire paura e angoscia.
Sono i tre discepoli che aveva tentato di preparare a questo scandalo trasfigurandosi davanti a loro sul monte Tabor. Ma qui Gesù è profondamente uomo, non è un eroe, non ha intenzione di fare lo stoico, che guarda dall’alto il dolore, imperturbabile, allenato agli sforzi, non è un marine, non si è temprato con le arti marziali. Gesù è ogni uomo, mostra le paure di tutti, i pensieri faticosi del vivere di ogni giorno con le quotidiane bastonate della vita, è semplicemente un uomo, nella sua umanità normale. Gesù si unisce in certo modo a tutte le nostre paure ingloriose, scioccanti, distruttrici di ogni umanità e le svuota di potenza ogni momento.
La lettera agli ebrei calca ancora di più le tinte di questa paura di Gesù: “Proprio per questo nei giorni della sua vita terrena egli offrì preghiere e suppliche con forti grida e lacrime a colui che poteva liberarlo da morte e fu esaudito per la sua pietà; pur essendo Figlio, imparò tuttavia l’obbedienza dalle cose che patì e, reso perfetto, divenne causa di salvezza eterna per tutti coloro che gli obbediscono.”. “.
Lui non può morire con la serenità del martire che muore per un ideale, che sopravvive a lui. Il regno di Dio che aveva annunciato, tutta la sua visione del mondo, la sua predicazione, l’anelito alla giustizia, la positività della comunione tra i credenti in Dio e della gioia che si sprigionava dalla loro vita, erano indissolubilmente legati alla sua persona. Lui è il vangelo è la buona notizia di Dio al mondo; con lui sarebbe stato cancellato anche il suo ideale, non ci sarebbe più stata nessuna buona notizia. L’amore e la solidarietà per cui era vissuto schiudevano l’orizzonte dell’esistenza umana al regno stesso di Dio.
E’ il disegno di Dio, suo Padre, che non può fallire.
 
Gesù disse loro: “La mia anima è triste fino alla morte. Restate qui e vegliate”.
Gesù sperimenta il fallimento, miete solo cattiveria e disprezzo, su di lui vede che ha la vittoria il male che aveva tentato in tutta la vita di sconfiggere. Il male deve sempre vincere comunque e Dio non può nulla contro di esso? La morte gli minaccia il fondamento stesso della sua esistenza e dei suoi valori. Valeva la pena sfidare il male se poi alla fine l’ultima parola se la prende il male stesso?
Se la vita è così, tanto vale rinunciare ad ogni velleità di trasformarla. Perde ogni significato e il desiderio di vita, il canto delle beatitudini, il magnificat stesso che Maria gli aveva sempre cantato si tramutano in delusione infinita. Questa è l’esperienza negativa più totale che può fare una persona, questo nulla è l’ospite inquietante che abita nel cuore di ogni uomo, che attanaglia la vostra vita di giovani. Una morte così è proprio tragica, perché non è la fine di una vita disperata e senza senso, ma la morte del senso stesso della vita.
Giuda a questo punto si è appeso a un albero. Molti giovani prendono la finestra di corsa, o lanciano l’automobile a velocità folle per sparire da se stessi, altri se ne allontanano in paradisi artificiali. Non solo il soffrire non ha senso, ma il senso non c’è, c’è solo il nulla.
L’unico atto che sarebbe possibile all’uomo senza Dio sarebbe la disperazione.
 
Poi, andato un po’ innanzi, si gettò a terra e pregava che, se fosse possibile, passasse da lui quell’ora.
Gesù invece prega. Questa non è solo una prova, Gesù deve decidere di rimettere la sua vita, la sua causa, il suo ardore missionario, la sua coraggiosa opposizione al male, la sua tenerezza, il suo sguardo amorevole per i poveri e gli ultimi della terra, nelle mani di Dio Padre. Nella sua preghiera passa in rassegna come un lampo tutta la sua storia. Nel cuore di Gesù risuona quella domanda che fin dall’eternità ha deciso l’avventura della sua vita: “Chi manderò io, chi andrà per noi? - Gli aveva chiesto il Padre - Eccomi, manda me a tentare di parlare al cuore dell’uomo che ha chiuso ogni orecchio alla tua parola. So che il tuo amore di Padre sta rincorrendo gli uomini, sta decifrando ogni minima disponibilità al tuo piano di amore, sta chiamando uomini e donne a dire un sì generoso alla tua grazia. So che ogni giorno torni in soffitta a guardare se dal viale alberato di ogni tua casa spunta il figlio che ti ha abbandonato per quattro lenticchie. Ti sento supplicare quell’altro che invece ti sta addosso, ma per i tuoi vitelli, non per te. “Figlio quello che è mio è tuo”, ma non gli importa niente di te. So che se anche una madre si dimenticasse di suo figlio, tu non ti puoi  dimenticare di nessuno.
Quando avena cominciato a girare per la Palestina Gesù aveva la lucidità della visione dei fatti che è caratteristica di ogni giovane, in un paio di anni si era fatta anche una giusta conoscenza delle ragioni del declino della religione dei padri e aveva trovato le cause oltre che nel cuore di tutti, assopito e ingabbiato dall’egoismo, anche nella mentalità dei creatori di cultura, i farisei. Praticavano tutte le sere Porta a Porta, andavano a tutti i talk show, Maurizio Costanzo, la Sette, Sat2000, perfino a Zelig venivano invitati tanto erano suadenti e capaci di costruire mentalità. E lancia i suoi guai: ipocriti, guide cieche, talebani, sepolcri imbiancati, sguatteri di lavandini sbrecciati, azzeccagarbugli, serpenti, razza di vipere, buttamassi dalle autostrade della vita. Non c’è che da leggere il capitolo 23 di Matteo per rendersi conto della forza e del coraggio di Gesù. Si firmava la sua condanna, ma aveva nel cuore il Regno di Dio che non può subire continuamente scippi di perbenismo, qualunque esso sia. Non gridava allo scandalo, ma alla possibilità di prendere coscienza di sé e degli altri, del male che ti rende schiavo e che non ha certo bisogno di silenzio complice per essere vinto. Era sempre il prudentissimo Gesù, il dolcissimo Gesù, il donato per sempre alla causa del regno. Ora è stato tutto inutile?
 
E diceva: “Abbà, Padre! Tutto è possibile a te, allontana da me questo calice! Però non ciò che io voglio, ma ciò che vuoi tu”.
Papà questo calice amarissimo faccio fatica a berlo; Io sto con te nella Trinità, questo velo di carne che mi ha diviso da Te in questi anni non è solo un velo è la mia vita che ora metto con estrema fiducia nelle tue mani. So che l’amore non ci potrà mai dividere perché tu, io, lo Spirito siamo l’amore. Questa umanità che abbiamo creato è libera e ha bisogno di una nuova creazione. Papà mi affido a te per ricreare questa umanità.
Nessun ebreo si è mai rivolto a Dio con questa parola così familiare. Gesù ha un rapporto filiale con Lui e sa che può viverne tutte le sfumature di sensibilità, di amore, di dialogo, di comprensione, di affidabilità, di serena fiducia. L’ha imparato nella vita di Nazaret, lo aveva imparato e visto scritto nei rapporti paterni con San Giuseppe, lo aveva colto nella dedizione totale di sua Madre Maria.
Questa preghiera significava la vita stessa di Gesù, ed è una preghiera che contiene ciò che ci ha sempre insegnato di dire: sia fatta la tua volontà e non lasciarci in balia della prova. E’ il Padre Nostro che noi spesso diciamo a qualche maniera, ma che Gesù ha pagato con la morte, perché si è totalmente affidato alla volontà del Padre.
 
Venne la terza volta e disse loro: “Dormite ormai e riposatevi! Basta, è venuta l’ora: ecco, il Figlio dell’uomo viene consegnato nelle mani dei peccatori. Alzatevi, andiamo!
Questi continui dialoghi, questo avanti e indietro di Gesù per rialzare la dignità dei discepoli danno l’idea della sua preoccupazione pedagogica di pastore, di amico, di maestro e di guida nei confronti di chi lo ha amato, ha dedicato la vita a lui e che ora sarà tentato di leggere la sua sconfitta come un inganno. Gesù non si concentra su di sé, non si chiude nel suo dramma, sa di avere in carico gli apostoli, quelli che aveva chiamato e che lo hanno seguito. Per loro aveva pregato già accoratamente il Padre. “Erano tuoi e li hai dati a me ed essi hanno osservato la tua parola... Io prego per loro... ora io vengo a te e dico queste cose mentre sono ancora nel mondo, perché abbiano in se stessi la pienezza della mia gioia. Io ho dato a loro la tua parola e il mondo li ha odiati perché essi non sono del mondo, come io non sono del mondo. Non chiedo che tu li tolga dal mondo, ma che li custodisca dal maligno.
Li vede, ci vede assonnati, pigri, autocentrati, incoscienti, appesantiti dalla nostra corporeità, ma soprattutto da una incapacità di entrare nel suo mistero. Gesù quella notte vede noi con le nostre tergiversazioni e i nostri dubbi, le nostre false promesse e le nostre pretese. Non ci rimprovera, non ci sopporta, ci mette davanti delle scelte da fare. La vita è in salita per tutti, vedete anche me quanto ho bisogno di affidarmi, ma non temete. Dio Padre non ci molla, non ci lascia soli, ci afferra con il suo braccio forte, che ci può far male, ma non ci stritola, ci strappa dall’affogamento e ci ributta sulla riva della vita.
 
E’ venuta l’ora.
E’ l’ora della prova, l’ora della decisione, l’ora aspettata e per la quale ha vissuto continuamente. Per ciascuno di noi viene un’ora decisiva della vita anche se si stempera in tanti momenti di difficoltà, di incertezza, di delusione, di apprensione. Gesù affronta deciso quello che deve accadere. La preghiera lo ha sorretto e gli ha dato forza. Ogni volta che viene la nostra ora, sappiamo che è legata a questa ora di Gesù.
Sulla croce ritornerà ancora la pena e la difficoltà. L’ora che giunge non interrompe la preghiera di Gesù, ma la colloca in uno stato di continuo svelamento della vita e della visione del Padre. “La preghiera di Cristo raggiunge il suo culmine sulla croce, esprimendosi in quelle ultime parole che gli evangelisti hanno raccolto. Laddove sembra lanciare un grido di disperazione: “Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?” (Mt 27,46; Mc 15,34; cfr Sal 21,1), in realtà Cristo fa sua l’invocazione di chi, assediato senza scampo dai nemici, non ha altri che Dio a cui votarsi e, al di là di ogni umana possibilità, ne sperimenta la grazia e la salvezza. Con queste parole del Salmo, prima di un uomo nella sofferenza, poi del Popolo di Dio nelle sue sofferenze per l’apparente assenza di Dio, Gesù ha fatto suo questo grido dell’umanità che soffre dell’apparente assenza di Dio e porta questo grido al cuore del Padre. Così, pregando in questa ultima solitudine insieme con tutta l’umanità, Egli ci apre il cuore di Dio. Non vi è dunque contraddizione tra queste parole del Salmo 21 e le parole piene di fiducia filiale: “Padre, nelle tue mani affido il mio spirito” (Lc 23,46; cfr Sal 30,6). Anche queste sono prese da un Salmo, il 30, implorazione drammatica di una persona che, abbandonata da tutti, si affida sicura a Dio” (Benedetto XVI, omelia nella Basilica di santa Sabina, 6 febbraio 2008).
L’eroe muore come si vorrebbe morire, Gesù muore come veramente si muore. Il fatto straordinario è che Gesù, lui che è morto così miseramente, soffrendo senza ritegno, affrontando le paure e le ansie del morire con così poco coraggio stoico, è proprio il Figlio di Dio. La sua divinità dà una particolare luce al nostro morire. Scoprire i tratti umani di Gesù non significa denigrarlo o conoscerlo male, ma illuminare la nostra vita di luce nuova, sapendo che è il Figlio di Dio.
Allora non ci è richiesto sforzo di autocontrollo, ma abbandono nelle mani del Padre. Non si tratta di predisporsi a una resa dei conti impossibile, ma di lasciarsi amare fino in fondo da Dio, morire non è lasciare l’ultimo biglietto presentabile alla società in cui viviamo, ma acquisire quella fiducia nel Padre da saperci abbandonare senza affanni nelle sue braccia.
 
Tutti allora, abbandonandolo, fuggirono.
E noi che facciamo? Stiamo ad assistere addormentati come i discepoli? Fuggiamo senza onore e dignità?
Il vangelo ci aiuta a non perdere la speranza e a non perderla proprio da giovani, con le vostre tergiversazioni, ma anche con la vostra voglia di non adattarvi, con quella beata incoscienza che vi caratterizza, che vi mette sul crinale della storia con semplicità, con ingenuità, ma anche con decisione, quando intuite  la strada giusta della vita.
 
Un giovanetto però lo seguiva, rivestito soltanto di un lenzuolo, e lo fermarono. Ma egli, lasciato il lenzuolo, fuggì via nudo.
L’abbiamo fatto tutti qualche volta il ragazzino che si infila con furbizia nei percorsi degli adulti e senza colpa né merito ci siamo trovati dentro una cosa più grande di noi, Dio non voglia, in qualche fatto di sangue o in qualche resa dei conti. Siamo sempre stati curiosi, abbiamo sempre voluto osare e ci siamo riusciti.
Così forse è di quel ragazzetto che la notte del Getsemani si è trovato con i dodici a condividere la notte dell’angoscia. Di lui non sappiamo il nome, era un ragazzetto, e se il vangelo ricorda il fatto vuol dire che nella prima comunità cristiana era conosciuto e che quel fatto gli ha cambiato la vita. Che ci faceva con il solo lenzuolo addosso là in quei giardini di notte sotto la luna piena di Pasqua? Oso pensare che era scappato di casa, per uno scopo preciso, lui aveva conosciuto Gesù e si era appostato spesso ai margini dei giardini perché sapeva che la sera passava di là.
Appostarsi per vedere Gesù che passa è un modo che i vangeli hanno di dire la ricerca di Gesù: si appostavano i ciechi, i lebbrosi, ma anche gli scribi e i farisei, si è appostato anche Zaccheo, le donne lungo la via Crucis. Nella vita ogni giovane fa esperienza di appostamento: vuole vedere Gesù.
Ci appostiamo solo curiosi o per avere da lui una risposta alle domande che ci salgono dalla vita? I malati riponevano in lui la speranza, Zaccheo si è lasciato cambiare la vita dopo averlo visto ed essere stato visto. I lebbrosi hanno osato infrangere tutte le leggi che li ghettizzavano, lontano dalla vita sociale. Noi vogliamo vedere Gesù, ma è Lui che vuol vedere noi.
Quella notte il ragazzo aveva incrociato questa allegra brigata di apostoli, reduci da una cena succulenta e ben innaffiata, stanchi e morti di sonno e si è intrufolato tra loro, con loro ha trovato compagnia, perché lui aveva una decisione incrollabile voleva seguire Gesù. Lui alle cose dei grandi non pensa, lui non sa quel che si trama a Gerusalemme, a lui non interessa la religione; sì, ha imparato qualche bella lezione in Sinagoga, si è preparato in quella interminabile serie di incontri alla Cresima, ma niente più.
Sa di stare a cuore a Dio, ma non s’intende di tutte le complicazioni con cui lo rivestono nel Tempio. Lui però ha conosciuto Gesù. E’ interessante vedere come non è il solo ragazzo che segue Gesù: sulla montagna per fortuna che ce n’è un altro che sta mangiando i suoi panini col pesce e che con generosità li mette a disposizione di tutti, tra la gente si fa strada un ragazzo ricco per carpirgli il segreto della vita piena; lungo la strada ce n’è un altro, stavolta disteso in una bara e Gesù lo risuscita e lo riconsegna vivo a sua madre, all’ingresso a Gerusalemme sono loro che gli fanno festa... (cfr Mt. 19, 16-30,  Mc 10, 17-22, Gv 6, 1-14)
Questo ragazzo è lì testimone di una notte tragica e decisiva: quello che gli si para davanti questa notte gli rimarrà negli occhi e nell’animo per sempre. Ha forse notato le lacrime di Gesù nella notte. Padre se è possibile passi da me questo calice... ma di che calice si tratta. Io ho sempre visto Gesù fortissimo, perché ora suda sangue? Me lo ricordo il giorno in cui abbiamo cantato dietro a lui con rami di ulivo. Ho ancora nella mente i suoi occhi di fuoco, quando ha buttato all’aria le bancarelle del tempio. Perché ora è così triste, perché emette forti grida e lacrime?
Lui lo seguiva e non poteva non restare incantato e turbato, assonnato come tutti i ragazzi, ma sveglio senza difficoltà quando il cuore canta a mille e l’adrenalina ti sale al cervello. Vede Gesù che alla fine si riprende nella sua statura di messia: alto, sveglio, dolente, ma capace di rendere la sua faccia dura come la pietra contro il dolore e la paura; e da ultimo ha sentito la sua sfuriata al commando del rapimento: mi siete venuti a prendere come un ladro, io non mi sono mia nascosto da nessuno, ho sempre detto alto il mio amore per tutti e voi mi avete teso una trappola come si fa coi topi! Questo orto degli ulivi non è nessuna trappola, sono io che mi consegno a voi, è importante che il piano di amore di Dio l’Altissimo, il mio amato Padre si compia; mi potevate prendere anche nel Tempio se aveste avuto in cuore un ideale e non in tasca una paga.
Tutti scappano, anche Pietro, anche gli altri; lui, il ragazzetto, non è capace di lasciare: lui seguiva Gesù. E la soldataglia non ha difficoltà a prenderlo; un ragazzo può sempre servire; a questo punto mette in atto tutta la sua furbizia e la sua intelligenza sguscia nudo dal lenzuolo lasciando in mano ai soldati solo la sua seconda pelle. E corre, forse piange, ma corre con un istinto di conservazione che vince la delusione del suo cuore.
Lui seguiva Gesù, aveva in cuore una scelta, probabilmente se ne stava facendo una ragione; se gli eventi non fossero precipitati così velocemente in quella settimana di Pasqua avrebbe potuto parlare direttamente a Gesù, avrebbe dato sfogo alla sua curiosità, comunque ne era affascinato se lo seguiva anche di notte. La notte per lui è come la notte di tutti i giovani, il tempo delle ricerca, della libertà, del volersi prendere in mano la vita, dell’avventura non calcolata. Per molti diventa il tempo dello sballo, per altri è il tempo dell’incontro con Gesù.
Ci sarà un Altro che tra qualche giorno ghermito dalla morte verrà disteso in un lenzuolo, anche Lui ne scivolerà fuori, non per fuggire dalla morte, ma con la risurrezione per vincerla: Gesù. Quel ragazzetto anticipa nel simbolo la vittoria definitiva sulla morte. Se ne fuggì via nudo, ma libero, senza niente, con il cuore pieno di un amore che al momento sembra finito in tragedia, ma che presto ritroverà la sua pienezza e la sua novità.
mons. Domenico Sigalini
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