La pietà dunque si traduce in atteggiamenti di tenera e amorosa disposizione del cuore che porta a onorare e a servire i genitori e il prossimo, atteggiamenti di testimonianza che scaturiscono da quella disposizione abituale che lo Spirito infonde nell'anima del cresimato per eccitarla a un affetto filiale verso Dio.
Educare gli adolescenti con il dono della «pietà»
Gli educatori degli adolescenti hanno bisogno di avere chiaro il significato di questo dono, che in relazione all’esperienza cristiana riguarda sia la dimensione «personale» che quella liturgica e caritativa. Certamente il dono della pietà non appartiene a quelle forme stereotipate di educazione religiosa che insistono sulle forme della preghiera o delle varie devozioni da inculcare. Il valore del dono dello Spirito è ben altra cosa, se lo si sa ben rapportare al significato che assume nella visione della vita il senso dell’identità personale cristiana (cioè il formarsi gli atteggiamenti del figlio nei confronti del Padre) e il valore della relazione «misericordiosa» verso il prossimo: dimensioni rivelate dal «Figlio» Gesù che ama il «Padre suo e Padre di tutti».
La fonte a cui attingono tutte le relazioni di Gesù (con la sua famiglia, con i suoi amici, con gli ultimi, con gli avversari) ha il suo chiaro riferimento nel suo rapporto singolare con Dio che egli chiama Padre e ne rivela il volto e i segni della paternità. Questo legame profondo non solo non lo blocca nella sua esigenza di libertà progettuale (fare la volontà del Padre), ma gli fa superare ogni contrarietà e avversità. Ed è questo il segreto della sua vita del tutto aperta agli altri e dedicata alle opere dell’amore fraterno.
Il vivere di questo «Figlio del Padre», nel suo orientamento globale e nella sua quotidianità, appare dunque segnato dalla fiducia incondizionata a lui. La sua relazione col Padre è marcata da una forte familiarità. Se tale visione religiosa appariva del tutto nuova e inaudita nella mentalità religiosa del tempo, di certo lo può essere nella vita e nella mentalità dell’adolescente nei confronti di chi gli ricorda il padre, cioè l’autorità (ammesso che oggi genitori ed educatori sappiano assumere il ruolo autorevole della «paternità»!), se non si opera con loro una riflessione che deve avere le sue ricadute nel pedagogico e nel pastorale.
Il termine evangelico «abbà», riportato dagli evangelisti, significa il tono confidenziale con cui Gesù chiamava Dio; manifesta cioè un atteggiamento visibile di un’unione intima e familiare, di un totale affidamento e di una disponibilità piena al progetto che il Padre gli chiede di realizzare. Senza un chiaro riferimento a questo legame, è impossibile comprendere a fondo il senso delle relazioni che Gesù ha instaurato con gli uomini e che propone anche oggi ai credenti di ogni età, e quindi anche agli adolescenti cristiani. E qui si colloca il dono «spirituale» della pietà…
Il rapporto di Cristo con il Padre riempie talmente la sua esistenza, per cui ogni contatto e ogni gesto, ogni dialogo con gli altri, è illuminato e riceve senso da esso. Afferma il catechismo Io ho scelto voi: «Proprio per questo amore che lo lega al Padre, perché egli forma con lui, nello Spirito, un’unità inscindibile, Gesù Cristo si sente libero di fronte alla realtà del mondo, capace di accostare tutti, anche gli esclusi, in grado di risanare la vita e di rinnovarla attraverso il perdono, non costretto né da autorità né da tradizioni umane, totalmente aperto all’amore anche di chi vuole la sua morte, fino a lasciarsi tradire da uno dei suoi e baciare da lui» (pp. 63-64).
Queste considerazioni sul rapporto tra Gesù (come Figlio) e Dio (come Padre) esprimono il carattere relazionale che deve assumere nella educazione cristiana il rapporto tra il battezzato (come il nostro adolescente che prende sempre più coscienza di essere figlio di Dio) e Dio (che si rivela come Padre).
Il significato del dono della «pietà»
Il dono della pietà esprime esattamente il rapporto filiale tra l’uomo e Dio. E il dono crismale della pietà richiede una educazione cristiana che si fa esperienza di «pietà». Nella lista dei doni, che vengono richiamati dalla catechesi del sacramento della confermazione e che sono presi dai testi del Profeta Isaia, la pietà non si trova.
È evidente che si tratta di un’aggiunta ecclesiale, in relazione al significato del Battesimo che rende i cristiani «figli» di Dio. Il dono della pietà è legato alla esperienza del figlio nei confronti del Padre e al modo di realizzare il progetto del Padre sul figlio. La pietà orienta il credente a vedere che tutto ciò che gli succede nella vita ubbidisce a una volontà di Dio che è Padre e che vuole che i suoi figli gli siano affezionati e che gli si rivolgano con atteggiamenti di fiducia. Il cristiano sa che tutto ciò è espresso anche dalla preghiera del Padre Nostro. Il dono dunque costituisce una grande energia, anche per costruirsi come persone e affrontare la vita.
I nostri adolescenti, per quanto possano aver raggiunto una prima maturazione del proprio processo di identità, tuttavia hanno ancora bisogno degli adulti da cui affettivamente dipendono e ad essi devono sempre far riferimento, non solo per quanto riguarda il perseguimento della propria vocazione umana, ma anche per la propria esperienza di fede.
In realtà, anche nella tradizione neo-testamentaria viene rivelato che la «pietas» costituisce il rapporto, il sentimento e l’attaccamento dei figli ai loro genitori. Così la visione cristiana sottolinea che lo Spirito offre la possibilità di assumere la coscienza di figli, mette sulle labbra le parole proprie del figlio, fa sentire – come figlio – la paternità di Dio.
La pietà dunque si traduce in atteggiamenti di tenera e amorosa disposizione del cuore che porta a onorare e a servire i genitori e il prossimo, atteggiamenti di testimonianza che scaturiscono da quella disposizione abituale che lo Spirito infonde nell’anima del cresimato per eccitarla a un affetto filiale verso Dio.
Così le espressioni della propria religiosità, e gli atteggiamenti della pietà filiale verso Dio portano al vero culto spirituale e al servizio verso il prossimo. Se la religione considera Dio come Creatore, la pietà lo vede come un Padre. Perciò il dono dello Spirito abbraccia un vasto orizzonte nell’esercizio della vita cristiana; essa si estende non solo a Dio, ma anche a tutto ciò che ha rapporto con lui, come la Sacra Scrittura (che contiene la sua parola), la vita futura (dove vivono coloro che abbiamo conosciuto e che lo hanno raggiunto nella gloria), le persone che vivono ancora sulla terra (verso cui abbiamo degli obblighi di relazione caritativa).
Perciò col dono della pietà viene offerto ai battezzati e cresimati un rispetto amoroso per la Sacra Scrittura, uno spirito filiale verso coloro che hanno «autorità» e che la esprimono nei segni dell’amore paterno, una carità fraterna verso gli uguali, un cuore tenero e compassionevole verso chi è bisognoso e nella tribolazione, e una piena disponibilità a soccorrerlo.
Questo dono si radica profondamente nella coscienza ben formata da una chiara identità di fede, e le conferma il dono della sapienza e dell’intelletto, e si esprime in sentimenti di dolcezza e di devozione singolare. Da questa sorgente scaturiscono le «lacrime» dei santi e delle persone pie. È questo il principio di quella dolce attrattiva che li solleva a Dio, di quella prontezza che li fa correre al servizio di Dio. È ciò che li fa soffrire con chi soffre, piangere con chi piange, gioire con chi è nella gioia, sopportare senza amarezza le debolezze degli infermi e i difetti degli imperfetti, e farsi tutto a tutti.
Si può aggiungere che il «farsi tutto a tutti», di espressione paolina, significa essere gravi e austeri con quelli che lo sono, pronti e fervorosi con chi è pronto e fervoroso, allegri con chi è di buon umore, senza tuttavia uscire dai confini della virtù, prendendo, per esempio, la prontezza nel modo in cui la prendono le persone perfette, che sono naturalmente pronte e ardenti, e praticando la virtù con misura e arrendevolezza, secondo l’umore e la preferenza di quelli con cui si ha a che fare, per quanto la virtù stessa lo può consentire.
Se un credente vuole verificare quanto abbia risposto al dono della pietà, può esaminarsi nei rapporti con gli altri. Il dono della pietà è stato respinto se ci si esprime con durezza di cuore: si ama disordinatamente se stesso se si è sensibili solo ai propri personali interessi e nulla lo tocca se non in rapporto a se stesso; non si riflette sulle offese fatte a Dio, se non si ha la forza per piangerle; non si è attenti ai bisogni degli altri e alle sofferenze del prossimo, se non si prova compassione, non ci si prende nessun disturbo per rendere servizio agli altri; non si sopportano i propri difetti; ci si irrita contro gli altri per qualsiasi inezia, si conservano nel cuore sentimenti di acrimonia o di vendetta, di antipatia o di odio nei loro confronti.
Quanto è in armonia, in questa linea, la beatitudine evangelica che corrisponde al valore del «Beati i miti»; coloro cioè che esprimono proprio la relazione di pietà verso Dio e verso il prossimo. La ragione è che la mitezza come dolcezza di cuore, togliendo gli impedimenti agli atti di pietà, la coadiuva nei suoi esercizi. Per cui i frutti della pietà sono la bontà e la benignità e che esprimono proprio il volto di Dio Padre, manifestatoci in Cristo.
Indicazioni metodologiche per l’educazione religiosa
La pastorale e la catechesi hanno il compito di rinnovare, nell’educazione cristiana degli adolescenti, la vibrazione di fede per Dio e di impegno caritativo verso il prossimo. Dio deve essere sentito interiore e vicino, legato all’uomo da un amore paterno e verso cui ci si deve relazionare con espressioni filiali.
* Una riflessione, da parte degli educatori e animatori di gruppi, deve aiutare ad imparare a considerare che quanto più una persona ha carità e amore a Dio, tanto più è sensibile agli interessi del prossimo. Allora è necessario intervenire sui ragazzi, soprattutto nel processo di identificazione per evitare che invece che partire da se stessi (identità), ci si identifichi in chi si manifesta:
– con una certa durezza di cuore (quindi verificare se stessi a questo proposito), come nei cosiddetti «grandi» del mondo, nei ricchi avari, nelle persone indifferenti ai grandi valori della vita, e in tutti coloro che non addolciscono il proprio cuore per mezzo degli esercizi di pietà e il gusto delle cose spirituali;
– nei cosiddetti dotti e sapienti delle scienze umane, che credono di essere autonomi da Dio e si compiacciono di sé vantando la propria fortezza d’animo. La storia cristiana e anche i saggi di molte religioni dimostrano che i veri sapienti sono stati anche molto pii, cioè capaci di stabilire un dialogo filiale con Dio e un atteggiamento amorevole verso gli altri. I talenti naturali o acquisiti vanno apprezzati se congiunti con il dono della pietà.
* I ragazzi devono sapere che quando un educatore stimato e rispettato per l’età (maturità e autorevolezza) e per le cariche che ricopre (ad esempio un adulto ben in vista socialmente e per cui gli adolescenti nutrono ammirazione) dimostra coi fatti di apprezzare molto le belle doti e gli uffici onorifici, o esprime le sue preferenze per coloro che emergono per intelligenza e cultura, invece che per quelli che ne hanno meno, quantunque siano più virtuosi e più pii, diventa un esempio di alta contro-testimonianza cristiana. Può diventare un veleno che si inocula nel loro cuore e di cui forse non si libereranno mai più.
* Quando il dialogo familiare è muto, l’amorevolezza che scaturisce dal dono della pietà non trova il suo primo humus naturale per esprimersi. Nella famiglia dei nostri ragazzi non ci sono soltanto genitori e figli, ma anche fratelli e sorelle. I rapporti umani si allargano, come pure il confronto e lo scambievole aiuto. È una fraternità che chiede di esprimersi in legami profondi di dialogo e di solidarietà (Prov 6, 16-19; Sir 7, 12.18).
In Israele la famiglia è di solito arricchita della presenza degli anziani. Anche verso di loro devono convogliarsi i sentimenti dei giovani: il rispetto, l’affetto, la fiducia, la venerazione per l’età e per l’esperienza che volentieri offrono agli altri.
Perciò il rapporto tra genitori e figli va costruita su una logica nuova (e in questo vanno aiutati i genitori ad essere autentici formatori di esperienze di vita cristiana). A tutti, dentro la famiglia cristiana è offerto un dono e un criterio sempre nuovo: «vivere i legami familiari nel Signore». Ciò significa che nelle vicende della vita quotidiana, come pure nei momenti importanti della vita di famiglia, ad ispirare i comportamenti di tutti i suoi membri deve essere l’amore per il Signore, cioè il vero senso della pietà filiale. Ciascuno nei suoi confronti ha sempre l’atteggiamento del figlio, anche se ciascuno a modo proprio: la solidarietà nelle difficoltà e nella gioia, il servizio reciproco, lo sforzo e la fatica di crescere insieme, la capacità di comprensione e di perdono…
* Di fronte alla tentazione, sempre insorgente nella cultura attuale, di valutare le persone per il compito che svolgono, occorre riflettere che Dio guarda alle persone, senza distinzione di ruoli, e che egli solo giudica con verità la vita di ogni uomo. «Una convivenza sociale fondata sui rapporti di forza non è umana, perché non è vivificata dall’amore, atteggiamento pietoso dell’animo che fa sentire come propri i bisogni e le esigenze degli altri, rende partecipi gli altri dei propri beni e mira a rendere sempre più vivida nel mondo la comunione dei valori spirituali» (Pacem in terris, 1).
* Il dono crismale della pietà conferma l’essere diventati figli di Dio nel Battesimo. Dice il catechismo degli adolescenti: «Il battesimo è un dono che il Signore ci fa anche per gli altri: non un privilegio che isola, dunque, ma una responsabilità che apre al mondo. Se il Signore ci ha fatto conoscere il tesoro – cioè che Dio è nostro padre e ci ama e che noi siamo fratelli –, questo tesoro non possiamo tenerlo per noi. Il cristiano è per sua natura testimone, missionario dell’amore di Dio» (p. 226).
La riscoperta del battesimo impegna il credente ad un’opera di mediazione educativa e catechistica, che non si esaurisce una volta per sempre, ma va riscoperta in ogni età e sempre con un coinvolgimento personalizzato.
* Il dono della pietà, se richiede un rapporto filiale con Dio Padre, porta anche a stabilire un dialogo amichevole con lui nell’atteggiamento della preghiera. Perciò, imparare a pregare significa imparare a vedere Dio costantemente presente nella propria vita; pregare è ascoltare e parlare con Dio: è dialogare con lui. Ma egli è invisibile, per questo spesso i cristiani (e proprio gli adolescenti) sperimentano la loro incapacità a comunicare con lui. Dove trovano gli aiuti necessari a imparare a pregare?
Al di là delle tante occasione e delle tante persone che possono diventare veri esempi di preghiera, essi saranno invitati a vedere che cosa fa Gesù, come modello e maestro di preghiera. Ci si può confrontare con la scheda che il catechismo degli adolescenti offre a questo proposito, dal titolo «Pregare: aprirsi al mistero» (cf pp. 25-27).
Giuseppe Morante
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